DISCUSSIONI MARXISTE

    E. Bartellini sembra quasi presentarmi ai lettori di Rivoluzione Liberale in veste di dimissionario da uomo pensante, prendendo sul serio (e in parte fraintendendo) una frase scherzosa di una mia polemica con Claudio Treves. Al quale - avendo egli, in un articolo dal 1919 sulla prima edizione delle mie Orme di Marx, contrapposto a talune mie considerazioni "l'inviolabile universalità della formola dal divenire rivoluzionario secondo Marx nella critica dell'economia politica" - io rispondevo: distinguiamo due questioni che non vanno confuse. C'è il problema d'interpretazione del pensiero di Marx; e c'è il problema di impostazione della nostra visione della storia e, conseguentemente, così della valutazione degli atti altrui, come dell'orientamento della azione nostra. Il primo è un problema che va discusso (naturalmente) in rapporto ai testi; il secondo va risolto solo in rapporto all'esperienza storica. Quindi vanno dibattuti separatamente e indipendentemente, e con criteri diversi: e questa distinzione io mi preoccupavo di mantenere.

    Quanto al passo di Marx, cui il Treves si richiamava, io tornavo a riferirlo per intiero, mettendo in luce come esso affermasse proprio il concetto che io gli avevo attribuito, e non quello che gli attribuiva il Treves; e commentavo; se queste parole non significano quel che io leggo in esse, devo proprio ritenermi affetto da irrimediabile deficenza mentale e dimettermi da uomo pensante. Ma ero ben lontano dal cercare nel verbo di Marx la prova della mia concezione; e soggiungevo subito: "tuttavia non dico ancora di avervi confutato. Potrei benissimo trovarmi in compagnia di Marx ed aver torto, ecc. ecc.". Rimando per la più intiera documentazione i lettori al mio libro (Sulle orme di Marx, IIIŠ ediz., vol. I, p. 71 e segg.); chè realmente, se avessi - come può sembrare da ciò che scrive il Bartellini - addotto, come principale argomento della mia teoria delle rivoluzioni, l'autorità di un testo, le mie dimissioni da uomo pensante non sarebbero state una semplice minaccia, ma un fatto seriamente compiuto.





    Ma veniamo al nucleo della discussione del Bartellini. Anch'egli distingue due punti: se Marx credesse proprio che la rivoluzione proletaria dovesse avvenire col vento in poppa e ne escludesse la possibilità in periodo di crisi - e se nella realtà (quale che fosse il pensiero di Marx) noi dobbiamo o no arrivare a simile esclusione. Distinti questi due punti, per altro, il Bartellini si occupa e preoccupa soltanto del primo: il che è poco marxistico; perché nello spirito del marxismo un problema storico non si risolve con la interpretazione del pensiero di un teorico, sia pure Marx stesso, accompagnato da Engels. In questo senso io ripeterei con Marx: moi, je ne suis pas marxiste.

    Ma anche impostando la discussione sul vero pensiero di Marx, il Bartellini mi sembra che confonda cose alquanto diverse: il massimo di sviluppo con la prosperità beata, le crisi di sovrapproduzione e le crisi di esaurimento.

    Quando io attribuivo a Marx la teoria che condizione di una rivoluzione sociale (sia nel passato sia nel futuro) sia il raggiungimento del sommo di sviluppo della costituzione economica-sociale preesistente, io non identificavo questo con un momento di fiore e di benessere, nè escludevo che se ne potesse generare un momento di crisi e di disagio. Il massimo di sviluppo non significa per sè stesso floridezza imperturbata e goduta in pieno: anzi per la società capitalistica Marx replicatamente ha preconizzato, in coincidenza col massimo dello sviluppo, una crisi di sovrapproduzione, come il Bartellini stesso ricorda. La crisi di sovraproduzione capitalistica è tanto più grave, come anche il Bartellini rileva, quanto maggiore sia il grado di sviluppo raggiunto, ossia quanto più grande sia la pienezza delle forze produttive. La produzione capitalistica raggiunge, nel suo accrescimento di intensità e di vastità un grado di capacità cui non rispondono più le capacità della distribuzione capitalistica e allora si ha una crisi, la cui gravità risponde alla gravità dello squilibrio fra produzione e distribuzione. Fino a che punto queste crisi siano superabili dalla società capitalistica, con l'aumento delle capacità di assorbimento dei mercati e quando invece divengano incompatibili con tale forma di costituzione sociale, non è possibile determinare teoricamente in antecedenza. Le previsioni, che Marx ha creduto qualche volta di poter avventurare, sono rimaste smentite dalla esperienza storica: le formazioni sociali hanno evidentemente una elasticità e una capacità di adattamento superiore ai limiti che a noi talvolta possono apparire insuperabili.





