Bibliografia

La coda di Minosse

    Denandri sig. Daniele: il tenente della 12ª: la 12ª di ferro. Un bell'ufficiale. In linea dal '15. Plava, Oslavia, Zagòra, Pecinka, Passo Zagradan: tanta mai trincea ha mangiato che la metà sarebbe bastata. Ferito, decorato. Scampato per miracolo all'azione sul Pecinka, adesso, siam sul finire del '16, è andato a sbattere con la brigata fino in faccia a Tolmino. Ed ecco che, un bel giorno, a ricompensa del valore mostrato in quell'offensiva, gli arriva lassù nientemeno... nientemeno che un mandato di cattura. Che roba è questa? Abuso d'autorità. Ah ecco: or gli sovviene. Alla vigilia dell'avanzata sul Pecinka, in co' del ponte di Sdraussina, quella sera aveva "messo a posto" un imboscatello di soldato del genio sorpreso a dormire sul lavoro e risentitosi arrogante ai richiami dell'ufficiale e trasceso fino a stringere i pugni sul viso del superiore. Roba da sparargli; e lui s'era accontentato d'un cazzotto e d'un rapporto. E adesso da Gradisca arrivava lassù il mandato, a tirar via il tenente Donandri dalla sua trincea di fronte al casermone biancastro di Tolmino, dalle due gobbe del passo di Zagradan, per Val Camenca, Drenchia giù sino a Gradisca, al Tribunale di Guerra del Corpo d'Armata, al Carcere militare là dirimpetto.

    Quella veramente era troppo grossa. "Partito sereno, cosciente di ciò che andava a compiere in guerra, decorato, ferito in combattimento, assai deperito in salute per i quindici mesi di guerraccia vera, ed ora forse condannato!". Questa veramente passava la misura. Tante illusioni aveva perduto Denandri in quei quindici mesi. La guerra, vista davvicino, gli era parsa un'altra cosa da quella che s'era immaginata. Non mica per l'affare del patire e del morire: a quello ci si abituava e questo, se ha da venire, viene una volta per tutte: ma per tante altre cose: troppa miseria morale negli uomini, troppa ignoranza, troppa viltà, e, sopratutto, troppa ingiustizia. Ne avea viste d'ogni colore oggi giorno: adesso anche questa gli toccava di vedere: andar sotto processo per aver fatto il proprio dovere. Enorme era, ma intanto doveva striderci.





    Come luride e lercie e maleolenti le cucine della Giustizia, di quella Giustizia! Per esservi calato dentro così d'improvviso il candido Daniele Denandri ne ha tutta l'anima rivoltata. Miserando in quel carcere lo spettacolo dell'ignominia di quei cento disgraziati, ammucchiati là dentro ad aspettarvi la morte o l'ergastolo, scorie dell'esercito, detriti di umanità; esasperante la scoperta che, in mezzo a quei codardi e a quei ribaldi autentici, tanti buoni soldati son tenuti a guastarsi e ad inasprirsi; ma più dolorosa, più desolante, più preoccupante la rivelazione dell'indifferenza, del mussulmanesimo, dell'amoralità di tanti tra coloro che sono stabilmente preposti all'amministrazione di quella che si chiama Giustizia di Guerra.

    "Il maggiore, l'avvocato militare, il Minosse che spicca i mandati di cattura o proscioglie a seconda dei casi, dirige gli uffici del Tribunale e comanda il Carcere del Corpo d'Armata" è un "neghittoso ruminante". E il segretario è un tenente ben pettinato, elegante, partenopeo, l'"indispensabile e insostituibile" di là dentro, che fa tutto lui e l'altro firma, ed è un pokerista feroce, e quando perde diventa bestiale, ed ha un anno di galera per capello. E ufficiali ci sono, addetti al tribunale, incaricati d'una difesa, che pochi minuti prima del dibattimento "chiedono affannosamente, con molte carte fra le mani, al collega segretario di che cosa in breve si tratti", che non han potuto studiare il processo, e non sapevan che fosse quel giorno, e "smoccolano seccati", e finiscono con compicciare certe difese, che per i disgraziati affidati a quel patrocinio, sono addirittura il colpo di grazia; tutta gente che sta lì a far passare il tempo, giocando a chi lavora di meno, in quella torpida oasi d'inerzia, posta all'ingresso dell'infernale deserto carsico passeggiato dalla morte.





