IL MAESTRO DI DONATI

    Come abbiamo detto in un precedente articoletto Mons. Francesco Lanzoni è il maestro di Giuseppe Donati direttore del Popolo di Roma. L'accenno ivi fatto delle eminenti qualità di storico e di agiografo e del metodo del Lanzoni non poteva che essere fugace, sì da indurci a parlarne più diffusamente ora.

    Abbiamo detto che il Lanzoni come metodo è un positivista. Si tenga presente che questo ha per noi grandissima importanza; per noi che crediamo di aver sufficientemente deriso il semplicismo acefalo degli anticlericali, che sotto il pseudo-sistema filosofico che da tale aggettivo prendeva nome tentavan nascondere la loro vacuità demagogica; per non esser autorizzati oggi a dire che il meglio, cioè l'animus agendi di tale pensiero, è stato trasfuso nel realismo da noi accettato e professato, dopo che anche degli astrattismi idealistici abbiamo scoperto la vacuità e infondatezza, e ce ne siamo liberati.

    Oggi vorremmo anche noi lodare questa singolare figura di sacerdote e di uomo, e dichiarare di considerarlo uno dei nostri maestri, come ha fatto qualche anno fa il Donati, in un lodato articolo dell'Avvenire d'Italia a dichiarata sconfessione delle parole non eccessivamente riverenti scritte nel 1909 nella Voce.

    A questo proposito vogliamo col Donati anche noi ricordare gli articoli in quell'anno pubblicati nella stessa Voce (e poi in volume col titolo La salvezza è in noi!) da un gruppo di modernisti romagnoli ex-convittori, da quanto personalmente ci risulta, del Seminario Faentino di cui Mons. Lanzoni era allora Rettore. Non è questo il luogo per fare dei nomi né sarebbe oggi necessario: basta solo dire che Donati non era fra i redattori del volumetto, anche se per ragioni polemiche ne accettò in sostanza la critica dei Seminari come erano ordinati, dell'insegnamento in essi impartito e del metodo di tale insegnamento, particolarmente indugiandosi sul metodo dell'insegnamento storico, materia allora trattata dal Lanzoni.





    La critica che il Donati moveva in comunella coi modernisti al suo maestro, è tutta racchiusa nelle seguenti parole: "(il Lanzoni) per essere oggettivo falsa alle volte il concetto di storia, e sminuzza sminuzza aggirandosi intorno agli avvenimenti senza penetrarne la realtà, che tratto tratto lascia intravvedere timidezza pudica". Ed aggiugeva: "Poi gran parte dell'inefficacia del suo insegnamento va cercata nella stanchezza e nell'avvilimento in cui è caduto in questi ultimi anni, per cui sembra contraddire ogni forma di risveglio intellettuale in quell'ambiente dove egli tiene il primato, con una indifferenza pigra di disingannato". Il Donati finiva col dire che "il clero e il seminario di Faenza erano anni fa quasi risvegliati ad una volontà di studio prima ignorata; oggi sono ricaduti nell'inerzia primitiva, e la senilità anticipata del Lanzoni è causa principale di tanto rilassamento" (Voce, 25 novembre 1909, p. 211).

    Il "risveglio intellettuale" di cui parlava il Donati non era nient'altro che il risveglio della filosofia idealistica, allo stesso modo che l'incapacità del Lanzoni "di penetrare la realtà degli avvertimenti" non era nient'altro che l'esercizio d'una superiore moralità di studioso e di erudito che gli impediva di abbandonarsi agli arditi voli della fantasia ed alle vistose allegorie dello storicismo neo-hegeliano ed idealista; come faceva il suo conterraneo e contemporaneo Alfredo Oriani.

    In questi due nomi si vedono personificati i capi-scuola delle due correnti culturali neo-classica e romantica di cui abbiamo fatto cenno nell'articoletto che avremmo voluto sviscerare di più ed approfondire, Alfredo Oriani e Faenza.





