DISCUSSIONI MARXISTE

    Alcuni interpreti del marxismo ritengono e sostengono che la Rivoluzione Proletaria si rende possibile soltanto quando tutte le forme della nuova società si sono precedentemente incubate nel seno della società precedente. In altre parole si tratterebbe proprio del pulcino che rompe il guscio; e se per giungere a questa rottura si rende necessaria un pò di violenza, questa è la famosa "ostetrica" della nuova società a non certamente la genitrice della medesima.

    Ma la verità é che non esiste una linea di demarcazione netta fra due società delle quali l'una sia ad un tempo generatrice e destinata vittima dell'altra. Ed è per questo che la rivoluzione politica del proletariato, quando le premesse economiche minime sussistono, può rendersi possibile anche se per un lasso di tempo, più o meno lungo si dovesse verificare la coesistenza di una società agonizzante e di una società in pieno e rigoglioso sviluppo ascensionale.

    Lenin affermava giustamente che nessun muro della China separa la classe lavoratrice dalla vecchia classe borghese e che "se scoppia una rivoluzione, i fatti non avvengono come se si trattasse della morte di una persona, per cui il cadavere vien portato via; se la vecchia società muore, non si può mettere il suo cadavere in una cassa, inchiodarlo bene e sotterrarlo; esso putrefa del nostro ambiente e ci appesta tutti".

    Concepire il proletariato rivoluzionario nell'attitudine di scuotere l'albero della vita per vedere se la "sua" pera è matura e, ove questa non lo sia, immaginare che esso debba riporsi a giacere sul suo pagliericcio per aspettare le poche ore necessarie a tale maturazione è puerilità senza scusanti.





    Ora lo stesso Mondolfo, che è fra i più acuti marxisti italiani, ripeté più volte che per la rivoluzione è condizione sine qua non che la società precedente abbia raggiunto il massimo sviluppo: ne parla, per citare, nel capitolo "Il socialismo e il momento storico presente" e nella lettera al Rabano (Claudio Treves), dove giunge a protestare che, se la sua interpretazione del passo relativo di Marx non fosse la più esatta, egli si dimetterebbe da uomo pensante. Ma ecco che egli stesso, non potendosi sottrarre ad una meno aprioristica e ad una più realistica valutazione dei fatti sociali, è costretto ad ammettere che: "non c'è bisogno che le rivoluzioni si compiano (come i semplicisti della storia sanno unicamente rappresentarsi) in un modo schematico e per separazione assoluta della antica e della nuova società; anzi elementi e forme di questa possono nascere, vivere e svilupparsi, quando quella non sia ancora caduta in dissolvimento; e possono così meglio prepararne la sostituzione decisiva e feconda". Non si saprebbe trovare una ragione plausibile che contrastasse la possibilità del viceversa; che negasse, cioè, la possibilità della coesistenza di elementi e forme di entrambe le società anche dopo la rivoluzione, fino a completo esaurimento delle forme della vecchia società. Ed ecco come Lenin poteva asserire che nessuna grande rivoluzione si è mai svolta in altro modo né può svolgersi altrimenti ed aggiungere: "dobbiamo lottare per tener vivi i germi del mondo nuovo il quale sta per sorgere in un'atmosfera pervasa dai miasmi che si sprigionano dal cadavere decomponentesi della società borghese".





    Ora tutto si riduce a sapere:

    a) se Marx pensava proprio che la Rivoluzione Proletaria dovesse avvenire col vento in poppa, e cioè nel punto di massimo sviluppo e in quello solo o comunque escludesse la possibilità che avvenisse in periodo di crisi;

    b) se, nella realtà, qualunque fosse il pensiero di Marx, è da escludersi che il periodo rivoluzionario possa coincidere con un periodo di crisi della borghesia.

    Secondo Marx, tutto il pensiero organico di Marx, alla rivoluzione si sarebbe arrivati attraverso ad una crisi di sovrapproduzione: egli studiando il meccanismo della società capitalistica, aveva dovuto fermare la propria attenzione sul fenomeno delle crisi a ripetizione che contiene in sé il germe della rovina di questo regime. Invero il processo dialettico nel quale si svolge e si sviluppa la società borghese è costituito proprio da questa fatale contraddizione fra i due termini, sviluppo e crisi, che sono come la tesi a l'antitesi nei quali si risolve la prassi borghese: e se, per quella concezione, fondamentale al marxismo, del rovesciamento della prassi, la crisi determina le condizioni per una novella ripresa del cammino più volte rifatto verso una meta non ancora raggiunta, ciò equivale a rappresentarci il mondo capitalistico, quale veramente è, come un Prometeo incatenato nelle ferree morse della sua contraddizione. Ora, secondo Marx; si sarebbe effettivamente giunti ad un punto critico tale per cui la crisi di sovrapproduzione avrebbe posto in contrasto assoluto e definitivo le forze produttive con i rapporti di proprietà, dal quale contrasto sarebbe balzata, come una sintesi perfettibile, la nuova società.





