LA CORSICA

    Lo studio delle attuali condizioni della Corsica - materiali e spirituali - è difficilissimo per un italiano. Nessuna possibilità, intanto, di usufruire di informazioni ufficiali, di mettere il naso nelle segreterie comunali, di ottenere le confidenze del gendarme o del funzionario francesi. I côrsi poi si accorgono immediatamente di avere a che fare con un "continentale d'Italia", e tanto basta perché entrino subito in sospetto che voi vogliate fare dell'irredentismo sulle loro spalle: quindi, o risposte evasive, o silenzio. Vi sono degli egregi studiosi di questioni côrse, di fama più che regionale; ma, se occupano posizioni ufficiali, hanno cura anche di fare delle dichiarazioni parimenti ufficiali sui loro sentimenti di affetto alla Francia, equivalenti ad un cortese fin de non recevoir per qualunque discussione o domanda delicata. Certi temi - banditismo, irregolarità o favoritismi amministrativi, cattivo funzionamento dei servizi pubblici - sono pressoché interdetti: la maggior parte degli isolani considera come una offesa qualunque insinuazione in proposito. Essi gridano sui tetti di esser trattati miserabilmente, di languire come una colonia abbandonata, ma non tollerano che alcun continentale - in ispecie, alcun "continentale d'Italia" - ripeta o semplicemente dia a vedere di conoscere, queste loro lagnanze.

IL FENOMENO CAPITALE: L'EMIGRAZIONE

    Pur essendo in questo modo "tagliato fuori" dalla vita isolana, è agevole per l'italiano del continente percepire il fenomeno capitale della Corsica d'oggi: l'emigrazione.





    La popolazione dell'isola diminuisce dal 1900, l'accrescimento, ch'era stato regolare per tutto il secolo, rallenta; il censimento del 1906 non dà che 291.000 abitanti, quello del 1911 non ne dà che 288.820. Oggi si calcola che la popolazione complessiva sia di 283.625 anime. La guerra ha ucciso non meno di 4.700 côrsi provenienti dall'isola per leva, ne ha ferito o mutilato 17.000; proporzione molto più elevata che quella degli altri dipartimenti francesi. I corsisti affermano che i caduti e feriti di sangue côrsi sono non meno di 40.000, comprendendovi, naturalmente, anche quelli del continente. Nel Settembre '14, i côrsi di quarantanove anni avevano già lasciato l'isola per il fronte: fatto unico nella mobilitazione francese.

    L'emigrazione côrsa, in prima linea, è emigrazione militare. Poi, funzionaristica in genere. In fine, e solo in piccola parte, comprende nuclei di isolani che passano il mare per cercare lavoro come commercianti, operai, ecc.

    La leva - pur attuata con criterii di particolare larghezza circa la idoneità fisica delle reclute isolane - porta sul continente un contingente di arruolati (appelès) inferiore a quello medio di tutti i dipartimenti francesi: e questo, perché ogni classe è in precedenza "schiumata" degli ingaggiati volontari (engagés): per gli ingaggiati, la Corsica è il primo dei dipartimenti francesi.

    Di costoro, una buona metà chiede la rafferma nelle truppe coloniali, e si sparpaglia per tutto il vasto impero francese, fornendo ottimi quadri di sottufficiali. In questo anno, l'armata francese ha non meno di quattro-cinque mila sottufficiali di origine côrsa accanto a cui gagliardamente figura - secondo i calcoli approssimativi del Prof. Ambrosi - almeno un 950 ufficiali, di sangue, di nome, di lingua côrsa: in tutti i reggimenti, se ne trovano quattro o cinque.





    E' fuori di dubbio che il governo di Parigi cura con particolare attenzione il reclutamento dei corsi. Il "racolage", indicato dai capi del Partitu Corsu d'Azione come una delle piaghe dell'isola, fiorisce. La legge sul reclutamento francese impone in tutti i comuni nuclei di istruzione premilitare: e quindi, che anche il dipartimento della Corsica ne abbia, non fa specie. Ma qui c'è, evidentemente, della predilezione. Ajaccio, per dirne una, possiede perfino una scuola premilitare per sottufficiali telegrafisti, che rilascia patenti e patentini valevoli al momento dell'arruolamento nello 8° Génie.

    Gli isolani, d'altra parte, corrispondono assai vogliosamente a queste pelose intenzioni. La frequentazione scolastica, abbastanza intensa in tutta l'isola (appena il 13% di analfabeti fra gli arruolati di leva) è diretta principalmente, nella mente dei genitori e dei piccoli, a conseguire quel tanto di sapienza che valga, almeno, a diventare caporale dei tiragliatori algerini. A dieci, a dodici anni, il capraio côrso legge il manuale sull'istruzione del soldato di fanteria, che gli hanno regalato alla Prémilitaire: comanda ottimamente una squadra o un plotone di suoi coetanei, con le voci prescritte dal regolamento. Quella che in Francia chiamano école buissonière fiorisce largamente in tutta l'isola: nei due centri di Bastia e Ajaccio, non meno di 2000 ragazzi non frequentano regolarmente: il che non vuol dire che vengano su analfabeti. Tutt'altro. Sono i più intelligenti ed istruiti: hanno appreso a memoria il loro manuale, e lo applicano sulla pubblica via in esercizi militari che appunto per essere infantili qualche volta sono serii, e finiscono in sante legnate. Un funzionario côrso, attaccatissimo alla sua isola, il cui nome tornerà in questo scritto, mi diceva di aver messo il suo primogenito in collegio ad Aix, perché convintosi della impossibilità di studii seri nell'isola compreso il Liceo di Bastia. Troppe battaglie fra scolari, e troppa preparazione, non all'università, ma alla caserma.





    Dal servizio militare, il trapasso nella burocrazia e nell'esercito dei salariati dello Stato si compie agevolmente. Al momento del congedo come sottufficiale, il côrso, pur di restare sul continente, si accontenta degli impieghi più umili: portalettere, guardia carceraria doganiere, ecc. Molti restano anche, meglio che niente, in colonia: tutti gli impiegati dei penitenziari coloniali, tutti i cancellieri dei tribunali dei Residenti, tutti i guardiani di fari sono corsi. Questo per i figli dei paesani; che i possidenti più ricchi, i "signori" della piccola borghesia isolana, finito quel po' di Liceo a Bastia, tirano subito o alla scuola militare, o alla magistratura, o a uno dei tanti "curricula" di cui l'amministrazione francese dispone.

    Questa propensione per le carriere militari e funzionaristiche è secolare nei côrsi, e tanto più si è accentuata nei tempi moderni, quanto più il côrso si è sentito sperduto e diminuito di fronte ai progressi della tecnica e al regime della grande produzione. Gente paesana e guerriera, i côrsi trovano nelle salde gerarchie burocratiche una base, per esercitare il loro selvaggio autoritarismo e le loro innegabili qualità di comando. Io ho veduto all'opera, nelle armate francesi, centinaia di graduati côrsi: e c'è nessuno che compianga così come il soldato di leva del continente o l'arruolato nella Legione straniera che cadono sotto le mani di questi soldati di ventura, che avrebbero animo, ancor oggi, di gettare chi è loro antipatico in pasto ai cani, come faceva Sampiero. Nelle residenze isolate, nel bled africano, in tutte le infinite occasioni di indipendenza effettiva e di arbitrio che offre una grande armata di colore e un grande impero coloniale, migliaia di côrsi trovano ancor oggi quelle identiche soddisfazioni e quelle stesse lusinghe di amor proprio che ì loro avi trovavano mille anni fa, al tempo dei Cinarchesi, quando ogni valletta di qua o di là dai monti, era un feudo o un regno dei "caporali". La Repubblica li seduce, più assai che cogli stipendi, colle possibilità di comandare, colle decorazioni e coi titoli. Le decorazioni di cui dispone la Repubblica francese sono numerose - più numerose, per esempio, di quanto non fosse quelle del Regno di Prussia - e, a sfogliarne un catalogo, sorge il sospetto che più d'una sia stata istituita appositamente per i sottufficiali côrsi aventi legittima aspettativa ad un impiego civile.





    La pensione viene poi a conchiudere degnamente la vita del côrso esemplare, del côrso tipico. E' allora che molti ritornano nell'isola, e per lo più proprio nel paesetto dove son nati, e donde la loro "carriera" è stata seguita passo a passo, appoggiata o contrastata attraverso a tutte le mine e contromine della lotta di clan; e là si dedicano alla politica. Per lo più di età e di fisico vigorosi, essi non fanno assolutamente più niente: signori essendo, ed intendendo dimostrarlo con un signorile ozio. Sono i "sèrgeants racoleurs", gli agenti arruolatori più efficaci presso i ragazzi e i giovani: in tutte le pievi di Corsica ci sono gli esperti dell'Annuario Militare, del Moniteur Officiel della Repubblica, dei bollettini dei vari Ministeri: sono essi che consigliano i giovani del loro clan e li dirigono in questa o quella carriera burocratica, in questa o quella specialità dell'Armata. La loro politica è la politica del clan, nel significato classico: se sono maire malversano, se sono giudici di pace storcono la legge, se sono presidenti di seggio mettono le mani dentro le urne; se sono giurati negano la evidenza stessa dei fatti: in tutto il resto poi, gentiluomini compìti, fioriti conversatori, ricchi di una esperienza mondana che spesso si è temprata al sole e alle astuzie di tre o quattro continenti. Il loro orgoglio supremo, è di piluccare quante più possono annualità allo Stato: io ho incontrata molti "vecchioni" che dicono subito la loro età, e la cifra complessiva da essi riscossa, a titolo di pensione, alla Banque de France. E' il bottino ch'essi portarono a casa: e lo esibiscono con la compiacenza dell'antico côrso, che aveva fatto razzia in terra di genovesi, o aveva militato nelle bande di Messer Giovanni dei Medici. Il bottino annuo che rientra in Corsica a titolo di stipendii, pensioni, assegni per donne partorienti o famiglie numerose, ecc. è computato a non meno di cento milioni annui.