    Comunque, resti ben fermo che il seminario di Faenza è stato fin dal suo sorgere il vivaio delle forze della cultura neo-Guelfa in Romagna; e che soltanto molto tardi, e cioè dopo la Rivoluzione Francese, trovarono una concorrente ed un'avversaria nella cultura e nell'animo giacobino e romantico della classe borghese cittadina.

    Nei diversi stati d'animo da cui le sopra dette concezioni movevano, sta poi il fatto non solo delle diverse conseguenze a cui sono giunte, ma principalmente del diverso angolo visuale e metodo con cui la realtà e la storia sono considerate. La speciale categoria di studiosi che anche il Papini una volta ebbe ad osservare: quella degli eruditi: espressione della cultura ecclesiastica basata sulla scolastica e rivolta precipuamente alla riforma del costume, agli accertamenti analitici (oggettivi), ed al raffinamento del gusto estetico mediante l'arte e l'artificio; che altro è se non la matrice statica del riformismo socialista e popolare (che il Missiroli chiama fondatamente monarchica al modo stesso che potrebbe chiamarsi papale); mentre il giacobinismo romantico che altro è se non rivoluzionarismo, esaltazione dell'io soggettivo di fronte alla realtà definita, idealismo infine e scetticismo e relativismo ed anarchismo?

    (Qui si vorrebbe dire che le scuole nelle quali abbiamo diviso i letterati romagnoli potrebbero ricevere da ciò un'ulteriore giustificazione; sol che si avesse la bontà di collocare i pascoliani fra i romantici, ed i carducciani fra i neo-classici. Questo infine potrebbe ancora una volta suffragare quanto da noi è stato detto sui repubblicani, al modo stesso che potrebbe chiarire l'esigenza eruditista di molti carducciani romagnoli e del Carducci stesso).

    Ma lasciamo gli argomenti a questo punto per ritornare a mons. Lanzoni ed al suo critico, contenti che anche qui lo sfondo ci aiuti a meglio chiarire l'importanza dello studioso faentino. Abbiamo visto come il Donati rilevi la "stanchezza e l'avvilimento" dello storico Faentino senz'arrivare a capire il perchè di tale stanchezza e di tale avvilimento.





    Si pensa alla chiusura del periodo donatiano "indifferenza pigra di disingannato". Di che e di chi?

    Attorno al primo lustro del presente secolo come già altri di parte cattolica prima di lui (Duchesne, Loisy, Newman, Minocchi, Fracassini), anche mons. Lanzoni si era messo a studiare la Bibbia con intenti storico-positivisti, per portare in essa, mediante l'analisi, quel contributo di luce che sì buona prova aveva già dato nei brevi magistrali saggi d'agiografia e di storia ecclesiastica e civile locale: "gli sminuzzamenti" rimproveratigli dal Donati.

    Crediamo di sapere che il lavoro del Lanzoni fosse già molto avanti allorché la politica antidemocratica di Pio X, colpì in pieno il giovanile movimento di riforma, con un oculato scandaglio nei seminari che furono messi a soqquadro e terrorizzati dai Revisori Ecclesiastici, e col violento allontanamento dal seno della Chiesa dei fedeli che sì in alto che in basso fossero stati propensi all'accoglimento delle teorie ereticali.

    Sono, come ognuno sa, di quell'epoca, le svestizioni del Minocchi e del Murri e le scomuniche degli esponenti del giovane ma diffuso movimento ereticale.

    In tale frangente Mons. Lanzoni, addolorato, sfiduciato ed anche preoccupato, non tanto per sé quanto per i suoi scolari, abbandona l'accarezzato progetto per dedicarsi alla lenta e pesante preparazione dello studio su Le origini delle antiche diocesi Italiane.

    Per dire la verità nessuno meno di Mons. Lanzoni avrebbe dovuto preoccuparsi, in quanto se v'è un uomo alieno per natura dai gesti inconsiderati e dalle facili astrazioni, questi è proprio lui.





    Ma forse non di questo si preoccupava l'illustre storico faentino, quanto dell'altrui intolleranza, cecità e spirito di vendetta, e del tenace livore con cui i bigotti solevan (e sogliono) combattere gli studiosi che col freddo alito della logica e della ragione, fan evaporare nel nulla le variopinte bolle dei miti e delle leggende.

