NECESSITÀ DELLA POLITICA

    Fino a che i regimi politici erano autocratici ovvero oligarchici, un dovere politico attivo, cioè derivante dalla partecipazione di ogni cittadino alla vita del proprio paese, non esisteva; ma solo quello passivo dell'osservanza delle leggi, del rispetto all'autorità, della difesa della patria; ovvero quello indiretto di partecipare con i propri beni, sia materiali come le ricchezze sia morali come la scienza, alla maggiore elevazione della patria. Il dovere di coscienza attivo risiedeva solo nei dirigenti responsabili del regime o nelle rappresentanze di organismi e di classi.

    Quando invece il regime costituzionale chiamò i cittadini a partecipare direttamente alla vita dello Stato e alla rappresentanza e formazione dei poteri pubblici, oltre quelli che ho chiamato doveri politici passivi o indiretti, si consolidarono i doveri politici attivi, in corrispettivo dei diritti politici dati al popolo con la Costituzione. Il dovere sorge in conseguenza e contemporaneamente al diritto.

    Tutto ciò è pacifico e nessuno, che io mi sappia, vi contraddice. Ma sorge qui un problema: il vincolo di rapporto fra il cittadino e lo Stato. (e qui prendo lo Stato come la più alta espressione della società organizzata, ma intendo includervi tutti gli altri organismi pubblici) é puramente individuale, astratto da ogni altro collegamento fra i cittadini, ovvero ammette una convergenza intima, una solidarietà, una corresponsabilità?





    Il liberalismo atomico concepì il cittadino isolato, solo legato da un vincolo personale allo Stato; tolse ovvero attenuò le gerarchie e i rapporti di altri enti naturali; non concepì rappresentanze di secondo grado: l'economia e la politica si formarono sul puro rapporto individuale. Era naturale che questo concetto non fosse puramente esteriore e formalistico, ma che rispecchiasse un'intima struttura ideale. Difatti il principio razionalista fu l'informatore della dottrina liberale; e la rottura di ogni rapporto sociale fra l'individuo e ogni altro organismo, compresa la Chiesa, indicava la concezione politica prevalente, il soggetto politico non superava l'individuo, che acquistando i suoi diritti di libertà e di sovranità si adergeva a unico elemento costruttivo della vita pubblica.

    Conseguenze logiche: la religione è affare di coscienza e non oggetto di vita pubblica; l'etica è individuale; la legge positiva crea l'etica ma non vi è soggetta; la economia è libero sforzo individuale; la politica è la somma delle volontà individuali, espresse come maggioranza.

    Si comprende bene che queste formule esasperate di una logica inflessibile nel concreto della realtà subirono le attenzioni dell'attrito di altre correnti e delle difficoltà di assimilazione e di attuazione; ma d'altro lato, la logica dei fatti è anch'essa rigorosa quando necessariamente derivi dalle premesse.





    La sostanza di queste premesse porta alla conseguenza che il dovere del cittadino di adempiere agli obblighi derivanti dai diritti politici, secondo l'impostazione originaria del liberalismo, non rappresentava che un fatto individuale di coscienza, essendo l'individuo, in quanto tale, l'unico soggetto dei diritti e dei doveri.

    A questa rigida concezione originaria faceva ostacolo la realtà, che si evolveva al di là e al di fuori delle premesse liberali. Anzitutto la necessità dell'orientamento politico e del proselitismo elettorale obbligava la classe dirigente alla propaganda orale e scritta, diretta a far valutare le diverse correnti politiche, che non potevano nel fatto non concretarsi in partiti. Inoltre la corrente democratica, affermatasi col nascere delle costituzioni continentali, mirando verso il suffragio prima allargato e poi universale, non poteva non incanalare le masse partecipanti alla vita pubblica, in forma di organizzazione permanente, sia economica che politica. Per quanto fino al 1919 non vi fossero in Italia partiti politici e parlamentari organizzati in forma disciplinare e permanente (tranne i socialisti) pur tuttavia non potevano mancare partiti e nuclei che dalla periferia al centro, attraverso enti pubblici minori o enti economici o morali, non tendessero ad un'esistenza reale, autonoma, di convergenza o di solidarietà politica. I programmi ne formarono l'elemento differenziale e il fondamento teorico; per cui (a parte gli aggruppamenti personalistici) le grandi divisioni politiche si fondavano sul liberalismo, la democrazia, il socialismo. La corrente a fondo religioso si chiamò clericalismo ovvero fu confusa con il moderatismo dell'Alta Italia, o prese il nome di democrazia cristiana, fino a che politicamente affrancati e liberi, i cattolici in maggioranza conversero verso il popolarismo, e oggi una minoranza di essi verso il nazionalfascismo.