GRANDEZZE E MISERIE DEI CORSI EMIGRATI

    Questa affluenza di côrsi nell'amministrazione francese, e questo riflusso di pensionati nell'isola, hanno vaste conseguenze culturali, linguistiche, sentimentali.

    I côrsi, come tutti gli isolani, mentre fuggono la loro terra, vi sono poi attaccatissimi; non soffrono di nostalgia, ma sono duri da assimilare. La routine della burocrazia li liscia e li leviga; ma non li priva della loro individualità côrsa. Si aggiunga la posizione specialissima in cui i côrsi sono, e sentono di essere, nell'amministrazione francese.

    Onori, croci, roubans rouges, uniformi, promozioni, pensioni, tutto questo è loro concesso con equità, anzi con larghezza. Non raramente arrivano ai primi posti della vita francese, anzi della scena parigina: per dire proprio dei contemporanei; Peretti della Rocca, della celebre famiglia di Sartena, è ambasciatore a Madrid; Grossetti, comandante di Corpo d'Armata, fu celebrato come uno dei vincitori della Marna; Ceccaldi, il fidatissimo di Caillaux, aveva trovato nell'Aisne un collegio a vita; Moro-Giafferi è l'avvocato-principe della curia parigina; Dominici e Bonardi sono due romanzieri alla moda. La tradizione dei Pietri, dei Casabianca, dei Pozzo di Borgo, dunque, continua. Ma mentre - forse - queste personalità di eccezione trovano, o trovarono, una seduzione irresistibile ad operare su un grande teatro, come quello di Parigi, colsero e colgono, per così dire, tutte le rose della gallicizzazione, e nessuna spina; le migliaia e migliaia di piccoli agenti subalterni, sparsi un po' dovunque sul continente o in Colonia, colgono anche molte spine. Resta, fra loro e i colleghi francesi, un distacco indefinibile, un vago disagio, un senso di distanza. Sfumature: ma i francesi sono maestri nel far sentire le sfumature. Quell'ufficialetto del chasseurs, per esempio, che viene a passare la sua licenza a Ajaccio per farsi ammirare dai clienti del caffè Grandval, quante "sfumature" ha dovuto percepire! Che lui è côrso, i suoi colleghi della Scuola militare e del reggimento glie l'han fatto capire in tutti i modi: "côrso": cioè interessante, ma un po' bandito; prode, ma un po' zampognaro; simpatico, ma un po', romanzesco; gradito amicone, ma un tantino coloniale; commensale accettissimo, ma dopo aver imparato a stare a tavola a Parigi; compatriotta di Napoleone... però, che peccato avere per compatriotti anche tanti sbirri!





    Bisogna non conoscere i francesi, per ignorare quale varietà di sorrisi e di complimenti essi hanno a disposizione per far comprendere a un côrso che nascere in Corsica è, lasciamo andare, une eccentricità che tocca quasi la sconvenienza. Quanti bocconi amari trangugiano così i piccoli funzionari côrsi sperduti nelle riservate ed esclusiviste cittadine francesi di provincia, quanti, dinanzi agli stessi indigeni, i côrsi coloniali! La vita del militare e del funzionario côrso è un continuo memento: "bada che tu sei côrso!". La Francia, mentre lo vorrebbe gallicizzare, rinforza la sua intima insularità. La gallicizzazione è superficiale, è vernice: molto spesso, i côrsi si impuntano, non vogliono tradirsi, vogliono dimostrare a sé stessi, più ancora che ad altrui, che essi sono gallicizzati, ma sì, completamente; parigini, diamine! Non per niente Grossetti e Ceccaldi ostentavano di non saper parlar côrso. Ma in questo stesso proposito, tutti riconfermano in se stessi, appunto, la loro peculiarità: funzionari francesi, si, ma di Corsica: parigini, sì, ma di Ajaccio!

    Quei molti che tornano nell'isola in licenza o pensionati, respirano. Sono orgogliosi dei loro gradi e delle loro croci, parlano francese, leggono il Petit Marseillais; il passato trascorso sul continente, si trasfigura nei loro racconti al caffè: tutti trionfi, nessuna leggera "sfumatura", mai. Ma, in fondo, sono lieti sopratutto di lasciarsi riprendere dalle vecchie voci e dalle vecchie pietre e dalle vecchie usanze; i loro rapporti sentimentali colla Francia sono capricciosi, un po' l'esaltazione, un po' il broncio; un po' le colorite descrizioni della bombe a Parigi, uno po' le accuse di sfruttare i côrsi "che fanno andare avanti da soli la baracca". In questa loro incertezza e variabilità di umori, le migliaia di funzionari che refluiscono in Corsica non sono certo l'elemento decisivo della gallicizzazione.





    Ajaccio è la capitale dei giubilati: è dunque, veramente, la capitale della Corsica odierna. La ricerca di immobili, in Ajaccio, è fortissima. La maggior parte dei funzionari côrsi aspira sopratutto a questo: possedere un appartamento o un buco qualunque in una delle vecchie case di Ajaccio, costruite alte a modo della Riviera, e installarsi così nella "nouvelle Rome", dove secondo canta l'inno cittadino, "encore une fois Dieu s'est fait homme, Napolèon, Napolèon". In generale, la costa nord-orientale, e le cittadine prospicienti la Francia, come Ajaccio, Calvi, I'lle-rouge, appaiono i centri di irradiazione dell'influenza francese: ma sono, in realtà, soltanto centri di irradiazione di aperitivi, di giornali del continente, e di giornaletti côrsi. Gli aperitivi hanno fatto molta breccia; ma la carta stampata ne fa molto meno. L'unica lettura che appassiona i côrsi è quella degli Annuari dell'Amministrazione: leggono il testo in francese, lo commentano in côrso.

LA "DIASPORA" ALL'ESTERO

    L'emigrazione non giova tanto a gallicizzare l'isola, quanto a legarla alla Francia per mezzo delle colonie di côrsi, formatesi sul continente e in tutto l'impero francese. Siamo di fronte ad una vera "diaspora" côrsa in tutto il mondo.

    L'attività e la compattezza delle colonie côrse sono fortissime. Chi va in Corsica, vede appena metà della vita côrsa: l'altra metà è di là dal mare, bisogna cercarla a Parigi, a Marsiglia; sulla Costa Azzurra - in tutto il resto del mondo. Quasi esattamente la metà; Ambrosi valuta i côrsi fuori dell'isola a circa duecentomila; i "cursista" elevano assai la cifra.

    La colonia più forte, in Francia, è quella di Marsiglia: trentacinque-quarantamila côrsi. E' anche, in terra di Francia, la più antica; fin dal XVI secolo, i côrsi emigravano, o a Marsiglia o a Livorno. I côrsi di Marsiglia danno una discreta percentuale al commercio: è la meno "funzionaristica" delle colonie. Tolone è il grande arsenale della marina francese, e il quartiere generale degli equipaggi côrsi. Gli isolani di Tolone sono trentamila. Settemila ne ha Nizza: una colonia fiorente e scelta, di impiegati, professori e professionisti: pare che nel cosmopolitismo di Nizza i côrsi si rinserrino sempre più fra di loro: è proprio a Nizza che Antoine Bonifaciu e Paulu Arrighi pubblicano l'Annu Corsu, tutto in dialetto: Pietro Leca l'Aloès, di ispirazione félibrista. In Algeria si calcola non vi siano meno di cinquantamila côrsi; intieri villaggi, come Sidi Mersuan presso Costantina, sono popolati da isolani. La colonia di Parigi è informe e scadente: non meno di ventitremila isolani, molti dei quali occupatissimi a dirigere le opere di approccio per le promozioni e le pensioni di tutti i loro conterranei, sparsi pel mondo.





    A Parigi, appunto, si presenta uno dei più curiosi fenomeni di "corsismo" di bassa lega: l'azione di P. O. Poli e della cosidetta Union des Corses independents. Il Poli, antico usciere ministeriale, poi concierge di Jean Richepin, impiantò un giornale settimanale (L'Echo de la Corse), un partito, e una agenzia di soffiettature e disbrigo di pratiche presso i ministeri: è iniziatore di sottoscrizioni a getto continuo, o in memoria di Grossetti, o in onore di Ceccaldi, o per il monumento di Pontenuovo, o per tutti gli scopi che il sentimento della patria rende accessibili ai côrsi emigrati, e reclamistici per gli organizzatori. Per quanto grossolano sia il trucco con cui egli dissimula i propri fini personali, affluiscono verso di lui, da tutte le parti del mondo, adesioni di poveri isolani sperduti: egli fonde le rivalità dei clans opposti, dando ad intendere a tutti che la rigenerazione della Corsica è a portata di mano, nell'ufficio del capo divisione amico, o del segretario di gabinetto suo intimo. P. O. Poli è un bellissimo esemplare di procacciante côrso, non lontano dal tipo del commendatore basilisco o calabrese impiantato a Roma a dirigervi la scalata alla burocrazia dei suoi conterranei: attaccato alla propria terra e reclamista, servo di tutti i ministri continentali e pur sincero quando parla di solidarietà con i suoi conterranei. Non è del resto il solo grande agente burocratico che la Corsica abbia a Parigi. La Corsica, in materia di avanzamenti, tratta con il governo della Repubblica come con quello di una potenza straniera: P. O. Poli e i suoi colleghi sono gli agenti consolari di Corsica all'estero.

