Breve storia del "Partito Liberale Italiano"

II.

UNA VISITA PROPIZIATORIA

    Nessuno dei vari elementi del neo-partito poté, nel segreto dell'animo, accogliere con soddisfazione piena la soluzione rivoluzionario-costituzionale dell'ottobre 1922, che travolse, col governo di Romolo Augustolo Facta, tutto il vecchio mondo politico italiano da Nitti a Salandra. Ed il primo appello del 30 ottobre della Direzione del P. L. alle sue sezioni, se pronuncia parole di condanna per i governi ed i sistemi del passato, eleva però il solenne monito: "Noi intendiamo che la crisi odierna sbocchi rapidamente nell'ordine e nella legalità", e più oltre: "...è dovere delle nostre sezioni difendere gli istituti rappresentativi, giacché il perdurare di provvedimenti eccezionali ed ogni governo di dittatura sarebbero da condannarsi. E' dovere delle nostre sezioni salvaguardare la libertà in tutte le sue forme, affinché, da questa convulsione nazionale, esca rafforzata e detersa da ogni infausta degenerazione". In sostanza, dunque; accettazione per forza maggiore del fatto compiuto, e, nella tema di nuovi eccessi e deviazioni, richiamo risoluto ai principii della libertà e dei diritti statutari. Così la Direzione, ma con quale coesione tra i suoi componenti, autorità e deciso volere? Venuto su il partito nei modi che abbiamo descritto nella prima parte, la sua Direzione, anche per la mediocrità degli uomini di cui risultò composta non poté altro essere che una povera zattera, senza comando, in balia dei flutti, punto di contatto e di elisione delle forze cozzanti parlamentari, salandrine e giolittiane, ed economico-industriali. Unico atto che le riuscì facile, perché gradito, anzi voluto dagli uni e dagli altri, fu la eliminazione, dal suo corpo, dei miseri avanzi nittiani (l'on. Bianchi di Bra e l'on. Falcioni di Domodossola) così bellamente motivata: "il P. L. vuol essere un fascio di tutte le forze sane e non un confusionista di uomini e di tendenze da cui derivino, come nel passato, all'idea liberale danno e vergogna". Ma il solenne proposito di disciplinare in un unico gruppo parlamentare i deputati aderenti non le riuscirà mai, per sua iniziativa, d'attuare, ed essa diverrà presto involontario zimbello di S. E. Mussolini, che nella Direzione del Partito Liberale troverà un sicuro barometro per la valutazione delle reali condizioni atmosferiche nelle varie zone del liberalismo. E fu proprio un vinto dei vinti, badate, un giolittiano, un democratico, l'ex.ministro della guerra nel gabinetto Facta, l'on. Marcello Soleri, mirabile criniera alla Enrico Ferri, che, nel gennaio del '23, consigliò la Direzione di offrire i consensi del P. L. al Duce. Andarono alcuni membri di essa dall'on. Mussolini ad affermargli l'intendimento di "fiancheggiare cordialmente" il governo e la sicurezza "che si rettificheranno quelle situazioni locali e cesseranno quegli episodi che porrebbero in disagio il P. L.". Mussolini prese atto con piacere della docilità liberale, li avvertì però di volere, sposa al consenso, la forza, e, con maliziosa abilità, fece pure balenare la speranza di "un'intesa più stretta, non esclusa quella a sistema federativo" fra i partiti fascista e liberale, più i nazionalisti. Figurarsi la soddisfazione dell'ing. Gay, che vide risorgere per qualche tempo il miraggio del suo partitone, e l'entusiasmo di tutta la Direzione, che credeva d'avere issofatto valorizzato, con quel colloquio, il partito.





    Ma l'iniziativa dei democratico Soleri, impaziente di nuove glorie, aveva dato l'allarme ai liberali salandrini, ministro De-Capitani e deputati, che ci tengono all'esclusivo monopolio collaborativo; tant'è che, all'ora della visita, Soleri deve trarsi in disparte, onde evitare, pel momento, chissà quali funeste scenate di gelosia e lunga serie di grattacapi a quei poveri dirigenti; i quali, in seguito, stretti sempre fra due fuochi, colpiti in pieno dalla formale dichiarazione di Salandra di non volere confusa la destra liberale con le sinistre in un unico gruppo parlamentare, mentre Mussolini lo proclama, inserendosi nella disputa, per aggravarne il disordine, "il depositario e l'alfiere della dottrina liberale e nazionale", bisticciando fra di loro, perché anch'essi esponenti delle contrastanti fazioni del partito, giungono alla primavera senza potere nulla concludere, assistendo tristi all'altrui felicità, all'entrata, cioè, valorizzatrice dei nazionalisti nel caldo seno del fascismo. Ma, non domi, indetto un privato torneo oratorio, a Milano (1° Consiglio Nazionale), in cui eccelsero le virtù di Sarocchi e di Soleri, proposero all'approvazione dei delegati regionali ben due ordini del giorno: il primo, ahimè, di rinvio sine die della costituzione del gruppo, ed il secondo affermante dovere il partito "lealmente sostenere coi consensi e coll'opera il governo di Benito Mussolini, mentre con mano ferma attende alla ricostruzione morale, economica e finanziaria della Nazione".
E ribattono alla porta del Duce.

