Risorgimento

SANTAROSA

    La cultura piemontese del primo ottocento fu all'avanguardia della polemica contro la rivoluzione francese. Prescindendo dalla polemica dei reazionari che deriva direttamente dallo spirito dell'epoca (la Restaurazione), la posizione antifrancese di romantici e progressisti si può giustificare per due ordini di considerazioni.

    I romantici capivano che le tradizioni spirituali del paese erano legate al cattolicismo: l'anticattolicismo sensista dei Francesi screditava la causa della rivoluzione che per ragioni di opportunità, di adattamento e diciamo pure di razza conveniva fosse cristiana, correzione dall'interno, non distruzione, dei cattolicismo.

    I progressisti si trovarono sotto Vittorio Emanuele I in piena reazione, col ricordo dei bei tempi e di Carlo Emanuele III e di Vittorio Amedeo II, principi riformatori, che avevano cercato di fare del Piemonte uno Stato moderno. A questa decadenza non era estraneo un vero esaurimento della casa regnante (ormai estinta nel suo primo ramo, ridotta a far succedere sul trono per quasi mezzo secolo i nipoti sempre più indifferenti e apolitici di Carlo Emanuele III: ma la ragione apparente e in realtà l'occasione si attribuiva all'intervento francese, che di una Casa indipendente aveva fatta la schiava dell'Austria.

    Santarosa sentì vivacemente questo doppio ordine di motivi alla propria condotta.

    Apparteneva a una famiglia di nobiltà recente, nobiltà concessa in premio per servigi al re - il lealismo illuminato era in lui tradizionale. Il mestiere della corte non aveva ancora corrotto le virtù di iniziativa dei Santarosa; portavano il carattere del seicento e del settecento, burocrazia ligia al re perché il re rappresentava lo stato moderno anche contro la più antica nobiltà feudale. Si trattava di una vera borghesia che aveva trovato la nobiltà attraverso agli impieghi.





    L'ambizione della gloria, il senso delle virtù militari e statali erano nel sangue di questa famiglia che aveva concepito col re il grande sogno del Piemonte capace di difendere in qualunque caso con le armi la sua indipendenza. Il ritratto che ce ne ha lasciato Cousin è il ritratto del militare piemontese. "Santarosa era sui 40 anni, di media statura, cinque piedi e due pollici circa. Grossa la testa, calva la fronte, labbra e naso fin troppo grandi; portava abitualmente gli occhiali. Nulla d'elegante nei suoi modi; un tono maschio e virile sotto forme del resto squisitamente cortesi. Era tutt'altro che bello: ma il suo volto, quando s'animava, ed era sempre animato, aveva qualcosa di così appassionato da attrarre. Era sopratutto singolare in lui la forza fisica eccezionale. Né grande, né piccolo; né pingue, né magro, era un leone per vigore ed agilità. Per poco che cessasse di contenersi il suo non era più un camminare, ma un correre a balzi. Aveva muscoli d'acciaio e la sua mano era una morsa in cui serrava i più robusti. L'ho visto sollevare, quasi senza sforzo, le tavole più pesanti; era capace di sopportare le più lunghe fatiche, e sembrava nato per le fatiche di guerra".

    Tra le fatiche della guerra era vissuto ancor fanciullo accompagnando il padre nelle campagne del 1792 - 93 contro la Francia. Nato bel 1783 egli appartiene in modo caratteristico a quelle generazioni che l'esperienza pratica della Rivoluzione Francese volse a grandi sogni, togliendoli a forza alla loro vita tradizionale, senza lasciar loro il tempo di consolidare queste aspirazioni con forti studi. "Il nostro - scrisse più tardi il Santarosa - è il tempo della cultura parcellare". La Restaurazione ne avrebbe fatto poi dei romantici appassionati e degli spostati.





    Un regime provvido, come il piemontese del primo settecento, avrebbe trovato il modo di valorizzare queste energie, che certo avevano più spirito di statisti e d'amministratori che di cospiratori. Sindaco di Savigliano a 24 anni, sottoprefetto di Spezia, capitano dei granatieri nella campagna del '15, poi impiegato del Ministero della guerra Santarosa sarebbe stato un uomo prezioso per i vecchi Savoia. Il suo lealismo era incondizionato. "L'abdicazione di Vittorio Emanuele - scriveva egli nel '21 - fu una prima sciagura. Noi tutti lo sentimmo. Io ne piansi lacrime amare: io che alla persona del Sovrano portavo vivissimo affetto e mi pascevo della speranza, che divenuto monarca di otto milioni di italiani mi perdonerebbe un giorno d'avergli recato momentaneo dolore".

    Di quest'uomo d'ordine la stupida reazione fece un sovversivo: di questo funzionario d'istinto che, sposatosi subito dopo la Restaurazione, avrebbe dedicato tutta la sua vita alla cosa pubblica e ad educare dei figli devoti allo Stato, fecero un esule e un cavaliere errante.