    Nell'impero coloniale poi, i côrsi dell'Africa del Nord e della Cocincina sono particolarmente organizzati. Le "Societés amicales corses" sono dovunque il centro di una azione di difesa isolana: qualche volta, le colonie corse entrano con una personalità morale distinta dinanzi alla madre patria: per esempio, l'attuale deputato di Corsica Pietri, ex-capo di gabinetto di Caillaux, ex-Controllore generale delle finanze marocchine, è una creazione elettorale dei côrsi di Marocco, che lo presentarono con un manifesto ai compaesani dell'isola. Così, la pubblicazione dell'Annu Corsu è aiutata in modo speciale dalla "Amicale corse de la Cochinchine", dove - suppongo - i direttori hanno relazioni o parentele. Così ancora, quest'anno, la colonia côrsa della Indocina ha provveduto, con fondi propri, d'accordo con la Societé des Sciences historiques de la Corse a far tenere un corso di storia isolana a Parigi, affidandolo al prof. Ambrosi.





    L'associazione dei côrsi all'estero è la prima delle conseguenze dirette dell'emigrazione. Il P. O. Poli si è fatto iniziatore di un Annuaire général des corses, che sarebbe di grande interesse per dare una dimostrazione qualitativa delle posizioni raggiunte dai côrsi nell'impero francese: ma la persona del promotore - che naturalmente ha avuto tutte le adesioni dei ministri e deputati côrsi - dà troppo scarso affidamento. Più modesto, ma più sicuro, sarà il quadro complessivo di tutte le società di cultura e assistenza dei côrsi fuori dell'isola, cui so che lavorano Arrighi e Bonifacio per il prossimo volume dell'Annu Corsu. Uno degli aspetti più singolari dell'associazionismo côrso è che appena appena è possibile, i côrsi si raggruppano secondo l'appartenenza a questa o quella contrada dell'isola: Parigi ha leghe, mutue e "amicales" di Fiumorbesi, di Balagnini, di Niolinchi, di Capicorsini, di Cortesi, di Ajaccini. Non per niente i côrsi vantano di essere una nazione! In questi raggruppamenti per contrade, rifiorisce l'antico spirito e le peculiarità delle "pievi" côrse; essi sono un potenziamento dell'insularità corsa, e il côrso niolinco o balagnino, che a Parigi si ricorda di essere tale, e di appartenere a quelle quattro montagne dell'isola che sono la Balagna o il Niolo, e non a quelle quattro altre, è un corso temprato, un côrso elevato al quadrato.

    Naturalmente, in questi raggruppamenti, la "politica" e la lotta dei clans isolani sono trapiantate di pieno diritto e vigoreggiano; tanto più, quanto più sono riuniti i côrsi di una contrada ristretta, di una "pieve"; e traverso tutti i funzionari côrsi, penetrano nel macchinismo burocratico e amministrativo dello Stato francese. Quante vendette côrse non sono state compiute, a colpi di decreto, da ministri continentali ignari, che le coprivano con la loro firma! Quanti episodii della politica di clans isolana hanno il loro svolgimento sulle colonne del Moniteur Officiel! Per accorgersene, per capire, bisogna essere iniziati, non al diritto amministrativo francese, che pei côrsi non conta, ma alla vita della diaspora e della emigrazione e del funzionarismo côrso! Colomba di Merimée, che è sempre il libro più bello, più vero, più completo, sulla Corsica - dico sulla Corsica moderna, odierna - ha solo bisogno di una appendice, che descriva le vendette raffinate compiute, non più col moschetto, ma coi bollettini dei ministeri di Parigi: la diáspora côrsa, sul continente e nelle colonie, pullula di Colombe, che solo per un superficiale adattamento al costume europeo, adottano sistemi più protocollari dell'eroina di Olmeto.





    Questa nutrita e attiva diáspora côrsa, questo associazionismo dei côrsi emigrati ha due conseguenze.

    La prima, è la creazione di infiniti vincoli materiali fra l'isola e il continente. Tutti i côrsi emigrati in Francia o nelle colonie sono sospettosissimi di qualunque forma attenuata di irredentismo. Essi vogliono che la Corsica resti alla Francia, perché così hanno la madre patria a portata di mano. Un irredentismo attivo significherebbe per loro la rovina o la compromissione di posizioni personali faticosamente acquistate; lo farebbero combattere da tutta la parentela rimasta nell'isola, e, se fosse necessario, passerebbero il mare per andare a fare le schioppettate contro gli eventuali separatisti. Dei sentimenti di questi côrsi emigrati va tenuto il massimo conto, quando si parla dell'isola; perché gli emigrati rappresentano la parte del popolo côrso più cospicua per cultura e per influenze, potenti anche nell'isola.

    La seconda è la difesa ombrosa e suscettibile delle caratteristiche isolane. L'associazionismo côrso è il maggiore strumento di conservazione della lingua, del costume, della - in un lato senso - italianità côrsa nella massa degli emigrati. Gli emigrati, legati e vincolati dall'associazionismo, resistono meglio alla francesizzazione: tutto contribuisce a questo risultato, le inimicizie come la omertà, la solidarietà fra gente dello stesso clan, come le vendette. Gli emigrati tornano ogni tanto alla madre patria, con fedeltà che dura più generazioni: d'estate, gli hôtels di Vizzavona, di Oreggia, di Evisa sono pieni di gros bonnets della burocrazia parigina, che vengono a fare provvista di storie e di rancori isolani, per tutto l'anno. I côrsi poveri di Parigi mandano i loro figli nelle Colonies scolaires fra i monti della madre patria. Le Associazioni côrse sul continente sono grandi agenzie di matrimonio, beninteso fra côrsi; e così anche la miscela dei sangui è rallentata il più possibile.





    In sostanza, la emigrazione trova il suo contrappeso nell'associazionismo e nel sentimento dell'insularità, che si fanno più vivi quando il côrso è all'estero, in mezzo a gente del continente. Cresce così la complessità dei rapporti economici e politici fra la Corsica e la Francia; ma, al di là di questo, la Corsica si difende vigorosamente da ogni francesizzazione della lingua, del costume, della razza. Anzi; quanto più quei rapporti si fanno intensi, tanto più questa difesa assume coscienza e forza; tanto più coloro che sono rimasti nell'isola e coloro che ne sono emigrati si attaccano al patrimonio ideale della vecchia Corsica, e comunicano in esso. Quando i francesi parlano della "francesizzazione" della Corsica, credono che davvero l'accresciuto numero dei concorrenti côrsi alla Legion d'Onore o alla Croce di Guerra o al Mérite agricole, o che l'intensificato assalto agli organici, significhino una trasformazione dei sentimenti e del costume isolano. Essi sbagliano profondamente: commettono l'errore inverso a quelli italiani, che considerano la Corsica, prescindendo dal grande fenomeno della sua emigrazione, e dei rapporti materiali che ne conseguono.

LA DIFESA DEL DIALETTO

    La prima e più importante conferma di ciò, è la fioritura della letteratura dialettale côrsa, che fu sempre vivace, ma che ora interessa tutti gli isolani, è nota anche al più ignorante capraio. Non mi dilungo a far nomi e a dare saggi, anche perché, su questo punto, è relativamente facile orientarsi.





    Il principio che sta fitto in capo a ogni côrso, ormai, é questo: "Si noi lasciamo more 'a nostra lingua, 'a nostra razza murarà cun ella", Alla francesizzazione superficiale della lingua, si reagisce con l'accorato affetto al dialetto, che è veramente bello, sonante, forte, degno di un grande popolo, e che sempre suscita, nel cuore di ogni italiano che lo oda, l'apostrofe del Tommaseo:

"Itala terra sei; nell'accorata
delle tue donne funeral ballata
spirano i suoni che il mio Dante amo".

    La difesa del dialetto trova rispondenza nel cuore della gente più umile, si accorda la diffidenza contro il "pinzuto" del continente, con la rabbia delle beghine contro le ragazze che smettono il "mandile", con il misoneismo del pastore che vuol correre da un capo all'altro dell'isola con i suoi armenti, senza impedimento di nuove coltivazioni "pinzute", e sopratutto con il rancore malcelato delle migliaia di corsi pensionati, che, in fondo in fondo, credono di essere stati burlati dalla Francia che ebbe la loro gioventù per un boccon di pane. La difesa del dialetto tocca tutto un popolo di montanari guerrieri nelle fibre più delicate dell'amor proprio isolano e del pessimismo conservatore; è la grande posta della vita intellettuale di tutta una razza; tutti i côrsi sentono questo, e la battaglia è perciò vinta.