SERMONE EFFICACE

    Quando i dirigenti ottennero l'onore d'esser introdotti per la seconda volta alla presenza del Duce, questi benevolmente li accolse, poscia ufficialmente elogiò, non senza concedere loro un paterno e pubblico sermone, (lettera del maggio '23) che nei punti salienti suona così: "Prendo atto con soddisfazione della vostra rinnovata ed aperta professione di fede nel mio governo... Gli è che il liberalismo è assai variegato di aspetti... talché presenta diverse facce e non tutte sono ugualmente rispettabili". Vi sono dei liberali che "muovono una meschina e sordida opposizione di dettaglio". Il P. L. "non è riuscito sinora ad avere una sana rappresentanza alla Camera, solo fra qualche tempo avrà un suo organo, come voi mi annunziate, ufficiale, che vi darà i quotidiani connotati necessari per un onesto riconoscimento". Conclusione: "Questa collaborazione sia di buona lega e non abbia l'aria di una collaborazione obliqua con intendimenti speculativi e successorii ". Oh supplizio di Tantalo! Quegli innocenti, rabbrividendo, capirono perfettamente il latino. Quella lettera fatale divenne il loro codice sacro. Assaliti dal timore panico e dal rimorso di colpe inesistenti, invocarono persino le tenebre dell'oblio nei loro poveri cervelli, in cui qualche memoria persisteva di quell'oncia di liberalismo assimilato durante tanti anni di abitudinaria lettura del Corriere della Sera. E di quei tempi tu li avresti visti sfuggire anche le ombre nella tema di sfiorare incidentalmente quella di Luigi Albertini, l'uomo dalla "meschina e sordida opposizione", che con certi suoi categorici, irriverenti ed imbarazzanti interrogativi, posti ad intralciare l'opera dei ricostruttori, null'altro che danno recava alle promettenti fortune del partito, di cui erasi fatto Mèntore inopportuno. Ma l'inabile, angoloso calvinista della politica, dalla condotta tediosamente lineare ed intransigente, non andrà guari che, cedendo ai mòniti del Fromboliere, farà, per un poco, silenzio, gustando i pregi di una solitudine amica, senza rimpianti.





ASSEMBLEE "LIBERALI"

    In quel periodo che va dalla primavera del '23 a quella dell'anno successivo (il lettore rammenti lui quello che io taccio di quei tempi felici) le assemblee liberali, qua e là ogni tanto convocate, ti offrivano uno strano fenomeno, direi, di afasia, che, gli psichiatri spiegano, è un certo male complicato e misterioso del cerebro, per cui, se ti coglie, potrai ancora ridere, piangere ed anche cantare, però non più articolare la parola. Ma per tutti, in quelle assemblee di imbarazzati, agile e sciolto recitava ariette ingegnose, sonetti e madrigali d'occasione e garbati, quel simpatico pastorello segretario della novissima Arcadia, Alberto Giovannini. Questi aveva assunto l'ambita carica dopo qualche esitanza, in parte dovuta alla tema che la natura stessa di quella, contraddicesse al suo fermo proposito di ritentare la sorte, delle urne politiche, per due volti crudeli, una terza volta, alla prima occasione. Trovandosi poi segretario, sballottato da quegli amari flutti del parlamentarismo liberale, tra Salandra e Giolitti, nell'angoscia del dubbio circa il loro destino, non sapendo decidersi, vinta qualche sincera reticenza, s'era buttato a capofitto nell'onda fluviale mussoliniana. La sua azione, come quella del suo partito, andò così a coincidere con gli atteggiamenti classici del sindacalismo degli industriali, il quale "non può mai non essere ministeriale", secondo l'aforisma, che è forse un modo di dire abituale, del democratico individualista sen. Agnelli. Ma, tra parentesi, sia bene presente che, in queste faccende di alta politica, non ha che in parte a vedere la romantica boria feudale dell'on. Mazzini, bensì la fredda adattabilità dell'on. Olivetti.