    Ma cosa più terribile di tutte e più penosa per Daniele Denandri lo scoprire che, se a tanta miseria ed inerzia qualche personale volontà dall'alto presiede, questa non è la volontà di chi è direttamente preposto a quegli Istituti di Giustizia e di Pena, ma è il sovrano arbitrio delle superiori autorità militari, onnipotenti nella zona. Il Minosse che dirige il tribunale e comanda il carcere "ha una paura ridicola del Capo di Stato Maggiore del Corpo d'Armata, e non alzerebbe un dito senza ottenerne il consenso". A sua volta il "feroce Capo di Stato Maggiore", terrore del luogo, è tutt'uno, si capisce, con l'Eccellenza del Comandante del Corpo d'Armata, maestosa nullità che "posa a tormentato genio di guerra". Ed è di lì che partono gli ordini per le sinistramente teatrali fucilazioni, che tanto giovano a "tener sù il morale" ai combattenti; di l6iacute; dipende che tanti innocenti sian stritolati fra il formidabile ingranaggio di quella Giustizia. Ed è di lí - ora lo viene a sapere il tenente Denandri - ch'era stata discretamente insinuata a chi di dovere l'idea luminosa di spiccare il mandato di cattura contro l'impaziente combattente del Pecinka, colpevole d'aver dato un cazzotto a quel tal soldatino ribelle ma "aggregato allo Stato Maggiore del Corpo d'Armata, il primo farabutto del Quartier Generale, che figura come attendente del Capo di Stato Maggiore, ma c'è chi dice che sia suo nipote". Adesso capisce tante cose il tenente Denandri: e uno scoramento profondo lo invade, altre bende gli cadon dagli occhi, e freme e trepida per sè, per i suoi, per l'Esercito, per la Patria. Ma il Tenente della 12ª nella disgrazia, è ancora dei fortunati; nove giorni di passione nella "buiosa" poi il dibattimento, la breve ironica autodifesa, l'assoluzione, la dimissione dar carcere, la restituzione" alla sua fida trincea solitaria, candidamente bella e rassegnata sotto la neve".

    Nella disgrazia era stato fortunato, ma, insomma, la era stata troppo grossa; e dalla triste avventura un grande amaro gli era rimasto nell'animo, e ne recava un più chiaro più insistente presentimento che così non si andava bene, che a proseguire così si andava verso il disastro, ma che pure si sarebbe continuato così, perché era fatale, perché era ineluttabile che tutto continua ad andare alla deriva così.





    Ho esposto il contenuto d'un interessante racconto di Arturo Marpicati, intitolato La coda di Minosse (Fiume, Edizioni Detta, 1925): l'autore chiama il suo libro "romanzo" ma avverte che "quanto vi è narrato risponde a mera verità"; difatto chi sia stato in quel tempo da quelle parti può facilmente sotto quei ritratti scrivere i rispondenti nomi e cognomi; chi vi sia capitato nel'17 vi ritrovò le cose niente affatto mutate se non in peggio; chi allora, o poco prima o poco dopo, abbia bazzicato per altri punti della fronte può far testimonianza che tutto il mondo purtroppo era paese.