    Io ho conosciuto il poeta côrso attualmente più attivo, nel pieno fiore della produzione e della popolarità: (Maistrale Domenic'Antone Versini) di Marignana. Senza affettazione e senza posa da aedo mistraliano, egli è l'uomo e il poeta della zolla, della terra, colui che ha il dono divino di parlare alla gente del suo sangue, al mulinaghiu, al cantoneru, al pastore, al stimadore, delle cose che questi amano e comprendono, nella lingua pura e forte dei loro padri. Emigrato in gioventù a Marsiglia, tornò benestante in Corsica; ora coltiva cedrati e vigne sul Golfo di Porto, sorbisce molte bibite nei caffè ajaccini, gira l'isola per conoscere quanti più può dei suoi compatrioti, per leggere e discutere coi babboni le sue poesie, per far recitare ai piccoli pasturi le sue commedie. Egli è il depositario di tutte le rudi facezie del leggendario Grossu Minuto, il confidente di tutte le saporose burle rurali delle "pievi". Quando il presidente Millerand visitò la Corsica, fu Maistrale che lo salutò al varco della foresta di Aitoni, sopra il golfo di Porto, all'alpestre soglia del Niolo: e parlò dignitosamente in côrso, di ospitalità e di cortesia, senza dimenticare nessuna delle glorie isolane, neanche i morti di Pontenuovo; fu allora, davvero, il primo cittadino della sua nazione, e il poeta, unico ambasciatore degno del popolo côrso. La sua fama è domestica, d'uso comune come gli attrezzi dei mestieri: io chiesi di Maistrale a genterella del Niolo, della Balagna, di qua e di là dai monti, e tutti mi sapevan dire chi era, e dove stava, e che sul Golfo di Porto egli possiede una torre e un mulino, e che là scrive poesie e immagina stalbatoghj. E' forse, la sua, la vera gloria: la risonanza della propria poesia, che Mistral si augurava di avere almeno in Arles, e che egli ha in Corsica: quella che sola consola, quella che vola incontro, non dalle aride pagine dai critici, e dalla stereotipata ammirazione di milioni di imbecilli indifferenti, ma dalla viva voce dei compatrioti e dai noti visi. Di tutti i côrsi ch'io conobbi, Maistrali, "corsu sciappatu", paesano di sangue ritornato alla terra con meditato proposito, contadino rinvigorito e rinsaldato dalla esperienza del continente, è la mente più alta, quello che più sente e riaduna in se le nostalgie degli emigrati e le tristezze dei rimasti, quello che con maggiore prudenza scruta il destino della sua isola, il più conscio di tutti i pericoli che le sovrastano, il più amico dell'Italia, il più nemico degli italiani ignoranti e pedanti che si propongono di trattare la nazione côrsa come un armento da rivendicare; e sotto la sua protesta, di volere "una Corsica allegra", sotto le sue risate sonore di uomo forte e sano, si sente tutta la nascosta serietà della difesa dialettale, che salvi il salvabile, senza compromettere l'avvenire.





LA DIFESA CULTURALE

    Naturalmente, dal campo della difesa dialettale, a un ripensamento autonomo della storia e della cultura isolane, il passo è stato breve. I côrsi, per farlo, non aspettano certo i soccorsi degli eruditi italiani, siano questi, o no, deputati fascisti.

    E' affatto gratuito affermare che gli studi storici côrsi siano stati tutti viziati da una pregiudiziale politica filofrancese. Il prof. Gioacchino Volpe, in un programma di un certo gruppo di "Amici della Corsica" di recente formazione ambrosiana, afferma la opportunità di contrastare la "sopravalutazione del momento francese" negli studi corsi. Chi esamini l'opera della "Société des sciences historiques et naturelles de la Corse", di Bastia, non si avvede del grave difetto segnalato dal prof. Volpe. La Società fu fondata nel 1884, dall'abate Letteron, un "champenoise" erudito ed attivo, andato in Corsica come professore di Liceo, ed abituato a lavorare come i preti francesi eruditi, cioè molto seriamente. Le annate dei bollettini della società radunano studii di capitale importanza, per tutta la storia della Corsica, e specie per quella feudale: le opere pubblicate dalla società non rivelano nessun proposito di apologia francese: basti dire che v'è la Storia dei Corsi e la Corsica del Gregorovius, due libri in cui il "momento francese" non è certo "sopravalutato". Il professore Volpe, che ha inaugurato la storiografia "italianissima", della Corsica con un recente scritto pubblicato in "Politica", è in errore se crede di poter nascondere la propria tendenziosità e la propria aspirazione ad accelerare un irredentismo côrso, accusando di scarsa coscienziosità scientifica uomini insigni negli studi locali côrsi, come il Letteron, il Lucciana, il De Morati. Piuttosto, é da ricordare un particolare; che la "Societé des Sciences de la Corse" non contò fino ad oggi, neppure un socio ordinario (e pagante) fra i dotti o patrioti italiani; e ha tre sole malinconiche "Società di Storia patria" italiane fra i soci corrispondenti. Non so se il prof. Volpe, in tempi recentissimi, si sia associato; mi auguro che, oggi almeno, egli abbia rotto una assenza che spiega - ma insieme aggrava - l'imprudenza di certe accuse contro gli studiosi côrsi.





    Gli appunti del Volpe colpiscono soltanto alcuni più giovani cultori della storia côrsa: i quali hanno voluto accentuare i rapporti storici tra l'isola e la Francia nel secolo XVI, e il fenomeno dell'emigrazione militare nelle armate francesi, antichissimo, quasi fossero sintomi precorritori di una aspirazione côrsa all'unione con la Francia. Il più forte rappresentante di questa tendenza è l'Ambrosi, professore - fino al luglio scorso - a Bastia, di famiglia côrsa cospicua, ma legatissimo all'ambiente accademico francese. La sua Histoire des Corses et de leur civilisation è effettivamente un modello di esposizione abilmente tendenziosa: egli comincia con dissertazioni geologiche di questo genere: "Pour les géologues, la Corse n'a jamais fait partie du continent italien actuel, dont la formation par plissement et charriage est relativement récente; à une époque anterieure, elle etait rattachée à la region provençale et alpine par un isthme étroit dont l'effondrement n'a pas supprimé toute l'analogie entre l'Esterel et les Alpes d'une part, la Balagne et le Cap Corse de l'autre. Quant aux zoologistes et aux botanistes, ils nous disent que la faune et la flore ont plus d'affinitè avec cellcs des Pyrènèès de la France et de l'Afrique du Nord, qu'avec celle de Toscane. Nous nous garderons bien de commettre une hérisie geographique, en faisant de la Corse un morceau de l'Italie. Bien au contraire, nôtre île existait avant la péninsule voisine, et celle-ci était encore partiellement recouverte par les flots, alors que la patrie corse dressait fièrement ses hauts sommets sous le ciel méditerranéèen". Questo esordio può dare una idea del tono di tutta l'opera: in cui troviamo una etnologia che riavvicina i côrsi ai baschi piuttosto che agli italiani, una sistematica negazione dell'importanza fondamentale del periodo pisano, e via discorrendo, fino all'ultima pagina che accenna alle "convoitises de l'Italie" sull'isola. Il prof. Ambrosi, che ho avuto l'onore di conoscere, non è peraltro un cattivo côrso; intanto, la sua opera, fatta la debita tara, utilissima e molto aggiornata alle ultime ricerche: consigliabile agli italiani desiderosi di conoscere la Corsica, forse più degli scritti del prof. Volpe. L'Ambrosi è poi uno dei pochissimi isolani che sia nettamente realista sulle risorse economiche del suo paese: che non viaggi nel consueto mondo dei sogni, in cui i côrsi viaggiano insieme coi sardi, con tutti i nostri meridionali, tutta gente cui le rispettive regioni appaiono ricchissime, fecondissime, rovinate solo dal malgoverno. Ambrosi vede la Corsica com'è; cioè troppo simile a troppa parte dell'Italia: ed ha una vivissima coscienza di tutta la miseria e di tutti i dolori sopportati dai côrsi in dieci secoli. Questo pessimismo lo induce ad essere diffidentissimo di ogni irredendismo: e giustamente. Egli comincia ad aver torto, quando crede di poter combattere un eventuale irredentismo con deboli deformazioni geologiche, etnologiche o storiche. Non sa, l'ingenuo prof. Ambrosi, che i nazionalisti italiani, in questo campo, sono insuperabili!





    Comunque, le tendenze rappresentate dall'Ambrosi hanno trovato, nell'isola stessa, una spontanea reazione. Altri studiosi, come il Graziani di Ajaccio, archivista dipartimentale, pur mantenendosi nell'ambito strettamente scientifico, mettono in evidenza - per usare la fraseologia del Volpe - il "momento paolista" della storia côrsa. Le ore che ho passato nelle tre stanze terrene della prefettura ajaccina, insieme allo sgiò Graziani, a ragionare di nomi liguri e di termini di mestiere ancor nella parlata isolana, a sfogliare i cartolari rilegati in bleu delle entrate e delle spese nella repubblica patriarcale del Paoli, i Libri magistrali dei conti pubblici e dell'Entrate e delle Spese del regno, sono tra le mia più feconde ore di Corsica.