    In vero dei mormorii di scontento e di protesta serpeggiavano in quelle assemblee liberali: i gruppi giovanili fecero talvolta un po' di chiasso; sua poi i rumori spegnevansi in una magica quiete, i più caparbi ribelli se ne andavano portando altrove il loro corruccio, mentre le segreterie delle sezioni locali e quelle dei deputati plutocrati davano novello incremento agli uffici romani "raccomandazioni ed onorificenze ", valorizzando, come non mai, il partito, offerente validissimi e filantropici appoggi ai poveri bisognosi. Giovannini, intanto, conciliante, sempre in vena di proselitismo, per la ricca selva fraseologica mussoliniana si gìa cantando ed iscegliendo fior da fiore, trascegliendo i bei fiorettoni color liberale, che, destramente intrecciati a ghirlanda, con gesto d'orgoglio ponevasi in capo e poscia gittava ai soci, che plaudivano a tempo di danza la curiosa fatica. Credetemi, declamava con voce di bronzo e roseo volto, pronunciando le sacre parole, che, di quei tempi, molcevano il cuore di Antonio Salandra: "tra movimento liberale e quello fascista non esiste antitesi programmatica, ma soltanto, contingente diversità di metodo e un'identità circa il fine supremo, grandezza morale, materiale della Nazione". E' ben vero tuttavia, che Benito Mussolini, nel saggio di filosofia politica "Forza e consenso" constatava una certa putrefazione del liberalismo; ma invano si faceva della storia, della filosofia, della legislazione, della economia fascista in Italia, e Luigi Albertini, più matto della Fiorina che sonava il cembalo ai grilli, ne additava le conseguenze inesorabili, fantasticoni come tante zitelle innamorate, Giovannini e i seguaci, parevano invasi dalla speranza di inscrivere, ben presto, a socio onorario del P. L. il Duce fascista.





PENSIERO ED AZIONE "LIBERALI"

    Non è dato sapere ai profani quello che rimase un segreto inviolabile per gli stessi accoliti, l'opinione, cioè, del partito e dei suoi dirigenti circa la complessa attività politica, sociale, finanziaria del fascismo e tutte le varie riforme ab imis studiate ed attuate nell'annata dei pieni poteri dal governo di S. E. Mussolini; ad ogni modo è certissimo che gli organi direttivi di molte cose discussero con vera passione, e persino, come dice un comunicato, "in particolare modo la questione delle tariffe doganali", ma sempre un assennato e prudente riserbo fu mantenuto, rotto soltanto, sotto il cielo di Napoli, dal Consiglio Nazionale (giugno '23) a proposito della riforma elettorale Acerbo, che raccolse l'unanime approvazione. E qui non è tutto, perché nel luglio '23, con alto monito "la Direzione del P. L. considerato che i partiti di opposizione approfittano della difficile situazione per scopi antinazionali, in conformità della sua condotta sempre di valido e sincero aiuto agli sforzi del governo nell'opera di restaurazione nazionale, ricorda a tutti la disciplina di partito... ed invita i deputati inscritti alle Sezioni del P. L: a svolgere energica e fattiva opera per l'approvazione alla Camera della legge elettorale proposta dal governo".

    Ma alle volte anche il servire diventa difficile mestiere, quando il padrone è bisbetico e prepotente. In una convocazione regionale del partito tenutasi a Torino nell'ottobre '23, Giovannini nell'assecondare, proprio per soverchio zelo, una delle ondate normalizzatrici governative, andò oltre alla spinta, insinuando, nel suo discorso imbellettato, "che non sarebbe possibile accettare una riforma costituzionale". Non l'avesse mai fatto! che, sotto la specie di una nota ufficiosa dell'Agenzia Volta, piovvegli addosso una solenne lavata di capo, per quel "rimescolio dei Lazzari liberali risuscitati dal fascismo". La faccenda minacciava di diventare seria e compromettere le sorti del giovane partito. Non per nulla Torino passava per la rocca forte della sinistra liberale, che aveva per leader il gr. uff. C. Gay. Questi, quando per una sagra Mussolini fu a Torino, postosi alla testa della rappresentanza del partito, dopo aver faticato di gomiti, poté farglisi innanzi e declamare: "I liberali del Piemonte, riconoscenti a voi per l'onore reso a Torino..., ...vi ringraziano dell'opera possente compiuta ad ottenere la riaffermazione dell'autorità statale e la ricostruzione nazionale". Per conto suo Giovannini non stette con le mani alla cintola: provvide il 26 ottobre con un fervido appello a "rinnovare il consentimento del P. L. alla celebrazione dell'avvenimento storico" della marcia su Roma, e, poco di poi, assistito dall'on. Olivetti, pentito e mondo dogni colpa, poté (terza visita), essere riammesso alla presenza del Duce, che benignamente lo intrattenne a cianciare di liberalismo.