    Questo processo storico sta ad indicare due fatti acquisiti e insopprimibili nella vita politica odierna:

    a) che l'esercizio dei diritti politici ha superato uno iniziale e non naturale stadio individualistico, evolvendosi verso una solidarietà collettiva, che, comunque si nomini, ha la caratteristica di partito;

    b) che una ragione notevole alla divisione dei partiti è data dai principi teorici sui quali si fondano, e che essi esprimono in pratici atteggiamenti.

    Quanto influiscano i principi teorici sullo svolgersi dei partiti e sull'azione politica da essi spiegata, non può essere precisata a priori; perché ciò dipende dall'influsso che tali teorie hanno in tutto lo svolgersi della vita intellettuale e sociale; in modo che spesso il partito è una semplice risultante politica, mentre altre volte il partito è anche o principalmente un mezzo di conquista intellettuale e morale. Certo si è che nell'uno e nell'altro caso, non si dà un partito storicamente e nazionalmente vitale, che non si appoggi e non viva di principi teorici, ai quali fare appello, per dimostrate le ragioni della propria esistenza, la bontà delle finalità da raggiungere, la legittimità e conclusività dei mezzi che adopera.

    Ciò posto, la dinamica dei partiti tende ad attirare entro la propria orbita quanti convengono nei principi e accettano una possibile disciplina politica; e quindi a superare la tendenza individualistica e personalistica di coloro che concepiscono il rapporto civile esclusivamente fra il cittadino e lo Stato.





    E che questo superamento risponda alla natura della stessa vita sociale degli uomini, nessuno può mettere in dubbio, sol che pensi che tutta la vita umana è comunicazione di pensiero, partecipazione di affetti, solidarietà di interessi, e quindi lotta verso coloro che negano questo perenne e rinnovantesi vincolo sociale.

    E come più intensa si fa la vita collettiva, così più sentito è il vincolo di società al di là della cerchia della famiglia, della terra natìa, della classe sociale, fino alla regione e alla nazione, e al di là anche dei limiti nazionali, come più elevata, più generale è la cultura, il sentire e l'attività di ciascuno e più vasti ne sono i rapporti.

    E' bene quindi riflettere che se l'esercizio di un diritto, che è anche d'altro lato un dovere, è tanto meglio adempiuto, quanto con più efficacia può raggiungere il suo scopo, non vi può essere dubbio, che, ciascuno, secondo le proprie forze, deve partecipare alla vita politica nella forma più utile e più conclusiva; cioè non isolato, a sé stante, fuori di qualsiasi solidarietà umana, che sarebbe inconcepibile, ma partecipando a quella corrente (non dico partito) e vivendo di quelle teorie che son conformi al proprio convincimento.

    Due doveri di coscienza sgorgano da questa posizione: quello di seguire quelle teorie politiche che rispondono ai propri convincimenti; e quello di partecipare (secondo la possibilità di ciascuno) al movimento politico che sgorga dalle idee professate.

    Prima di procedere avanti nella nostra indagine sarà bene intenderci perché sopra tutto noi mettiamo come dovere di coscienza l'adesione alle idee politiche che rispondono ai propri convincimenti.

    Perché il ragionamento non mi faccia dilungare dal tema, preciso in poche linee il mio pensiero.





    La società umana non può essere basata che su elementi razionali e principalmente finalistici; le ragioni finalistiche sono date da natura e costituiscono la norma della vita pratica degli uomini e quindi creano l'etica.

    A tale norma sono vincolati gli uomini, e individualmente e socialmente; però, in quanto socialmente, la norma etica viene concretizzata nel giure ed espressa dalla legge.

    L'ordinamento della società in uno Stato è anzitutto espressione dell'etica collettiva, concretizzazione del giure, formazione della legge. Questa attività è data dall'ordinamento dello Stato, il quale non può essere basato che su due principi: quello dell'autorità e quello della libertà.

    Entro questi confini si sviluppano tutte le attività umane, economiche, organiche, intellettuali e morali.

    Ora è possibile che ciascuno possa essere indifferente a qualsiasi teoria, e quindi a qualsiasi indirizzo politico, in quello che di fondamentale vi è per gli uomini, cioè l'etica, il diritto e la legge, l'autorità e la libertà; e le loro innumerevoli conseguenze in tutti i campi del vivere umano?

    La politica è sintesi di teorie e di interessi, di principi e di fatti; la politica è vita nel senso più completo della parola; e quanti anche indirettamente ne partecipano, o quanti anche indirettamente ne risentono gli effetti, non possono sfuggire dal porre i problemi teorici in prima linea, come quelli che di sé informano le ragioni sostanziali dell'attività pubblica e l'indirizzo del paese.