    Vero è che mi tormentava un po' uno scrupolo; tutti gli irredentismi sono nati così, come tarle, tra una filza e uno zibaldone: e sedussero, prima di tutti, gli uomini che aprono i libri con i polpastrelli esangui del bibliofilo. E io non volevo, come non voglio, contribuire in minima parte ad un eventuale irredentismo côrso; e mi doleva che questi nobili studi storici, di cui vedevo, attorno a me, i fondamenti e i puntelli, potessero forse suscitarlo. Parlai del mio scrupolo al signor Graziani, il quale mi rispose con un sorriso degno di Sylvestre Bonnard. In effetti, il signor Graziani è un veterano dell'Ecole de Chartes, ed ha appreso dall'illustre professore anche più che il sorriso; sa che tutte le più oneste, e filologicamente pure intenzioni possono passare per crimini, e, peggio ancora, provocare crimini; ma sa anche che nulla vi è da fare contro la malizia o la stupidità degli uomini.





IL GRUPPO DELLA "MUVRA" E IL PARTITO CORSO D'AZIONE

    Il nome del Graziani conduce a quello della "Muvra" e del Partitu Corsu d'Azione, di cui egli e Maistrale sono i due prudenti moderatori.

    Il movimento autonomista côrso è creazione di pochi giovani, raggruppati attorno a Pietro Rocca, ajaccino; che per la sua isola s'è messo a tutte le prove: fino a quella di tradurre Plauto in dialetto côrso, per dimostrare a se stesso, e agli altri, che le vecchie facezie latine quadrano perfettamente al gusto côrso, e che gli stalbatoghj dell'isola sono ancora quello che oggi più si avvicina, in tutta Europa, ai sali atellani. E' tipografo e libraio: nella sua azione non v'è nulla di intellettuale o di "problemistico"; egli non si pone il "problema" della Corsica, per lui tutto è chiaro e definito, ed egli guarda le teorie e le proposte e le preoccupazioni del continente con lo stesso disdegno con cui il capraio côrso guarda le comitive di escursionisti. (Io spero che la sua insularità gli farà dispregiare, un giorno, anche i giornalisti italiani che andranno in Corsica per pescarvi la croce di commendatore con corrispondenze nazionaliste). Nell'isola, le idee camminano lentamente; oggi si può essere, ancora, seguaci attardati di Pasquale Paoli e superstiti di Pontenuovo. Il Rocca lo è: un pochino piallato e tornito - non molto - da frequenti viaggi di affari a Nizza o a Parigi. Se egli si mettesse a fare il bandito - lo si vede dall'aspetto e dal tratto - riempirebbe del suo nome i monti della sua patria; se si mettesse a fare il politicante, sarebbe un fortissimo guidatore di clientele, e un forte aversario di Moro Giafferi e di Gavini: se emigrasse, dominerebbe una colonia di suoi compatriotti. Ma in lui il sangue côrso ha buttato per un altro verso.





    Il curato Carlotti, Domenico Massa, Marco Angeli, e parecchi altri giovani, sono con il Rocca alla testa del movimento corsista. Nel Partitu Corsu d'Azione si raggruppano parecchie migliaia di inscritti, e una massa non precisabile di malcontenti. Nelle ultime elezioni generali, il P. C. d. A. sostenne l'astensione. Questo è, di astenersi, sacrificio grosso per un côrso: è la privazione di partecipare alla faida elettorale, unica forma legale in cui le antiche faide delle pievi possano ricomparire. Un côrso non si astiene mai, quando c'è qualcuno che, con un pretesto qualunque, "mette in punta la masnada". Perciò, le elezioni côrse presentano, di solito, una forte affluenza alle urne. In questa occasione, si astennero 43.000 elettori, cioè circa il 40 per cento. I capi del P. C. d. A. addussero queste cifre come un successo del partito; anche facendo la tara, restano segno di una irrequietezza, di cui il partito è l'interprete più esplicito.

    I "Cursisti" fanno leva sul diffuso malcontento cronico degli isolani, sul risveglio della lotta per il dialetto, sul lento spopolamento dell'isola, sulle polemiche storiche in difesa dell'autonomia culturale della Corsica. Si rivolgono, sopratutto, ai vecchi, a "li babboni", che seduti sul piazzale della pieve deplorano la partenza di tutti i giovanotti e la scostumatezza di tutte le ragazze: attingono la forza della propaganda spicciola nel fondo ricchissimo della diffidenza isolana verso il continentale. Quando dicono male del côrso che, per un tozzo di pane e per una decorazione ridicola, va a fare il guardaprigione sul continente; quando mettono in guardia contro gli arruolatori, i "racoleurs", che - dicono essi - battono la campagna per far emigrare la gioventù; quando ironizzano sui côrsi del continente, sui "vittòli" che vogliono rinnegare la loro origine, e i francesi veri alla prima parola che dicono se ne accorgono e li canzonano; quando brontolano sull'invasione dell'isola di escursionisti francesi; in tutti questi tratti di propaganda spicciola, essi toccano dei tasti ben vibranti nelle opinioni e nei sentimenti di una gran massa di isolani. Sono un gruppo di giovani che cerca di incanalare al fine autonomista tutto lo sconfinato conservatorismo dei pastori e dei paesani.





    Cercano poi di procedere un po' oltre questo sfruttamento occasionale e tattica dei sentimenti popolari, oltre il brontolamento; cercano di suscitare vigor di vita culturale autonoma. La Corsica, culturalmente, è zero. Appena un côrso ha due dita d'ingegno, corre a Parigi. E così, quasi tutti. La Corsica, pullula di periodici: tre quotidiani ad Ajaccio, due quotidiani a Bastia, più parecchi settimanali, tutto deplorevole. Le belle lettere, le novità europee, la voce del mondo moderno, sono rappresentate in Corsica dal Petit Marseillais, che adempie, nell'isola, la funzione che il Giornale d'Italia compie nelle provincie meridionali; senonché, per la Corsica, date le comunicazioni marittime, gli arrivi ci sono un giorno sí e un giorno no; e il Petit Marseillais vale meno ancora del Giornale d'Italia. Terribile.

    La Muvra (nome dialettale di una specie di muflone isolano) è l'organo dei "Cursisti": più precisamente, come dice la testata, giornale di e pieve di Corsica, quasi tutto redatto in dialetto e rappresenta, nel suo complesso, un riuscito tentativo di foglio regionale culturale; non è il gazzettino di un gruppo o di un clan. Le richieste del "Partito Corsu d'Azione" vi sono dibattute con larghezza di informazione storica. C'è uno sforzo tanto più meritorio, dato che è giornale di partito, di cavarsi dal pantano del soffietto o della corrispondenza locale, largamente accolti anche dal Petit Marseillais, nella edizione speciale per la "terra da pipe" perduta in mare.





    La campagna per l'Università corsa, in Corte, è la Muvra che l'ha iniziata. Si tratta di un vecchio debito che la Corsica (e la Francia) dovrebbero pagare a Pasquale Paoli: e sul tema dell'Università, tutti i côrsi sono d'accordo, compreso l'Ambrosi. Ma non sarebbe poi una pressa, per fabbricare, per stampigliare, a serie, i funzionari da impiegare sul Continente?

    Un'altra grossa discussione suscitata dai Corsisti è quella del monumento commemorativo di Pontenuovo. Siamo sempre in sede di difesa culturale, apparentemente: storica. Ma sotto sotto, ci sono grosse questioni sentimentali: vive, perché i côrsi, dico tutti, anche i più miserabili, sanno perfettamente chi fu Paoli, cosa succedette a Pontenuovo; per ognuno di essi, anche per l'ultimo guardiaprigioni di Francia, queste sono un po' le patenti di nobiltà.

    Dunque, per il monumento di Pontenuovo fin dal 1914 si era costituito a Parigi un comitato di francesizzanti, il cui intento era: "Commemorer la glorieuse entréé de la Corse dans le giron de la grande famille française". Il monumento del Comitato parigino avrebbe dovuto rappresentare l'apoteosi dei vinti e dei vincitori, delle milizie di Paoli e dei granatieri di De Vaux; una conferma marmorea della interpretazione della storia di Corsica data dal prof. Ambrosi. Dopo la guerra, il comitato di Parigi riprese la raccolta. Il Consiglio Generale di Ajaccio si affrettò a votare nel gennaio 1923 a suo favore 6000 franchi: come atto di lealismo verso la Francia.

    Ma intanto s'era costituito un altro comitato, in Ajaccio; e con intenti ben diversi. Per questi, il monumento di Pontenuovo è un atto di pietà verso i côrsi che morirono combattendo in difesa della patria; per gli altri - cioè gli stranieri, i pinzuti, gli invasori, i francesi insomma - non c'è monumento che tenga. La commemorazione non li deve riguardare.





    Stralcio da un manifesto del Partito Côrsu d'Azione, che esprime con efficacia il punto di vista corsista:

    "Corses, nous avions à cœur de vous dénoncer les agissements infàmes du comité de Paris en vous précisant la signification injurieuse qu'il veut donner à son "monument". Malgré les protestations qui s'élèvent de toutes parts, ce groupement abominable n'en continue pas moins sous des dehors trompeurs, sa campagne anti-corse. Bien qu'il soit persuadé de l'inanité de ses efforts, il n'en continue pas moins à organiser des collectes. Prenez garde! Demain, on viendra, peut-être, vous prier de donner votre obole. Si c'est du sang corse que vous avez dans les veines, nous savons à qui vous la donnerez; mais cela ne suffit pas. Il faut que vous fassiez connaître la situation aux compatriotes qui l'ignorent; il faut aussi que demain, si l'on vient vous voir au nom de l'autre comité, du comité sacrilège, vous sachiez leur jeter en pleine face tout ce que vous avez sur votre cœur, car, fratelli, il faut que l'on sache que le monument qui s'élèvera, le 9 mai 1924, sur les rives sacrés du Golo, où tant des notres périrent, sera un monument "corse", qui glorifiera les soldats de la liberté, nos pères, rien que nos pères et non leurs bourreaux ".

