IL FEDERALISMO DI C. CATTANEOIl Cattaneo pensava che la libertà dovesse identificarsi con la repubblica federativa (1), ed ecco la ragione della sua predilezione per la Svizzera e per l'America: "solo al modo della Svizzera e degli Stati Uniti può accoppiarsi unità e libertà; e la condizione prima per la libertà della repubblica, è che essa sopprima l'esercito e formi la nazione armata: "la condizione suprema della libertà fu intesa solo dagli Svizzeri e dagli Americani: militi tutti e soldati nessuno". (S.P.E. I. 275). "Io sono federalista, cantonalista; e non intendo meglio le funzioni repubblicane che le regie", scriveva ad un amico nel '49 (S.P.E. II, 1). Perché era repubblicano? Perché "il principio repubblicano, covando dalle viscere della nazione quelli che devono guidarla, improvviserà effetti meravigliosi" (S.P.E. II, 15). Si doleva che la federazione non fosse intesa, e ne recava la ragione al fatto che non ebbe mai propaganda. "Non v'è religione senza predicatore. L'Italia è fisicamente e istoricamente federale" (S.P.E., II, 21). E "il federalismo è la teorica della libertà, l'unica possibil tecnica della libertà, anche quando non è voluta da diversità di razze, di lingua, di religione"; non questione di ambizioncelle locali (S.P.E., II, 42). Più che da ragioni teoriche e filosofiche egli perveniva al concetto della repubblica federativa, dalla osservazione dei fatti. La costante e non mai intermessa sua ammirazione per la Svizzera e l'America ne fa fede. Prima del 1848 il Cattaneo sperava dall'Austria una riforma federale: perciò non aveva mai caldeggiato le insurrezioni, anzi le aveva sconsigliate. Ma dopo il '48, quando vide che le sue speranze erano andate irrimediabilmente deluse, caldeggiava qualunque guerra da qualunque parte venisse, purché fosse rivolta contro l'Austria. Egli si era finalmente acconto che l'Austria centralista, burocratica, sospettosa di tutte le nazionalità, non avrebbe mai accondisceso a che si formasse una federazione di Stati liberi ed uguali. E però ora voleva che i singoli Stati italiani conquistassero, "unguibus et rostris", la loro libertà e indipendenza, e si confederassero con patto di solidarietà perpetua contro ogni pericolo straniero. Nelle "Considerazioni" al primo volume dell'Archivio Triennale, egli scrive: "Quell'Austria federale che aveva potuto nello stesso tempo governare le Fiandre col consiglio di vescovi intolleranti, e Milano con quello di audaci pensatori, e regnare in Ungheria col libero voto di genti armate, erasi estinta con Maria Teresa. Già con Giuseppe di Lorena erano tese d'ogni parte le stringhe dell'antica centralità... Per farsi strettamente una, l'Austria doveva preferire una lingua fra dieci: elevare a dominio una minoranza: configgere sul letto di Procuste tutte le altre nazioni". Da quel giorno cominciò la sua decadenza materiale e morale: le finanze austriache vacillavano sotto il peso dell'esercito stanniale, unico vincolo tra le ripugnanti membra dello Stato. Cosicché quando colla caduta di Metternich, l'Austria avrebbe potuto tornare federale, togliendosi di collo "il capestro della centralità", unica via di rifarsi moderna, e cessar d'essere "il tormento delle nazioni", essa invece "mutò solo il nome alla vecchia catena". Una costituzione unitaria che chiamava a una sola assemblea tutte le genti dell'imperio, tornava assurda e impossibile... Le nazioni, schierate a fronte in quel babilonico conciliabolo, in un proposito solo potevano tutte accordarsi, di ricusar tutto alla ministeriale arroganza... L'Austria non volle essere una federazione di popoli sé-reggenti; non volle essere una federazione commerciale, presieduta, splendidamente da una famiglia di dogi ereditari. Ebbene, che divenne ora l'Austria? Divenne una federazione (sempre una federazione) di satrapi militari, che tengono la mano sui tributi delle provincie, e lasciano agli arciduchi una banca vuota, un titolo svanito, e la responsabilità di quanto d'atroce