    Il Lanzoni conosceva per manifesti segni il livore di questa gente, sin da quando i suoi primi studi d'agiografia videro la luce. Aveva ora ragione di temerlo, dappoiché s'era unito allo zelo di sacerdoti spietati e intolleranti. Si spiegano quindi la "stanchezza e l'avvilimento" lamentati dal Donati, non quale una "precoce senilità" ed un infiacchimento delle capacità intellettuali, sibbene quali l'espressione di un dolente stato d'animo, non durato d'altronde eccessivamente, se nel 1923 gli è stato possibile pubblicare il poderoso volume delle Origini e se un altro studio non meno poderoso sta ultimando sulle Leggende.

    Ci si voglia perdonare se ci siamo forse un pò troppo soffermati sulla preparazione ambientale faentina; ma si creda che ciò era necessario per un ulteriore chiarimento e delle singole individualità di Donati e di Mons. Lanzoni, quanto della mentalità neo-guelfa e riformista romagnola.

    Riprendendo l'interrotto ragionamento, dobbiamo onestamente riconoscere che, se ciò che voleva fare vent'anni fa Mons. Lanzoni, e cioè la edizione critica della Bibbia, è stato possibile farlo in questi ultimi anni ai RR. PP. Gesuiti; e se lo studio sulle Origini delle diocesi è stato possibile inserirlo nelle edizioni della Casa editrice pontificia posta sotto il diretto patrocinio di Sua Santità; bisogna, dicevamo, riconoscere, che lo spirito della Chiesa si è anch'esso modificato, col cogliere il meglio e l'attuabile dell'esigenza storica modernista.





    Che la Chiesa non avesse nessuna ragione di temere riguardo alla perfetta ortodossia del sacerdote faentino, è oggi più che mai chiaro, non solo dal fatto sopraricordato, quanto dal fatto che in esso libro Mons. Lanzoni, adempiendo ad un suo dovere di studioso e di fedele, compone la più bella apologia della Chiesa collo storicamente dimostrarne la sua apostolicità e romanità.

    Ma non solo per questo il libro delle Origini è pieno d'interesse; sibbene anche pel fatto che con esso viene ancora una volta ad essere dimostrato che i fatti e le idee hanno una loro storica continuità, nonostante ma anzi traverso i violenti trapassi, che non sono mai altrimenti rivoluzionari se non nel senso che hanno lo scopo di adeguare negli istituti politici ciò che già vive nell'ombra discreta dei fatti sociali; che solo valgano, e che solo hanno la capacità di far tabula rasa delle superstrutture che li impacciano.

    Che Donati nel 1909 non fosse in grado di capire ciò è una cosa che non può meravigliare se si pensa alla sua allora giovane età, e se si riflette che appena reduce dal seminario faentino, aveva illico et immediate, abbracciato con fede di neofita la filosofia idealistica quale si diffondeva nel cenacolo vociano fiorentino; e se a tutto ciò s'aggiunge, che, come il figlio nei riguardi del padre, primo impulso del giovane che sa di dover dire qualche cosa, è quello di rinnegare e combattere il proprio maestro.

    Ma al modo stesso non deve meravigliare il fatto che, anziano di anni e di esperienza (tutta la guerra in mezzo!), il Donati sia con rinnovata fede ritornato al suo vecchio maestro e al giovanile insegnamento: all'efficace riformismo Lanzoniano, per ritrovare in esso la riconferma dello storicismo imparato dal Salvemini, e per distruggere con esso il suo ideologismo idealista; per consolidare infine e concretare la sua giovanile concezione della democrazia.

    Crediamo di aver anche dato con ciò ragione della storica necessità della democrazia cristiana, quanto alla sua identità col riformismo; e non vogliamo altro aggiungere, certi che in quanto abbiamo detto, non solo la figura di Mons. Lanzoni risulterà più scultorea e chiara, ma benanche quella di Donati, ed, in grande parte, quella del Partito Popolare a cui appartiene oggi, e della democrazia cristiana alla quale ha appartenuto ieri.

ARMANDO CAVALLI