    In un altro manifesto, il Partito Côrsu d'Azione proclama di voler elevare "aux bords sacrés du Golò" "a croce di u ricordu - a croce di a pietà - u mucchiu di a mala morte"; espressione, questa, di estrema vivacità: perché "mucchiu di a mala morte" si chiama in Corsica il cumulo di pietre sul posto dove un uomo fu ammazzato: ogni passante ce ne lascia una, in segno di pietà - e talvolta in promessa di vendetta.





    I rapporti fra i due Comitati si incattivirono. Più potente il primo, per adesioni ufficiali; più aggressivo il secondo, sorretto da molto nascosto rancore di gente, che si sente ancora un po', nei rapporti quotidiani sul continente, discendente dei vinti. I "Cursisti" furono accusati di essere irredentisti, fascisti, nazionalisti, italiani; ma non si spaventarono. Il monumento di Pontenuovo porterà una scritta in côrso: "Ai morti pe a patrìa côrsa".

    Non si può essere più intransigenti e più trionfanti.

    Vediamo ora qual'è il programma massimo del Partito Corso d'Azione e come esso si prospetta termini e modi dell'autonomia regionale.

    Eccolo rilevato da un numero della "Muvra".:

    "Ce n'est un secret pour personne que la législation unitaire, issue de la Révolution de 9789 et étendue à tout le territoire français est d'une application toujours malaisée parfois vaine en Corse. Le régime fiscal, la police ruràle doit étre organisés chez nous suivant des modes particuliers, en harmonie avec le tempérament de la race, les usages et les coutumes du pays. A cet égard, un Parlement composé d'une quasi unanimité de continentaux ne doit pas légiférer: cette fonction doit appartenir à des représentants du peuple corse, réunis dans leur propre pays et pouvant constater par eux-mêmes les résultats de la législation établie par eux. C'est en cela que consiste une grande partie de ce que l'on nomme l'autonomie.

    Mais ce n'est pas tout.

    La Corse, qui posséde des ressources naturelles dont la valeur est considérable - ressources minérales végétales et animales - doit avoir la libre disposition de ses propres richesses. Elle doit pouvoir les utiliser comme elle l'entend, les affermer à qui il lui plait, les hypothéquer au besoin. Cette faculté qui lui appartient de pleno jure lui permettra de tirer profit immédiatement et sans interminables formalités des agents naturels de production qu'elle posséde à foison. Elle pourra même emprunter en les offrant comme garantie et de cette façon se procurer les sommes qui lui sont indispensables pour son expansion industrielle et agricole.

    A côté du Haut-Commissaire, représentant du gouvernement central métropolitain au même titre que le gouvernement anglais du Canada ou de l'Australie, il y aura donc un Parlement Corse. Qu'il siège à Ajaccio, à Corté; ou à Bastia il représentera les intéréts et les aspirations réelles du pays.





    Il ne sera pas un foyer d'agitations politiques, parce que le Corse débarrassé du mirage des situations à obtenir sur le continent ne recherchera plus les places officielles comme il le fait aujourd'hui. Il n'y aura plus celle désastreuse corrélation entre le politicien corse actuel obligé de soumettre son action politique et sociale à la volonté de Paris - où il réside - et l'électeur corse qui compte sur son député pour trouver un emploi ou obtenir une faveur. C'est là un des grands vices de la centralisation dont nous souffrons.

    Enfin à côté de ces deux organismes, dont l'un, le Haut-Commissaire, est continental et représente l'unité nationale et dont l'autre, le Parlement insulaire est corse, il est nécessaire de créer un pouvoir exécutif conseil administratif local aussi, selon des modes et des conditions à determiner: mais, et j'insiste sur ce point, on n'établira rien de définitif, si l'on ne fait revivre un autre pouvoir, d'origine tout-à-fait corse, le pouvoir de contrôle, issù soit du Parlement, soit directement du peuple. C'est l'ancien sindacato de l'époque gênoise el de l'époque paolienne. Le Corse qui aime et recherche la justice, tient à soumettre les cas qui l'intéressent au jugement d'arbitres suprêmes et impartiaux; il aime à en appeler à un tribunal supérieur à tous les autres. Ce pouvoir de contrôle, s'exerçant sur les fonctionnaires et les juges eux-mêmes, est une institution purement Corse et qu'il faudra rétablir.

    Avec ces trois grands organes politiques et sociaux, Haut Commissariat, Parlement et Syndicat, nous avons l'ossature essentielle, la charpente solide du régime d'autonomie que nous appelons de tous nos vœux et pour l'avènement duquel nous voulons travailler de tous nos efforts".

    Ho voluto riportare questa lunga citazione, perché essa rende tutta la portata delle richieste dei "Corsisti", e rende anche evidente tutta la resistenza che i "Corsisti" debbono incontrare presso il governo centrale di Parigi, le diffidenze e le calunnie ch'essi son destinati a suscitare.

    Pensare che la Francia possa davvero accettare l'autonomia côrsa, in questi termini o in altri meno accentuati, è un assurdo. Il primo uomo politico francese che facesse un passo in questo senso sarebbe accusato di compromettere l'unità della Repubblica: e se fosse un uomo politico di sinistra, peggio che mai, avrebbe rizzato dinanzi a sé il fantasma della Convenzione, ecc.

    Ma v'ha di più. Un simile programma, se davvero minacciasse d'arrivare in porto, susciterebbe la indignazione di tutte le colonie côrse del Continente, la cui importanza, per tanta parte, si fonda sul funzionarismo e sulle inframmettenze amministrative.





LE ILLUSIONI DEGLI AUTONOMISTI DI FRONTE ALLA EMIGRAZIONE

    I Corsisti - io temo - possono trovare larghi consensi finché accusano la Francia di trascurare la Corsica; finché sfruttano il motivo consueto dei propagandisti elettorali nelle regioni povere. Le convenzioni colle Compagnie di navigazione Fraissinet, le comunicazioni marittime insufficienti, il passaggio da Ajaccio a Nizza troppo caro, le cimici in cuccetta, la ferrovia che non è ancora arrivata a Sartena e a Bonifacio, tutti questi sono temi, in cui più forte parlano i "Cursisti", più i côrsi saranno d'accordo con loro. L'accusa di "ingiustizia", levata verso la Francia, troverà anch'essa vasti consensi: ed ogni côrso ne vedrà provata la fondatezza, o nel ritardo della promozione del figlio sottufficiale, o nella crocetta mancata, o nella esiguità della pensione dopo anni di servizio sul continente. Ma cavare di qui una aspirazione autonomistica valida, mi par difficile. L'autonomismo effettivo prende di petto il funzionarismo côrso, la tendenza ad emigrare, la smania per il gallone o per il nastrino: e i "Corsisti" hanno il torto di trattare come semplici pregiudizi, quelli che sono i segni di mali gravissimi e di deficienze economiche e morali forse definitive.

    La situazione della Corsica è quella di tutte le regioni naturalmente povere, poste a contatto dell'attuale regime di grande produzione, o incorporate in organizzazioni statali complesse, in cui l'industria assume il carattere di fenomeno predominante. Ricompariscono, nei ragionamenti dei " Corsisti", le illusioni degli autonomisti sardi, dei regionalisti nostrani, e in genere dei meridionali. Così, un "corsista" non riconoscerà mai che il suo è un povero paese; egli vi parlerà delle foreste di Aitone come se fossero inesauribili, - e non sono, e lo sa chi ha veduto i larghi solchi che aprono le fabbriche di acido tannico -; vi parlerà delle castagne, il fondamento della libertà côrsa, come le definì. Paoli; parlerà degli ampi golfi e delle cale sicure, come se bastassero i buoni ancoraggi per produrre il traffico; vi parlerà della piana di Alessi da bonificare, come se fosse sterminata; e via discorrendo. Sì: "itala terra sei". Questi miraggi sono quelli che noi conosciamo, queste ricchezze sono quelle tante volte descritte dal meridionale emigrato, e che non ritornerebbe in Calabria o in Puglia nemmeno a schioppettate; la Corsica è tutto il Mezzogiorno, con l'attenuante dei monti un po' più chiomati, e della razza meno inficiata dalla malaria; e con l'aggravante della insularità.