    Ma fin che questa possibilità di adattamento si riveli nella esperienza storica, è segno, certamente, che le capacità di sviluppo della formazione sociale esistente non si sono esaurite, e che, d'altra parte le condizioni, necessarie e sufficienti all'insorgere di una formazione sociale nuova, in sostituzione della vecchia, non si sono ancora pienamente sviluppate. Questo Marx espresse molto lucidamente nel passo della prefazione alla Critica dell'economia politica: "una formazione sociale non tramonta prima che si siano sviluppate tutte le forze produttive, che essa é capace di dare; e nuovi rapporti sociali non si sostituiscono ai vecchi, prima che le loro condizioni materiali di esistenza non si siano schiuse precisamente in seno all'antica società".

    Fin che la formazione sociale esistente sia capace di ulteriore sviluppo delle forze produttive, ha una funzione storica da compiere; fin che le condizioni di nuovi rapporti sociali non si siano sviluppate, questi non hanno la possibilità di sostituire quelli preesistenti. E perciò non hanno la capacità di distruggerli. On ne détruit que ce qù on remplace: è un profondo concetto storico, affermato da Augusto Comte, e confermato a noi anche dalle più recenti esperienze. Le funzioni storiche, rispondenti ad attuali necessità di vita e di sviluppo sociale, non si annullano: le forme ed istituzioni che ad esse rispondano non si distruggono, fin che la loro funzione rappresenti un bisogno reale; quando si creda pure di averle cancellate, esse, sotto l'impulso irresistibile della vita, rispuntano e ripullulano, finchè il bisogno perduri, come la gramigna, che l'ingenuo coltivatore creda di avere estirpata col falciarne le cime al livello del terreno. La storia recente di Russia è singolarmente istruttiva a questo riguardo; ed io non ho che a rimandare il Bartellini, e quanti si interessino dell'argomento, all'esame, largamente documentato, che ne ho fatto nello studio sulla rivoluzione russa, inserito nella IIIŠ ed. del mio libro ricordato.





    Quell'esperienza grandiosa può richiamarci a una distinzione necessaria che il Bartellini mi sembra dimenticare. Le crisi non sono tutte dello stesso tipo; non sono tutte crisi di sovraproduzione. E i tempi nostri ci hanno mostrato appunto una crisi mondiale, nelle cui strette ancora ci dibattiamo, che non era per altro crisi di sovraproduzione, ma di esaurimento. Ora come il sommo di sviluppo delle forze produttive, di cui io parlavo con Marx, non significava affatto di per se stesso una floridezza da Eden o da paese di Bengodi, e l'universale nuotare nell'agiatezza più rosea e ridente, ma poteva benissimo accompagnarsi col disagio di una crisi di sovraproduzione, così la crisi di esaurimento non costituisce affatto la condizione per la introduzione di nuove e più alte forme di rapporti sociali. O l'esaurimento è transitorio e superabile, e la forma sociale esistente, dopo esserne uscita vittoriosa, riprenderà, riparate le sue forze, il cammino ascensionale del suo sviluppo verso il massimo delle proprie capacità; o l'esaurimento è irrimediabile e definitivo, e si ha la decadenza e la dissoluzione della forma di civiltà preesistente, e la discesa verso la barbarie, cioè verso un grado inferiore a quello già raggiunto. La storia, che ci presenta non pochi esempi di civiltà scomparse nel dissolvimento, non considera per altro questi fatti come rivoluzioni bensì come involuzioni sociali.