    In altre parole, se Marx poneva pregiudizialmente la condizione del massimo sviluppo, egli non escludeva il verificarsi di una crisi-catastrofe le cui conseguenze si presentavano calcolabili solamente dal punto di vista della inevitabile surrogazione di nuove forme sociali. Attinto una volta, infatti, il vertice del suo massimo sviluppo, questa vecchia società non avrebbe avuto altro compito (la sua struttura tecnico-giuridica essendo perfezionata) e sarebbe stata spazzata via violentemente dalla forza irruente e prorompente del proletariato.

    Si può dire che Marx ha profondamente intuito il valore ed il significato delle crisi economiche ricorrenti ad ogni tappa dello sviluppo del capitalismo.

    Questo sviluppo si può anzi considerare come caratterizzato da ondate successive sospinte verso la méta. Coteste onde economiche, di natura facilmente individuabile poiché corrispondono necessariamente ai periodi che intercorrono da una crisi all'altra, si possono agevolmente tradurre, come rappresentazione grafica a scopo di studio, in una curva di cui la parte ascendente, più lunga, corrisponde al periodo di lento sviluppo, e quella discendente, più breve e precipitevole, al periodo di crisi. L'analisi delle crisi, ad opera della statistica, ha dato risultati consimili per tutte le crisi.

    Ora la crisi non dissolve tutto il conquistato; non distrugge, cioè, tutto il miglioramento tecnico produttivo ed organizzativo conseguito nel periodo di floridezza; tuttavia essa si ripercuote sulla società tanto più quanto maggiore è il grado di sviluppo raggiunto. E' agevole comprenderne le ragioni. Con l'ampliarsi di codeste onde economiche aumenta la superficie di interessi e di equilibri racchiusi in esse e, al sopravvenire di una crisi, aumenta di conseguenza il numero degli interessi ed equilibri che vengono turbati.

    Così, dunque, con questi alterni ricorsi, la società capitalistica si avvicina al suo massimo sviluppo che é, ancora, la partenza da una crisi, il raggiungimento dell'acme di sviluppo, e il precipitare in un'ultima crisi alla quale collabora attivamente il proletariato.





    Ha escluso questo Marx? E' certo anzi che egli (pur non volendo investirlo nel ruolo di Tiresia, ché sarebbe repugnante confondere le sue previsioni rigorosamente scientifiche con divinazioni da aerimante), concependo la fine del capitalismo come una catastrofe prodotta, fra l'altro, anche e non esclusivamente dall'urto violento delle due forze antagoniste, intendeva tener presente la possibilità di cotesta crisi finale del capitalismo che avrebbe agevolato di molto il compito del proletariato.

    E' così che l'Engels (il richiamo ha valore perché l'E. fu il più assiduo collaboratore di Marx e ne è stato il più fedele interprete) poteva scrivere nel 1887 che una guerra europea, non solo avrebbe condotto alla detronizzazione di parecchie dozzine di teste coronate, senza che nessuno sorgesse a difenderle, ma che avrebbe avuto per conseguenza la barbarie e l'arretramento di tutta l'Europa; mentre però in pari tempo, essa avrebbe condotto al predominio della classe lavoratrice o alla creazione di condizioni tali da condurre questa al potere.

    L'Engels stesso, dunque - cioè il più diretto continuatore dell'opera di Marx - confermava la possibilità della rivoluzione in periodo di crisi. E lo stesso Engels, altrove, non richiedeva come condizione per l'instaurazione della nuova società la possibilità di una immediata totale trasformazione della struttura sociale, ma ammetteva che la Rivoluzione Proletaria potesse avvenire anche prima che si fossero create le condizioni per la socializzazione totale dei mezzi di produzione. Ciò che comprova come quel massimo sviluppo proposto dal Marx come condizione per la rivoluzione, sia da interpretarsi cum grano salis e non in modo assoluto.

ERMANNO BARTELLINI
Questo saggio marxista, anche se non corrisponde completamente al pensiero di R. L., ci sembra utile per la discussione.