    L'emigrazione dei côrsi e il loro funzionarismo non sono "capricci", non sono superstizioni da potersi combattere con una propaganda di partito o con l'autonomia. Sono sempre esistiti: la storia di Corsica è la storia della emigrazione dei Côrsi. Essi si riversano nelle amministrazioni del continente, non perché i governi francesi coltivino questa tendenza isolana alla burocrazia e all'arruolamento militare; ma perché nella psicologia del popolo côrso non c'è e probabilmente non ci sarà mai, la disposizione a quelle altre forme di attività, che si assommano oggi nella ricerca del lucro capitalistico. Più oltre risaliamo con l'indagine, più netta ci si precisa la figura della Corsica vera, vivente ancor oggi sotto la vernice del dipartimento francese: paese di economia, condizioni sociali, concezioni barbariche, - e non perciò meno rispettabile - in cui l'unica industria ammissibile è la prima, la originale, la fondamentale, quella della guerra: o i suoi surrogati burocratici, che possono estendersi fino all'impiego di porta-lettere rurale. Una Albania insulare. Chi ne capì meglio di tutti la irriducibilità e la disperata originalità, fu il mio compatriota, il governatore Stefano Doria il quale espresse un giorno il proprio meditato e fermo convincimento, che bisognava "estirpar la razza", cioè ammazzare tutti i corsi. Al Doria ne andò, per questa sua sentenza, cui aveva cercato di dare attuazione, larga fama di crudeltà e di cattiveria, meritato guiderdone dei consequenziarii. Ma ciò non toglie che la sua conoscenza del carattere côrso fosse infinitamente più seria di quella che hanno i favoleggiatori di un progresso industriale o di una modernizzazione dell'isola: in fondo il Doria faceva un degno apprezzamento della tempra dei côrsi, mentre costoro ne hanno un'idea mediocre e vile, di popolo decaduto pel malgoverno, e che deve essere "aiutato" ad alzarsi fino alle altezze della civiltà contemporanea. La Corsica è sempre quella, che Stefano Doria voleva sistematicamente spopolare: ancor oggi, forse, si potrebbero trucidare tutti i côrsi, ma non si potrebbe ridurli ad essere uomini moderni. Essi sono il più bello tra i popoli psicologicamente sprovveduti ed inermi dinanzi alle esigenze dell'attuale regime di produzione e delle necessità del mondo moderno.





    Queste cose dolorose sono state comprese molto bene dagli uomini della tendenza storica locale che ho chiamato francesizzante, e di cui l'Ambrosi è il più autorevole. Gli storici francesizzanti sono buoni conoscitori delle reali condizioni dell'isola. Quando essi dicono che i côrsi hanno raggiunto oggi la sistemazione migliore possibile in relazione al loro passato e alle loro capacità - ché questo è il recondito, ma non tanto, pensiero dell'Ambrosi - essi esprimono una opinione profondamente pessimistica sul loro paese, ma vedono con nettezza un grave aspetto della questione côrsa. Certo è, che per un piccolo popolo, aggravignato su un'isola povera, per cui l'emigrazione, la milizia e il funzionarismo sono esperienze secolari, la Francia e l'impero coloniale francese costituiscono un campo di azione e di prosperità insuperabile: offrono la maggior somma possibile di sodisfazioni e di vantaggi agli isolani.

    E non diciamo vantaggi materiali di strade e ponti, ché la Francia non amministra con precisione austriaca; diciamo ampiezza di volo consentito ai côrsi che hanno ali possenti, facilità di brillare e di emergere, l'industria della guerra in piena fioritura, il clinquant abbondante e il panache vistoso; le quali manifestazioni di attività sono ormai le uniche e le ultime consentite oggi, nel mondo così com'è fatto, ad una piccola povera nazione di contadini e di guerrieri. Traverso lunghi secoli di lotte, i côrsi troppo spesso dovettero mettere in questo il loro ideale: l'organizzazione militare e burocratica francese realizza appunto questo loro ideale. La Francia si è ammessa la Corsica: così insegnano i manuali di storia. La Corsica si è annessa la Francia, e l'impero francese, e se li gode come un campo aperto e riservato alle avventure dei suoi figli: questo é quanto, a certi momenti, si avrebbe voglia di credere, studiando i rapporti personali e famigliari, le peripezie delle generazioni, le genealogie di piccole dinastie di "conquistadores" numerosissime nell'isola, e perfette e complete nella psicologia, appunto, dell'uomo che un bel mattino se ne parte per cercar fortuna, a cavallo e col moschetto a spalla, verso paesi di oltre mare.





    Dal punto di vista dell'Ambrosi e della sua tendenza l'autonomismo côrso, quale lo sostengono i "cursisti", venendo a diminuire fortemente le chances e le prospettive dei côrsi fuori di Corsica, deve rappresentare una insostenibile sciocchezza.

    La esigenza di difendere la propria integrità nazionale, tutti i côrsi la accettano. Ma, in che modo? Dicono i "Corsisti": restate nell'isola e zappate: conservate le tradizioni e il costume, il dialetto e l'abito. Ma, e l'emigrazione, non è una tradizione? Una affermazione di vita nazionale? Questa ricca terra francese, a poche ore di mare, quelle vaste colonie, non sono imperi che aspettano ciò che è tradizione côrsa di dare, cioè soldati e funzionari? Per molti côrsi, fieri figli dell'isola, amantissimi della loro patria, la Corsica è troppo stretta; il sangue li spinge alla riva e all'imbarco, e per essi partire e correre il mondo, c'est peut-ètre la sagesse. E allora, l'autonomismo non sarà per loro, e per le centinaia di migliaia già emigrati, un inciampo e un danno?

    I francesizzanti, lo ripeto, non sono affatto tiepidi amatori della loro patria; essi ne possono, anzi, in date circostanze, interpretare bisogni secolari, ed essere più vicini a comprenderne la storia e le peripezie. Essi hanno, senza dubbio - dico i più colti e riflessivi - il pathos del grande fenomeno migratorio côrso, intendono più finemente uno degli eterni motivi, dei momenti essenziali della storia côrsa: quello dell'espatrio.





L'AUTONOMISMO COME PROTESTA:
"Noi non vogliamo morire!"

    Il movimento corsista, peraltro, interpreta un diverso motivo sentimentale di enorme peso: l'attaccamento alla terra, tanto più amata quanto più povera, alle vecchie case nere che non debbono restare deserte; l'orgoglio suscettibile e ombroso di una razza, che nell'emigrazione trova la carriera brillante, ma deve assaporare anche le umiliazioni nascoste. Quando l'economista e lo storico han ben bene parlato, dimostrando, come possono dimostrare, la tenuità delle risorse materiali della nazione côrsa, la sua impreparazione spirituale agli sviluppi del mondo moderno, essi ricevono, come risposta, l'unica che un popolo può dare: "Ma io non mi rassegno alle vostre considerazioni, io non mi rassegno ad essere travolto e a morire". Questa risposta, la dà, per il popolo côrso, il Partito d'Azione; e arriva così, con le sue vitali e sacrosante illusioni, a trovare consenso fervoroso in migliaia di cuori. I "cursisti" ripetono la obiezione che oggi, dinanzi alla dominazione mondiale di un ristretto gruppo di nazioni attrezzate per il grande imperialismo industriale, fanno i paesi meno preparati, e quindi soccombenti; che è poi la stessa obiezione che, entro i confini di uno Stato, muovono alle regioni più potenti a determinare la politica generale dello Stato stesso, quelle altre regioni che sono sacrificate e travolte; che è poi la obiezione e la protesta che si leva da tutti i borghi meridionali, confitti in vetta a colli nudi e tristi, dove la vita moderna non può arrivare mai: "Eppure noi, nati qui, non vogliamo emigrare; non vogliamo morire!". I "cursisti" cioè, in contrasto al momento dell'espatrio, accentuano e insistono sopra un altro momento essenziale della storia e della vita côrsa, quello del ritorno: è un ritorno ideale ch'essi propugnano, una svalutazione morale del fenomeno della "diaspora" côrsa, una resistenza, prima intima e mistica che politicamente organizzata, alle forze del vasto mondo che minacciano di travolgere e di schiacciare l'individualità della nazione.





    Dice il più famoso storico côrso, il Filippini, parlando dell'emigrazione côrsa nel secolo XVII, della ricchezze e potenza degli emigrati, e della miserabilità dei rimasti: "I Corsi, a mio avviso, avrebbero fatto meglio ad abbandonare l'isola in massa, e ne sarebbero rimasti contenti. Ma essi hanno un attaccamento si grande per la terra natale che preferiscono soffrirvi tutti i mali". Ecco, in poche parole, il problema fondamentale della vita côrsa: ecco riassunti i due momenti ideali, quello dell'espatrio e del ritorno.

    Filippini dà il suo avviso. E' l'avviso dell'uomo ragionevole, del pessimista, di chi ha potuto vedere cos'è il mondo di là del mare, e com'è piccola e povera la patria: "Emigrate". Oggi, Ambrosi e i francesizzanti dicono, larvatamente, lo stesso: "Statevi contenti, o côrsi; arruolatevi sul Continente, e tornate in Corsica, se volete, a godervi la pensione; la repubblica vi assicura almeno questa possibilità, è già molto".

    Replicano i côrsi del secolo XVII al Filippini: "Ma noi vogliamo star quì, dovessimo soffrirvi tutti i mali". E i "Cursisti", oggi, danno una replica analoga. Essi non ragionano così fortemente come i francesizzanti, ma intuiscono una delle esigenze implicite di tutta la storia côrsa. Le loro richieste di autonomia legislativa sono il riflesso di un moto sentimentale, secolare e profondissimo; le richieste possono cadere, ma quel moto si afferma dinanzi a tutti i ragionamenti.

