Lenin visto da Gorchi[Su la "Neue Rundschau" sono apparsi dei ricordi di Massimo Gorchi su Lenin; se testimoniano d'una certa distanza fra i due uomini e sembrano talvolta ispirati da uno scopo apologetico, a tratti tuttavia si fanno vivi e riescono a rammentare quell'opuscolo di Gorchi su Tolstoi che è quasi un modello]. Per me Lenin non è soltanto l'incarnazione straordinariamente perfetta d'una volontà mirante a uno scopo che nessun uomo prima di lui s'era osato proporre; egli è una dì quelle grandi figure, uno di quegli uomini tremendi, mezzo leggendari che sbocciano di tanto in tanto dalla storia della Russia sempre inattesi, come Pietro il Grande, Michele Lomonosoff, Leone Tolstoi. Credo che certi tipi d'uomini non son possibili altro che in Russia - terra la cui storia e la cui vita mi fa sempre ricordare Sodoma e Gomorra. Per me Lenin è l'eroe di una leggenda, un uomo che s'è strappato il cuore vampante dal petto per illuminare agli altri la strada che li condurrà fuori dal vergognoso caos... Il suo eroismo è privo di qualunque ornamento; è d'una qualità non rara in Russia questa modesta, ascetica testimonianza d'un rivoluzionario rispettabile e intellettuale che crede onestamente nella possibilità della giustizia sulla terra, d'un eroe che ha rinunciato a tutti i piaceri della vita per lavorar duramente per la felicità de' suoi simili. Una sera, a Mosca, mentre J. Dobrowein sonava le sonate di Beethoven in casa della signora Pesckoff, Lenin diceva: "Non conosco nulla più bello dell'Appassionata; la vorrei sentire tutti i giorni. E' una musica miracolosa, sovrumana. Penso sempre, forse con un piacere quasi puerile: quali maraviglie gli uomini sanno creare!" Poi, con un sorriso senza gioia, ammiccando: "Ma - spesso non posso ascoltar la musica. Mi fa male ai nervi. Allora mi vien voglia di dir delle sciocchezze - di picchiar gli uomini amorevolmente su la testa per le bellezze che, stando in questo sporco inferno, sanno creare. Ma oggi nessuno oserebbe picchiarli amorevolmente, si rivolterebbero a mordergli la mano; bisogna colpirli in pieno, schiacciarli senza pietà benché teoricamente si sia opposti a qualunque uso della forza. E' un brutto lavoro". Il compito d'un rispettabile conduttore di popoli è sovrumanamente difficile. Non si può immaginare un condottiere che non sia in qualche modo un tiranno. Probabilmente più uomini son stati uccisi sotto Lenin che sotto Wat Tyler, Tommaso Münzer o Garibaldi. Ma, anche, l'opposizione a questa rivoluzione che Lenin ha capeggiato è stata più vasta e più potente. Bisogna anche rammentare che col progredire dell'"incivilimento" le vite umane han perso di prezzo. La perfezione tecnica dei mezzi che servono a distruggere e il gusto che l'Europa moderna vi trova lo dimostrano senza lasciar dubbi. Nell'anno di fame 1919 Lenin si amareggiava a dover adoperare i generi che i compagni, i soldati e i contadini gli mandavano dalle province. Quando queste offerte d'amore giungevano nella sua casa scomoda egli si attristava, si rannuvolava tutto, e s'affrettava a distribuir farina, zucchero, burro ai compagni ammalati e denutriti. Una volta m'invitò a pranzo e osservò: "Avremo del pesce affumicato - me l'han mandato da Astrakhan"; poi corrugò le sopracciglia socratiche, si guardò dalle parti coi suoi occhi che vedevano da per tutto e aggiunse: "me lo mandano come se fossi un grand'uomo. Come si può farli smettere? Se si rifiuta il dono si offendono; e la gente muore di fame. È stupido". Aveva per suo conto modestissimi bisogni, non beveva e non fumava, e stava a un pesante lavoro dalla mattina alla sera. Non era capace di badare ai pericoli per sé, benché si preoccupasse per la vita dei suoi colleghi. La cura che aveva di loro era qualche cosa di tenero, quale di solito hanno le donne. Ogni momento libero lo dava agli altri, e dimenticava di cercar riposo per sé. Una sera era al suo scrittoio, e scriveva di furia. Senza alzar la penna mi salutò: "Sarò libero fra un momento... un compagno in provincia si sente scoraggiato; é stanco. Bisogna che io lo rianimi. Il "morale" è cosa importante". Sul tavolo c'è una copia di "Guerra e Pace". "Sì, Tolstoi! Avevo voglia di rilegger la scena della caccia, ma in quel momento mi ricordai che dovevo scrivere a quel compagno. Non riesco mai a finire di leggere. Non ho letto il vostro libro su Tolstoi fino alla notte scorsa". Sorridente, con gli occhi vispi e piccini, si stende nella poltrona e soggiunge in