    Invece Santarosa non era neanche un utopista: stile e pensiero in lui si definivano in un liberalismo moderato, lungimirante, concepito come arte di governo.

    Non il visionario, non l'uomo di dottrina, ma il cittadino si ribellava al regime poliziesco e alla violenza delle sette retrive che gli ispiratori di Carlo Emanuele I avevano importalo in Piemonte. In Santarosa reagiva contro questo illegalismo dominante il senso della dignità civile.





    "Il nostro governo era pienamente assoluto di diritto e di fatto. Il Piemonte è troppo progredito nella civiltà per potersi a ciò rassegnare, sopratutto dopo l'esperienza fatta dal 1814 in poi dell'impossibilità di avere almeno una buona amministrazione con un tale governo. Se il Re si limita semplicemente a temprare la monarchia pura con istituzioni che la ravvicinino al governo rappresentativo senza però instaurarlo, noi saremo condotti da una tendenza irresistibile a sollecitare sempre istituzioni più liberali: gli animi non si quieteranno, non si vedrà quanto si è ottenuto, si vedrà solo ciò che resta a conseguire. Non avremo né pace, né riposo; né felicità. Non credo che i miei concittadini abbiano invincibili preferenze per talune forme costituzionali piuttosto che per delle altre: ma sono convinto che occorrano loro delle istituzioni che assicurino la libertà individuate, l'eguaglianza dei diritti civili, l'indipendenza dei tribunali, la responsabilità dei ministri, la libertà della tribuna e della stampa, guarentigie di tutte le altre.

    Persone eminenti nel mio paese giudicano diversamente: non pongo in dubbio la loro buona fede, le accuserò solo di non conoscere le vere condizioni dello spirito pubblico, di non averle studiate, di non averne indagate le vere sorgenti, e di abbandonarsi a illusioni funeste".

    Con questo sogno di uomo d'ordine e di Stato Santarosa operò nel '21. Egli non era un rivoluzionario: se dunque peccò di ingenuità tattica converrà un'altra volta accusarne i tempi.





    "Venti volte Santarosa mi protestò - scrive il Cousin nel ritratto dedicato all'amico - che i suoi amici è lui non avevano annodati rapporti con le società segrete se non assai tardi, all'ultima estemità, quando era ormai patente che il governo piemontese né voleva né poteva resistere all'Austria - che un movimento militare sarebbe impotente, se non appoggiato ad un moto civile - pel quale era indispensabile il concorso delle società segrete. Egli deplorava questa necessità, e accusava l'aristocrazia, gli abbienti piemontesi d'aver rovinato il paese a sé stessi, non compiendo il loro dovere, non dando l'allarme al re su pericoli del Piemonte, e sforzando così i patrioti a ricorrere ad occulte trame. La sua lealtà ripugnava da ogni segretume e senza ch'ei mel dicesse vedevo chiaramente che il suo spirito cavalleresco provava una specie di intima vergogna d'essersi a poco a poco lasciato sospingere a quella estremità. Continuamente mi ripeteva: "Le società segrete sono la peste d'Italia; ma come farne senza, quando non abbiamo pubblicità qualsiasi, nessun mezzo legate d'esprimere impunemente le nostre opinioni?". Mi raccontava che per lungo tempo s'era arrestato al pensiero di non partecipare ad alcuna società, di astenersi da ogni azione, e limitarsi a grandi pubblicazioni morali e politiche, capaci di influire sull'opinione pubblica e di rigenerare l'Italia. Era quella com'egli chiamava una cospirazione letteraria. Sarebbe riuscita di certo più utile della levata di scudi del 1821. Il suo sogno era di ricominciare questa cospirazione letteraria in Francia: si consolava pensando di non aver fatto nulla per suo interesse personale, ma d'essersi unicamente preoccupato del suo paese".





    Era naturale che come teorico questo martire dell'assolutismo dovesse riuscire inferiore a sè stesso. Aveva trascorsa la giovinezza in campo o nell'amministrazione pubblica, costretto a pochi studi; tagliato fuori dalla grande corrente europea di pensiero, che egli riusciva soltanto a indovinare, come lontana ispiratrice della sua azione. In Francia trovò in Montesquieu il suo autore: ma continuavano a frenarlo pregiudizi teorici di cattolicismo e di moderazione che era facile correggere in pratica, impossibile superare nel tormento della riflessione. Non si può pensare senza commozione agli abbozzi di Santarosa, di frammenti dei suoi scritti politici, alle notizie di studi e di elaborazione che si hanno dalle sue lettere. Una personalità incompiuta per forza di eventi. Il suo pensiero doveva lottare prima di tutto contro la sua solitudine. Nessuna tradizione lo sorreggeva, gli pesava l'esilio; la mancanza di un'atmosfera di studi l'impossibilitá di ogni controllo e di ogni collaborazione davano al suo spirito le inquietudini dello spostato, dello sradicato.