    Il contrasto tra il consiglio di Filippini e la voce del cuore, tra la pratica secolare dell'emigrazione e la pratica, parimenti secolare, dell'attaccamento alla terra nativa, tra il momento ideale dell'espatrio e il momento ideale del ritorno, è gravissimo, e si fa sentire nel cuore e nelle parole di ogni côrso, anche del più umile. E' inutile dissimularsi che questo contrasto persisterebbe qualunque fosse l'ordinamento politico della Corsica; sia se la Corsica fosse autonoma, sia che resti dipartimento francese; sia annessa alla Francia, sia annessa all'Italia. Ma è indubitabile anche che oggi, date le peculiarità dell'emigrazione côrsa in Francia, esso è particolarmente drammatico e intenso.





    Finché il Partito d'Azione si mantiene in un campo di propaganda storica e culturale, o dà alle sue manifestazioni specifiche, di partito, un carattere blando come l'astensione, non succederà niente. Ma se dovesse, davvero, assumere consistenza più salda, e inasprire così quel contrasto intimo di tutta la vita isolana, prima ancora di trovare gravi resistenze a Parigi, susciterebbe la guerra civile: diciamo la guerra delle "pievi", la guerra fatta dai banditi, la guerra in cui si gettano i prigionieri ai cani, la guerra di Sampiero contro i partigiani dei genovesi: in una sola parola, la guerra côrsa.

IL PERICOLO DI UN IRREDENTISMO CORSO

    Non esiste, in Corsica, nessun irredentista dichiarato, e neppure, oserei dire, nessuno che riconosca intimamente, di essere irredentista. Le accuse che, di tempo in tempo, sono lanciate contro il "Partito côrso d'Azione" a questo proposito, sono perfettamente sleali.

    Non mancano, invece, gli irredentisti in nuce, in incubazione: che non vogliono confessare a se stessi di esserlo. Sono pochissimi: e se si dice loro la verità, se ne hanno quasi a male, perché comprendono tutta la portata pratica di un eventuale irredenismo, e ne temono le conseguenze per il loro paese. Eppure, ci sono. Non cito nomi, od opinioni o scritti, per ragioni agevoli a comprendersi; ma è facile per chiunque scorra almanacchi regionali o giornali, trovare accenti su cui non è possibile equivocare.





    Quando il fervore dialettale, quando l'interesse per la cultura regionale sono spinti all'attuale vivace intensità, è impossibile che, almeno ad un ristretto gruppo di studiosi e di intellettuali non si presenti, inquietante come un quesito di coscienza, la domanda: "Ma, e per caso, noi corsi non saremmo forse degli italiani?". Se questa domanda se la fanno degli uomini di cultura e d'ingegno, come in Corsica non ne manca, essi devono darle una risposta: devono farsi, attraverso lo studio e la riflessione, una convinzione. Non tutti hanno le risorse del prof. Ambrosi; non tutti riescono ad ingannare prima ancora se stessi, che gli altri. La indagine, da qualunque parte la si tenti, purché sia seria, dà una risposta univoca. E allora nasce, in quelle venti persone che son giunte al doloroso passo, una inquietudine e un malessere delicati e sottili: esse credono di essere vittime di una situazione storica, italiani deformati, francesi abortiti; pare ad esse di essere incapaci di dare tutto il fiore della loro intelligenza in Francia, e nello stesso tempo conoscono troppo poco l'Italia, la sua lingua e la sua cultura, per servirsene francamente, come fecero taluni côrsi fino a cinquant'anni fa, ultimo l'insigne Lucciana.

    Queste situazioni di disagio spirituale sono frequentissime nei côrsi: anzi, questo disagio spunta in tutti, appena si trovano a contatto di un italiano del continente. Ma finora, la schiacciante maggioranza degli isolani, anche colti, non se ne rende conto. Solo alcune decine di individui privilegiati ne hanno acquistato coscienza, vi hanno ragionato su, spesso vi si sono torturati e scarnificati sopra in cerca di una soluzione; queste diecine di individui sono degli irredentisti inconsapevoli. Ora, gli irredentismi sono nati sempre così: da una diecina di individui, molto spesso lontani da ogni proposito di propaganda o di azione.





    A queste ragioni intime che preparano l'irredentismo si possono poi aggiungere altri due coefficienti:

    1°) Una conoscenza assolutamente leggendaria dell'Italia, e in particolare delle condizioni del Mezzogiorno e della Sardegna. Non esiste, in tutta l'isola, un côrso mediocremente informato delle cose italiane: e perciò la favola dei grandi sacrifici dello Stato italiano per le regioni più povere, in ispecie per la Sardegna, trova numerosi credenti. E' impossibile, per esempio, rendere tutta la impressione che ha fatto in Corsica la costruzione del bacino artificiale del Tirso; tutti ne discorrono, con la convinzione che basta un buon bacino artificiale, per trasformare anche la Corsica in un inesauribile emporio di ricchezze.

    2°) Insieme a questa infondata credenza, sull'attività redentrice dello Stato italiano, c'è insieme l'intuizione che l'Italia rappresenti nel mondo un po' il principio e le ragioni di vita dei paesi poveri, assai più che non li rappresenti la Francia; che quindi l'Italia possa comprendere l'anima côrsa, tutta vibrante dello sterminato orgoglio e amore dei popoli poveri verso la loro terra, assai più che la Francia.

    Certo l'Italia non dà, alle regioni più povere, quel vasto campo migratorio interno che la Francia offre alla Corsica: ma il calabrese che emigra nelle città del Nord si trova certamente più a suo agio che non il côrso a Parigi. Certo, l'Italia, peggio della Francia, dà al contadino di Calabria o di Sardegna non altra chance di far fortuna, che l'arruolamento nei Reali Carabinieri; ma forse, il carabiniere sardignolo, nel settentrione d'Italia, trova meno ascoso disprezzo che il gendarme côrso in Francia; e sì che la Sardegna non ha dato all'Italia neppure mezzo Napoleone. Questi confronti, non è che i côrsi esplicitamente li facciano, ma oscuramente li fiutano: perché ogni côrso anche del volgo ha nel sangue, discesa per li rami, una varia esperienza di servigi mercenarii presso popoli stranieri, e ancor oggi gli par di ricordarsi, così, tra il lusco ed il brusco, che il meno straniero di tutti era forse quello che sta di fronte alla piana di Aleria, e che per andarci a far fortuna si sbarca nel porto di Livorno.





    Insomma, i côrsi intuiscono che, in Italia, le regioni nelle condizioni materiali e morali della Corsica sono più d'una: e che, nella compagine e nel funzionamento dello Stato italiano, il peso e la voce di queste regioni povere si fanno sentire più di quanto non sia possibile nello Stato francese. E forse, in questa intuizione, c'è un elemento di vero: è un po' la solidarietà dei paesi poveri e delle ragioni sfortunate che si fa oscuramente sentire. Si guarda, dunque, all'Italia, un po' perché la si crede donatrice di ricchezza, un po' perché la si intuisce inguaribilmente povera. La contraddizione è soltanto formale: e meditando su di essa, vedendo come, per opposte vie, l'Italia suscita l'interesse dei côrsi, acquistiamo appunto la certezza di essere di fronte a un movimento ideale di ineluttabile esito.

    L'irredentismo côrso è imminente.

    Chi - come me - ne ha acquistato la certezza, ed ama la Corsica non come un argomento da articolo, o come un pretesto per acquistar titoli di propaganda patriottica, ma per se stessa, per la sua povertà orgogliosa, nei suoi dolori secolari, nella sua irriducibile e coraggiosa ribellione a talune esigenze nella civilizzazione moderna, non può essere lieto delle prospettive aperte dal fatto nuovo dell'irredentismo. La Corsica è per me, e per qualche diecina - forse - di italiani, ben più che un'isola da trasformare in una provincia del Regno. E' un Regno, per noi, essa. stessa: il regno della gente brava e fiera, che guarda fisso negli occhi e, col suo schioppetto in spalla, si fa portar rispetto; nel che, forse, risiede sempre il massimo grado di dignità raggiungibile dalla natura umana. Noi la amiamo più come côrsi di elezione, che come italiani regnicoli.





    Ma noi non contiamo. Perciò, anche l'irredentismo côrso verrà al mondo, con tutte le manifestazioni e le conseguenze agevolmente prevedibili.

    Le autorità francesi, da parte loro, faranno il possibile per aiutarne la nascita e lo sviluppo. Sono già al lavoro. Durante il mio soggiorno nell'isola, la Prefettura di Ajaccio negò il passaporto ad uno dei pochissimi giovani studenti côrsi, iscritti alla Università di Pisa, per certe sue poesiole vivacemente autonomiste.

    Talvolta vogliamo dimenticare le esperienze storiche e confortarci con una tenue ma cara speranza. Possano i paesani di Corsica, gli uomini sani e forti con cui io ho camminato un po' su tutte le strade dell'isola, coi quali mi onoro di aver ragionato con profitto su tutte le cose degne e alte, che possono essere oggetto dei discorsi di uomini liberi, possano i paesani di Corsica salvare se stessi e la razza e la lingua e il costume, e insieme tener lontani i pericoli e i dolori che l'irredentismo porta con sé: Aiutateli voi, Maistrale, uomo buono e prudente. Nel vostro nome mi è caro chiudere questo scrittarello timoroso dell'avvenire; nel vostro nome, che fin nelle sue sillabe mi porta l'odor di rèsina di Aitone, e il tremolare della marina di Porto, là dove voi siete, côrso perfetto, signore.

GIOVANNI ANSALDO