    Distinguiamo dunque fra le crisi di diversa natura; e non cadiamo nell'orrore di supporre che l'antitesi, innegabile fra crisi di esaurimento e sommo di svilupo delle forze produttive, significhi pari antitesi fra questo massimo di sviluppo e le crisi di sovraproduzione, che possono invece esserne una conseguenza. E' naturale che le rivoluzioni scoppino, nella loro forma violenta e più appariscente, non quando ci sia una diffusione di benessere e uno stato generale di soddisfazione, ma quando insorga una condizione acuta di disagio; ma non basta la condizione di disagio, accompagnata da moti violenti, e da rovesciamento di un governo e instaurazione di un governo nuovo, a costituire una rivoluzione sociale. La rivoluzione non consiste nelle esteriori apparenze coreografiche, che bastano a costituire una insurrezione o una conquista armata dal potere: la rivoluzione sta nella trasformazione interiore della costituzione sociale, dei rapporti economici e delle forme giuridiche con cui la società si organizza. E' un rinnovamento intimo della vita sociale e dell'assetto storico; un processo che si può compiere anche silenziosamente, lentamente, oscuramente, senza quelle clamorose apparenze, con le quali gli osservatori superficiali sogliono scambiarlo. Mi permetta il Bartellini di rimandarlo ancora una volta al mio libro, al cap. su Forza e violenza nella storia, nel II° volume, e a quello sul Problema sociale contemporaneo (Le condizioni di una rivoluzione sociale) nel I°.

    In questo senso appunto io scrivevo quel periodo, che egli pure cita: "non c'è bisogno che le rivoluzioni si compiano (come i semplicisti della storia sanno unicamente rappresentarsi) in un modo schematico e per separazione assoluta della antica dalla nuova società... ". Anzi lo stesso clamoroso insorgere di un atto insurrezionale si può considerare veramente rivoluzionario solo quando scaturisca da tutto un processo di trasformazione in via di compimento, che allorquando trova un ostacolo fa come la corrente sbarrata da una diga: si accumula e fa massa, fin che precipita in cascata rumoreggiante e spumeggiante dall'alto dell'argine sommerso.





    Lo sbarramento dello sviluppo delle forze produttive in regime capitalistico può essere dato appunto da una crisi di sovraproduzione. Le forme di proprietà e i rapporti di distribuzione esistenti appaiono allora come un ostacolo, che tende ad arrestare lo slancio e la spinta in avanti delle forze produttive. E queste, che sono in piena efficienza e non nell'impotenza dell'esaurimento, fanno impeto con la vigoria appunto dal loro sviluppo, e possono abbattere l'ostacolo per proseguire, entro nuove forme, quello svolgimento ulteriore che le vecchie forme erano ormai incapaci di contenere. Ma che cosa significa questo conflitto tra le forze e le forme, se non il raggiungimento del massimo di sviluppo compatibile con quelle forme? Certo quel massimo di sviluppo è da interpretarsi cum grano salis; ma il grano di sale può avere anche sapore contrario a quello che il Bartellini è unicamente disposto a sentire. Giacchè ogni crisi di sovraproduzione rappresenta un conflitto tra forze produttive e forme di distribuzione e di proprietà; ma non per questo vale senz'altro a generate una rivoluzione. Finché le forme siano capaci di una certa elasticità, invece di irrigidirsi nella resistenza, la soluzione del conflitto si compie ancora entro di loro; e per ciò più volte è accaduto che lo sbocco rivoluzionario atteso da Marx è rimasto eluso.

    Certo può anche accadere che una rivoluzione proletaria insorga (come il Bartellini riafferma con Engels) anche prima che sian create le condizioni per la socializzazione totale dei mezzi di produzione; ma che ella possa veramente riuscire una rivoluzione, e non soltanto una temporanea conquista del potere politico, ossia un effettivo e stabile mutamento sociale e non un semplice tentativo destinate a fallimento; dipenderà della sufficienza delle condizioni già raggiunte. Le quali bisogna che permettano la temporanea coesistenza, nell'assetto sociale, di elementi di socialismo e di residui di capitalismo, senza che nel loro contrasto questi ultimi possono finire per avere la prevalenza. La conquista del potere potrà aiutare lo sviluppo a compiersi con ritmo accelerato, quando si appoggi a condizioni valide a dare un saldo sostegno all'opera sua; nel caso di insufficienza delle condizioni stesse segnerà, con la sconfitta successiva, un arretramento a posizioni ben meno avanzate, di quelle che senza il tentativo rivoluzionario sarebbe stato possibile mantenere. Le grandi esperienze storiche dei nostri tempi non debbono esser passate senza darci questo insegnamento. Marx, se fosse vivo, considererebbe più conforme allo spirito della sua dottrina volgersi agli insegnamenti della storia, che attenersi ai suoi testi. Una concezione critico-pratica, qual'è la sua, è agli antipodi dello scolasticismo.

RODOLFO MONDOLFO