si commette in loro nome". Se la guerra del '48 fosse stata veramente federale, avrebbe sortito ben diverso effetto: le forze combattenti sarebbero state in gran numero superiore, e non si avrebbe avuta la preminenza del Piemonte, il quale non contribuì che a suscitare invidie e ribellioni tra coloro che volevano rimanersi indipendenti dalla sua supremazia. C'è poco da dire, ma é così! La sconfitta fu l'effetto della mania della fusione, della confusione, che voleva unire ciò che non voleva essere unito. E imaginate voi, se il Piemonte avesse vinto? non si sarebbe fondata ugualmente la libertà! La Francia e la Spagna in mano dei governi; al contrario della Svizzera e dell'America, dove ogni singolo popolo tiene ferma in pugno la sua padronanza e la sua libertà. C'è poco da dire, ma questa é la virtù dei principi, fuori dei quali ogni sforzo di sacrificio e di volere é vano. "Né giova illudersi col dire - continua Cattaneo - che questi non siano principi; son principi anch'essi di diritto; sono per lo meno principi di politica; e la politica è la necessaria tutrice del diritto; e principio è tutto ciò che genera inevitabil serie di conseguenze. Né giova illudersi col dire che, per poco che si aggiunga, e per poco che si tolga, la federazione viene bel bello a confondersi coll'unità; poiché in tutte le faccende del mondo il passaggio da cosa a cosa si fa per gradi; e talmente per gradi si procede dalla pianta all'animale e dalla foglia al fiore e al frutto, che la scienza non può additare il punto ove il passaggio avviene. Non per questo alcuno cambierà mai il fico colla foglia o la pecora coll'erba che la pasce, o la paterna presidenza di Washington colla truce dittatura di Cavaignac". È, certo però che qui il Cattaneo, malgrado le incontestabili ragioni che ha detto, non ha determinato in che si differenzi l'unità dalla federazione. Lo fa però in seguito, e dice che gli uomini "sempre in preda a precipitose astrazioni", non vedono nel mondo che gli individui, poi le famiglie, e, gran ventura, anche il comune, combinazione di poche famiglie. Poi chiudono gli occhi "per tutti gli altri internodi e ricapiti dell'umana società, balzando tosto alla nazione, che è quanto dire alla lingua; ignorano lo Stato e le sue necessità". Dunque se una medesima lingua domina le isole Britanniche, le Pensilvania, la California, l'alto Canadà , la Giamaica, l'Australia, per essi v'è solamente a far somma d'un maggior numero di famiglie e di comuni. Dunque il parlamento britannico non ha da far leggi; il Congresso americano sogna d'aver leggi da fare; tanto e più superflua una legislazione provinciale per i fratelli della Pensilvania e i venturieri della California; l'algido Canadà, la torrida Giamaica non debbono aver leggi proprie, che rispondano ai luoghi e alle tradizioni e alle varie mescolanze degli uomini e alla varia loro coscienza; l'Australia deve aspettare in eterno ogni provvedimento da' suoi antipodi, perché parla la stessa lingua, e fa secoloro una sola nazione!" Evidentemente la cosa deve andar diversamente, poiché "qualunque sia la comunanza dei pensieri e dei sentimenti che una lingua propaga tra le famiglie e i comuni, un parlamento adunato in Londra non farà mai contenta l'America; un parlamento adunato a Parigi non potrà mai far contenta Ginevra; le leggi discusse in Napoli non risuscitarono mai la giacente Sicilia, né una maggioranza piemontese si crederà in debito mai di pensar notte e giorno a trasformar la Sardegna, o potrà render tollerabili tutti i suoi provvedimenti in Venezia o in Milano. Ogni popolo può avere molti interessi da trattare in comune con altri popoli; ma vi sono interessi che può trattare egli solo, perché egli solo li sente, perché egli solo li intende. E v'è inoltre in ogni popolo anche la coscienza del suo essere, anche la superbia del suo nome, anche la gelosia dell'avita sua terra. Dì là il diritto federale, ossia il diritto dei popoli; il quale debbe avere il suo