    Esaminando le sue ideologie bisogna tener conto di questo senso del provvisorio. Non era facile per un funzionario piemontese attaccato specialmente al senso del dovere e della dignità passare ai grandi sogni di democrazia europea.

    Santarosa continuava a credere che l'opera rivoluzionaria dovesse essere compiuta da un principe, il termine sarebbe stata la confederazione, benedetta dal Papa, indipendente dall'Austria: il suo spirito civile era alfieriano e s'alimentava di leggende eroiche, poneva accanto all'indipendenza il concetto di libertà, ma lo concepiva in modo soltanto giuridico senza giungere a capire che la libertà come vera autonomia è conquistata dai popoli e non donata dai principi; ed egli rimpiangeva che nel 1733, 1734 Carlo Emanuele non fosse arrivato a concludere la confederazione nazionale. Questa assenza del pensiero di Stato, come Stato-popolare, è poi la deficenza di tutto il nostro Risorgimento fallito.





    Come tutti i filosofi del romanticismo italiano, il Santarosa afferma con sicurezza che vita non vi può essere senza che sia vita religiosa, e la filosofia stessa deve avere il suo centro e il suo organismo nella religione. E religione doveva essere concretezza di valori ed esaltazione di libertà. Concetti che non si possono intendere se non si vedono nella opposizione, già indicata, al sensismo francese. Qui il Santarosa va oltre l'Alfieri. La reazione alle idee edonistiche e sensistiche del '700 doveva condurre a un approfondimento dei valori spirituali e all'affermazione della storia, della tradizione, contro l'enciclopedia astrattista, individualista e antistorica. Solo così si sarebbe compiuto il ciclo, ed esplicato tutto il senso ideale implicito nella rivoluzione francese. Ma storia e tradizione si ritrovavano nel cattolicismo, il solo sistemar che potesse salvare i valori spirituali per le menti non ancora mature alla rivoluzione kantiana... Santarosa è uno degli iniziatori di questo processo che si chiarirà con la negazione del cattolicismo fatta da un punto di vista religioso. Egli è romantico in tutto il senso del concetto: spiritualista, patriotta, ricercatore di storia nazionale. Ma è alla prima fase del romanticismo e perciò incapace di liberarsi delle contraddizioni sentimentali, e di prender coscienza netta delle sue intuizioni, sviluppandole. Resta un precursore. S'impiglia in una forma di necessaria aberrazione mistica, che sarà poi teorizzata dal suo profondissimo amico Luigi Ornato. E il suo misticismo (che è della tempra stessa di quello che avevano affermato Rousseau in Francia e in Germania il Jacobi) da anima e calore al suo concetto di libertà. Questa politicamente si afferma come necessità del governo popolare, realizzato in leggi alle quali il governo è sottoposto. Anzi (e qui è anticipato il pensiero neoguelfo) la religione stessa deve essere cattolica e in nome del cattolicismo bisogna compiere la rivoluzione, perché il popolo è cattolico. E tanto domina la sua mente il concetto semplicistico della identità di religione cattolica e di libertà (vero soltanto nella contingenza e necessario nel 1815 contro la Santa Alleanza), che egli non affronta neppure il problema delle relazioni tra Chiesa e Stato. Non era rimasto in lui il ricordo delle lotte giurisdizionaliste in cui i suoi padri avevano appoggiato il Re contro l'invadenza di Roma.





    Uno stesso contrasto domina le idee del Santarosa rispetto al problema politico immediato. Con saggezza precorritrice del Balbo (che sarà però ben altrimenti sicuro) egli ha visto che il problema centrale dell'Italia è l'indipendenza dall'Austria: perciò non si pone neanche il problema dell'unità, ma sulle orme del Napione vagheggia confederati con gli Stati del centro Napoli e i Savoia, signori del Nord. Per raggiungere questi risultati bisognava formare una classe dirigente: opera tormentosa a cui lavorarono con Santorre dal 1815 al 1821 Ornato, Balbo, Provana e altri oppositori: l'opera fu interrotta dall'esilio e ripresa poco prima del 1848. Fallita di nuovo, fu fatta dimenticare dal fenomeno Cavour, ma si ripresentò con la stessa necessità ora oggi insoluta, per l'eredità cavouriana. Il Santarosa vide soltanto da lontano questo grande problema: la reazione costringendo la politica nelle posizioni pregiudiziali, facendo rinascere la lotta per le condizioni elementari, restringe per sua natura gli orizzonti spirituali, impone ai cervelli le sue misure, corrompe le idee, stronca le tradizioni. In queste condizioni salvare la propria anima, rimaner fermi alle proprie posizioni, resistere è la sola prova di nobiltà e di superiorità che si chiede alla vittima.

    Certo è un'ironia che Santarosa muoia il 9 maggio 1825 per la libertà della Grecia, con perfetta ingenuità: "Sento per la Grecia un amore che ha qualche cosa di augusto: è la patria di Socrate, capisci?". Ma questa ironia della storia si rivolge contro chi lo tradiva nel '21.

p. g.