    Oggi si dice: non badiamo alle teorie ma ai fatti; se questi sono buoni, poco importa che i motivi teorici siano erronei. Questa asserzione non voglio mettere in bocca a cattolici (perché troppo contraddice alle loro convinzioni religiose) ma a indifferenti ovvero a coloro che non hanno l'abitudine dello studio e vedono solo la contingenza quotidiana. Ho sentito dire ciò a proposito dell'uso della forza privata fatta dal partito fascista contro i propri avversari. Quel certo ordine che ne è stata la conseguenza (se ordine può chiamarsi) viene magnificato come un fatto salutare, che deve essere valutato al di fuori della teoria, che non è accettabile.

    Ora questo ragionamento è un vecchio sofisma per cui ragion morale e ragion politica sono fra di sé disgiunte e spesso messe in contrapposto; è un divorzio questo non solo irrazionale ma fondamentalmente innaturale e quindi immorale. Lo sviluppo della civiltà tende a superare le difficoltà per riunire in unica sintesi ragione politica e ragione morale, come altra sintesi viene tentata fra ragione economica e ragione morale. Tutto lo sforzo illuminato da ragione è verso questo termine. Ogni inversione e ogni distacco è causa prima e fondamentale di perturbamento. Se questo distacco deriva da una teoria o che nega uno dei due termini (il morale) o che li confonde insieme e fa della politica la risultante morale o meglio amorale, è dovere combattere una teoria così erronea e perniciosa.





    Chiarito questo punto il ragionamento torna alla sua linea: oggi la differenziazione politica è sostanzialmente su basi programmatiche e teoriche, né può essere altrimenti dato il sistema di libertà politica sul quale si regge il regime democratico, e dato il grado di evoluzione dello Stato moderno. I riflessi delle teorie sulla pratica possono essere più o meno larghi e più o meno efficienti, ma non possono negarsi. Il pragmatismo politico, esperimentato dalla borghesia si credeva avere acquisito l'unità morale del popolo attorno all'idea liberale; è oggi ripreso in pieno dal fascismo che crede di avere imposta l'unità morale coll'esercizio della forza; il pragmatismo politico non regge all'urto delle correnti ideali, e se non cede, inquina e corrompe la vita pubblica, alimenta e incrementa il girellismo, rende inconsistenti e vuote le correnti ideali, e disfa la classe dirigente, che non ha più forza per resistere agli urti delle masse organizzate e del nazionalismo esasperante.

    Nessuno quindi che abbia un po' di logica potrà negare la necessità (e il fatto di oltre mezzo secolo in Italia lo dimostra) che i cittadini abbiano una conoscenza e un indirizzo (sia diretto che riflesso) dei problemi generali della politica del proprio paese, e che questo crei il dovere di associarsi, illuminarsi, prepararsi a vicenda.

    Sarebbe del resto una ben strana cosa, che una persona abbia l'obbligo di conoscere l'orario ferroviario se vuol viaggiare, la regola del circolo se vuol esserne socio, il codice cavalleresco se farà parte della cosidetta società, le regole del galateo se vuol trovarsi in buona compagnia, e non debba conoscere i doveri del cittadino, se deve (come di fatto e necessariamente deve) vivere in una società civile, dalla quale non si esce se non si è malfattore e condannato all'ergastolo o alla ghigliottina.





    Partecipare ad un partito è come avere in mano uno strumento di lavoro: il partito non è un fine, è mezzo; ed è un mezzo delicatissimo nella sua funzione e nella sua finalità.

    Non dico che ciascuno debba, come obbligo di coscienza, iscriversi ad un partito, ma, a parte le condizioni particolari di ciascheduno, resta un criterio direttivo generale, per cui la partecipazione morale (più o meno attiva) ad un partito è un vero obbligo in rapporto all'esercizio dei diritti politici.

    Se così non fosse, e se per ipotesi i migliori, i più onesti, gli studiosi, gli uomini che propagano le idee morali e religiose, si appartassero dall'azione politica (come avvenne per tanti cattolici in Italia) quale meraviglia poi che prevalgano nel paese correnti perniciose, tendenze sopraffattrici, partiti ad ispirazione materialista, concezioni etiche paganeggianti? Quale meraviglia se la vita amministrativa dello Stato e degli enti locali divenga un pubblico mercato, di favori, di intrighi, di speculazioni, di dilapidazioni, di sperperi, di peculati? Quale meraviglia se la ingiustizia trionfi?

    Su questo terreno il cittadino non può restare avulso dalla vita pubblica, estraneo ai dibattiti civici, disinteressato dal bene sociale; sarebbe un atto di egoismo non tollerabile moralmente. E neppure il cittadino può rimane nell'isolamento della sua coscienza, che avrebbe poca o nessuna efficacia, ma deve partecipare alle correnti vive del pensiero e dell'azione, ed informare queste agli ideali di bene che egli sente e coltiva.

LUIGI STURZO

    (Da Pensiero Antifascista che uscirà la prossima settimana).