    Infine la Direzione del partito radunatasi nel dicembre, convinta "della necessità" della proroga dei pieni poteri "che devono completare l'opera risanatrice intrapresa dal governo, invita i deputati inscritti al partito a dare pubblica e solenne approvazione al progetto di legge". Non riferiamo i commenti elogiastici del Giornale d'Italia, divenuto, merce l'iniziativa generosa del gr. uff. Borzino, "l'organo ufficiale per un onesto riconoscimento".





ELEZIONI

    Ma è imminente la fine della XXVI legislatura e la Direzione è convocata, e decide di attendere, oh diamine!, che il Duce manifesti la sua volontà. Tutto il campo liberale è in fermento, tutte le ipotesi sono ventilate, le zizzanie parlamentari rinfocolano, ed i salandrini sono presi, nella tema di cadere confusi coi superstiti giolittiani, a porre in evidenza i loro specialissimi titoli di buon servizio alla causa del fascismo. Ecco il decreto di scioglimento ed il grande discorso di S. E. Mussolini a palazzo Venezia, con l'intervento, in quella adunata esclusivamente fascista, dell'on. Olivetti, forse in rappresentanza del Sindacato industriale, e, forse, e perché no?, del P. L. Ancora qualche piccola tortura, un pò di ironia mussoliniana a suo carico e poi, finalmente, il benemerito segretario del P. L. Giovannini vede realizzato l'ardente sogno della sua esistenza: la sua nomina a deputato è concessa: egli è nel listone. E la Direzione? "Fiera di avere raggiunto un'organizzazione nazionale unitaria al di fuori ed al di sopra delle divisioni parlamentari", rompe le righe, e i caucus locali, di questo o di quel candidato, trionfano nella piena - liberale - indipendenza di pensiero e di azione.

BOOZ

    Farò grazia al lettore della rimanente istoria del P. L., avviatosi, dopo la morte di Giacomo Matteotti, sulla via di Damasco; quando, cioè, fu in parte vinto quel certo malefizio, che vien generato da ciò che si potrebbe definire lo stato di fondata paura. Ruppe il malefico incanto, e fu vindice supremo del liberalismo in quei giorni, Luigi Albertini, pronunciando al Senato, fra la sgomenta maraviglia dei timidi assertori dell'idea liberale, la sua inesorabile requisitoria contro il regime fascista.

    Come i mattoni accostati l'uno all'altro, se urti il primo, successivamente cadono tutti, le varie frazioni del P. L. (trascuriamo le modeste persone degli onesti riconoscenti), una per volta, come è ben noto, sotto l'impulso di svariate forze, passarono all'opposizione. Persino Salandra, dall'ignominia del discorso elettorale di Milano, incede verso il Rubicone e lo varca; mentre V. E. Orlando, alquanto sensibile alla lode di "benemerito della Patria" nel tempo del listone, non più s'indugia, e batte la medesima strada fatale. Così, finalmente, la Direzione del P. L., dopo due anni di trepide angoscie, e cioè nei primi giorni del 1925, gaudiosa e trionfante, "segnala alle Sezioni la raggiunta concordia", giacché ormai tutta l'opposizione liberale, quasi biblica Ruth moabita, umile e saggia, si giace ai piedi del Booz di Dronero, che tenne, non senza qualche avveduta prudenza, sempre al vento spiegata la bandiera del suo liberalismo.

    Ma non io certo qui voglio analizzare i differenti metodi tattici e i disegni strategici seguiti dai tre ex-presidenti; né mi avventurerò a trarre gli oroscopi, dalle loro stelle protettrici, delle sorti liberali del mio Paese.

    Però, ecco, mi allieto, pensando che gli alunni-nemici di Giovanni Giolitti ritornino a lui, dopo tante battaglie, mogi e contriti, per salire, magari domani, a braccetto di Turati e De Gasperi, l'Aventino.

    E chissà, ora che anche l'Aventino ha trovato il suo Duce supremo, che lo stato italiano dal socialismo plutocratico odierno non faccia ritorno alla sintesi giobertiana degli opposti socialismi e plutocratico e proletario.

    Oh come allora grideranno forte: - democrazia e libertà - i sacerdoti dalle molte vite del tempio di Pluto! Piangeranno di gioia, alle ingannevoli grida, i teneri cuori filantropici, gli innocenti spiriti concilianti, gli ignari e gli oppressi. Ma ove non sia liberismo, bugiarda e immonda è la democrazia, gracile donna sterile la politica libertà.

CRITONE