luogo, accanto al diritto della Nazione, accanto al diritto dell'Umanità". Da ciò che abbiamo citato si può bene intendere la natura del federalismo cattaneano: una repubblica federale amministrativa a base autarchica, dipendente politicamente dalla capitale. "La mia formula - scriveva a Francesco Crispi nel 1860 - è Stati Uniti; se volete, Regni Uniti; l'idea di molti capi, che fa però una bestia sola. I siciliani potrebbero fare un gran beneficio all'Italia, dando all'annessione il vero senso della parola, che non è assorbimento. Congresso comune per le cose comuni; e ogni fratello padrone in casa sua. Quando ogni fratello ha la casa sua, le cognate non fanno liti. Fate subito, prima di cadere in balia d'un parlamento generale, che crederà fare alla Sicilia una carità, occupandosi di essa tre o quattro sedute all'anno. Vedete la Sardegna, che dopo dodici anni di vita parlamentare sta peggio della Sicilia". Il suo radicato convincimento nella forma federativa traeva anche maggior forza dalla considerazione degli Stati centralisti, sorgente perpetua di dissensi e di lotte, di disagi economici e sociali. Un contributo alle idee federalistiche e amministrative ci vien porto, dalle sue lettere sulla legge comunale e provinciale scritte nel 1804, che qui possiamo soltanto accennare; e da quelle lettere ai liberi elettori scritte tra l'aprile del 1867 e il gennaio del 1868, (che si possono considerare come l'ultima sua manifestazione politica); intese principalmente alla trattazione dei problemi economici nazionali, che in quel periodo di tempo erano oggetto dell'opera del governo sedente a Firenze. Problemi che egli - antiparlamentarista per eccellenza - intendeva meglio trattare nel silenzio degli studi e nelle libere discussioni su riviste scientifiche, (soleva dire che il parlamento egli se lo faceva in casa) che nelle aule del parlamento, dove l'aria sempre infetta dalle passioni politiche era la meno adatta alla serenità richiesta dall'importanza degli argomenti. Queste, sommariamente esposte, le idee politiche del Cattaneo; le quali insieme a quelle riguardanti la vita internazionale e gli Stati Uniti d'Europa, la libertà del mare, la milizia e la nazione armata, il suffragio universale, fino alle sue idee contro i non evangelici beni del clero e in favore della chiesa elettiva (2), costituiscono il nucleo centrale teorico intorno al quale si esplicò tutta la sua azione di politico e di studioso. Politica che egli così riassumeva: "Verità, libertà e giustizia: libertà per tutti, e giustizia per tutti; questa è prosa sincera e durevole; vera oggi e vera dimani" (3). BRUNO BRUNELLO
(2) "Elettori, se la Chiesa mondana non può sublimarsi fino all'ideale evangelico, essa può almeno rialzarsi fino all'ideale apostolico dell'elezione. (S.P.E., III, 261). Riteneva il Cattaneo che la Chiesa d'Italia è figlia di Paolo, e che nella mente di Paolo l'infallibile Pietro era riprensibile; cita Ad Galat, Il, II: "in faciem ei restiti, quia reprehensibilis erat".
(3) Scritti Politici ed Epistolario, cit. I, 376: ed aggiunge: "Ed è anco più alta poesia che non la favola di Pio IX". Intorno al federalismo nel Risorgimento italiano, si può vedere l'ottimo studio di Antonio Monti: "L'Idea federalista nel Risorgimento Italiano", Bari, Laterza, 1922. Per quanto riguarda il Cattaneo, si veda specialmente a pp. 41-43, 50-51, 76, 83, 126, 163, 166, 177, 181. Pel Monti quello del Cattaneo, é un federalismo unitario e ghibellino; il repubblicanesimo italiano deriverebbe non da Mazzini, ma da Cattaneo e da Ferrari. Un contributo alla storia e alla critica del regionalismo ci è dato dallo studio del Prof. Cino Vitto: "Il Regionalismo" (Firenze, ed. "La Voce", 1923). L'Autore s'ingegna di dimostrare come quello del regionalismo non sia che un sogno destinato a svanire: dimostrazione la quale, per altro, ci sembra un poco intenzionale, a malgrado delle buone ragioni addotte.
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