tono più dolce: "Che colosso, non è vero? Che vecchio gigante! Si, amico, quello è un artista. E sapete quel ch'è più straordinario di tutto? La sua voce da mugik, la sua mente da mugik - c'era un vero mugik in lui. Fino a che quel conte cominciò a scrivere non era comparso un vero contadino nella letteratura - nemmeno uno". Mi fissa col suo sguardo asiatico e chiede: "Chi c'è da paragonargli in Europa?" e da sé si risponde: "nessuno!". E, come un gatto al sole, si frega le mani e ride contento. Gli ho spesso osservato questo orgoglio della Russia, dei Russi, dell'arte russa. In lui, sembrava spesso strano e troppo ingenuo, ma più tardi vi riconobbi il segno d'un profondo gioioso amore del suo popolo... Non conosco altri uomini che, come Lenin superiori ai loro simili, resistessero tanto ai morsi dell'ambizione e mostrassero un tanto caldo interesse per la "povera gente". In Russia, dove la necessità del soffrire è predicata come una regola universale per la salvezza dell'anima, non conosco nessuno che così profondamente odiasse e disprezzasse la necessità, la miseria, le sofferenze degli uomini. Questo sentimento, quest'odio per i drammi e le tragedie della vita inalza di molto Vladimiro Lenin alla mia vista - uomo di ferro in una terra dove si sono scritti i più ingegnosi Vangeli per esaltare e onorare il dolore, dove la gioventù comincia a vivere sul tono dei libri che non fanno altro che descrivere la monotonia della vita quotidiana. La letteratura russa è di tutte la più pessimistica; tutti i nostri libri sono scritti su lo stesso argomento - quanto soffriamo da giovani e da adulti per colpa della stupidaggine, dell'oppressione, delle donne; dei nostri affetti familiari, dell'inadeguato ordine delle cose. Poi, da vecchi, a riconoscere i nostri sbagli, a perdere i denti e a far cattive digestioni; e in fine, per la necessità della morte... Forse Lenin imaginava il dramma dell'esistenza troppo semplicemente, e lo stimava di facile conclusione, come dovrebb'esser facile di rimediare alla sporcizia e al disordine della vita russa. E sia pure. Io apprezzo più che tutto questa sua irriconciliabile e indomabile ostilità alla miseria umana, la sua ferma credenza che la miseria non è base necessaria alla vita ma anzi qualcosa di detestabile che gli uomini debbono e possono schiacciare. Questa sua caratteristica la chiamerei l'ottimistica gioia della battaglia; non era davvero un carattere proprio ai russi. Ammiravo la sua suprema capacità di lavoro... Con uguale entusiasmo sapeva giocare a scacchi, studiare la storia del costume, discutere con un compagno per delle ore, pescare, camminare tra le balze di Capri splendenti al sole, rallegrarsi coi fiori dorati e coi bruni scugnizzi. La sera, ascoltando racconti della vita dei villaggi in Russia, sospirava con invidia. "Non conosco quasi punto la Russia. Simbirsk, Kasan, Pietroburgo e pochi altri posti dove fui mandato - e nient'altro". Godeva degli scherzi e rideva col corpo intero, come se sprofondasse nel riso, spesso rideva fino a piangere. Sapeva colorire in mille modi il suo corto e caratteristico "hem, hem" - dalla mordace ironia al cauto dubbio e spesso vi faceva scorrere tanto humour come è possibile solo a uno spirito acuto che conosce la diabolica assurdità della vita... Aveva i movimenti leggeri e agili, i gesti rari ma forti s'adattavano perfettamente al suo modo di parlare, parco di parole e ricco di cose. Nella faccia muscolosa gli giocavano e bruciavano gli occhi d'un cacciatore che insegue senza tregua le menzogne e le miserie della vita. Ora ridevano ironici, ora vampavano adirati. Lo sprazzo degli occhi faceva chiarissimo qualunque suo discorso... Gli uomini hanno sete, se hanno sete di qualche cosa, non d'un mutamento fondamentale nei loro usi sociali, ma solo d'una maggior facilità e d'un aumento. Il grido dell'uomo è: "non c'impedire di vivere come s'è sempre vissuto". Lenin, come nessun altro, aveva trovato la via d'impedire agli uomini la loro solita vita. Se egli abbia in vita raccolto più amore che odio, io non lo so. L'odio che gli hanno portato ci sta davanti nudo e evidente. E io temo che l'amore che molti gli portano non sia altro che l'oscura fede dei miserabili e dei disperati nel taumaturgo; che sia un amore che aspetti i miracoli, ma che non saprebbe far nulla per attuare la sua propria forza in una vita quasi intirizzita dalle miserie che l'avidità di alcuni e la vasta stupidità di molti produce... |