    Il libro ha evidente carattere autobiografico: dice il Marpicati che gli appunti... son del '16, la stesura del '19": non lo pubblicò allora "per non servire alla più brutta politica dei nemici"; non si dissimula un vago timore che anche ora il suo atto possa da qualcuno venir preso in mala parte. Io credo che libri come questi sarebbero stati buoni e lodevoli nel '19, come buoni e lodevoli sono certamente oggi. E' bene ora ed era bene anche prima che gente di non sospetta fede patriottica (il Marpiccati in politica, ha da esser perlomeno nazionalista) scriva i proprii commentari di guerra non solo con l'intento di far dell'arte, ma anche e più col proposito di recare il proprio contributo a quella storia di "tutta la guerra", a quella storia della guerra "vista con gli occhi del fante" un po' diversa, se si vuole, dalla storia retorica e dalla storia diplomatica, ma utile, anch'essa in quanto dovrebbe servire a tener avvinti alla tradizione delle gesta anche gli umili e gli incolti, i quali nella guerra, purtroppo, han visto ben altro di quanto vi abbian visto letterati e archivisti, ma che d'aver fatta la guerra, ora che è passata, serban pure e tramandano ai figli una certa loro ingenua fierezza; storia della "guerraccia", in cui studiosi e politici trovino anche le cause vere di tanti dolorosi eventi di guerra e di dopo guerra. Il libro del Marpicati concorre benissimo a questo scopo, e tanto meglio vi concorre in quanto in esso l'autore pone coraggiosamente il dito sopra una delle più dolorose piaghe di quel tempo.





    Chi ci fu sa bene che il soldato italiano in guerra di nulla tanto pativa quanta della mancanza di giustizia; in linea, più del disagio più del pericolo, quel che offendeva la sua rassegnata coscienza era la presunzione, non sempre ingiustificata, che pericoli e disagi non fossero equamente distribuiti, e più ne toccasse agli umili, ai generosi, ai f..., e meno o punti agli accorti, agli ignavi, ai fissi; a riposo quel che più esasperava il soldato, non era tanto il mancar lui di troppa roba, quanto il fatto che accanto alla disperata indigenza del "fante" sfolgorasse l'insolente beatitudine di tanta bella gioventù che la trincea non aveva mai vista. E l'offesa delle offese, la cosa più intollerabile e meno intelligibile per il fante con o senza galloni, era che l'Istituto il quale rappresentava a' suoi occhi ingenui la quintessenza dei sommi poteri, cioè la Giustizia di guerra, fosse, come dice e dimostra il Marpicati, troppe volte "un ridicolo rodomontismo", o "ferocemente sbrigativa o sommaria, o burocraticamente rilassata e pigra", ma sempre, o quasi sempre, "uffiziata senza sacerdotale calore e tremore". Andavano a cercarli in Italia i focolai di disfattismo, ma eran lí dintorno ai Comandi Supremi, e nessuno in alto mostrava di accorgersene; finché accadde quel che accadde. Subito dopo la coda di Mimosse nel volumetto del Marpicati viene Il commentario della ritirata di Caporetto: non casuale riavvicinamento: dopo le premesse le logiche illazioni.





     - Ma perché rivangare con certe storie? E' venuta la vittoria, ha dato l'amnistia a tutti, in alto e in basso. Adesso basta, parliamo d'altro. Adagio con codeste amniste: certi processi rimangon sempre aperti, e se il farli non serve né al passato né ai morti, e neanche al presente ed ai vivi, certo servirà all'avvenire ed ai nascituri". Se esaltiamo la vittoria non ci bendiamo però di fronte ai nostri fatti, che nessuna ragione di superiore interesse oramai ci esorta a nascondere. I problemi degli errori della guerre possono e devono oggi trovarci più che attenti, poiché, a distanza, e non angosciandoci essi di più, siamo nelle migliori condizioni per valutarli serenamente, e per trarre da quelle grandi esperienze tutto il succo; sempre salutare anche se sia in parte amaro". Sono parole che il Marpicati scrive nella prefazione del suo libro e che ci trovano pienamente consenzienti. Non polemiche, non requisitorie, sia pure; ma che la lezione, per Dio, non vada perduta. La guerra è finita, ma non è soltanto in tempo di guerra che il fante - il popolo - sente bisogno d'un po' di giustizia; come non è soltanto in tempo di guerra che l'insensibilità dei capi a tanta ansia di giustizia può portare il paese sull'orlo dell'abisso. Quanta parte della storia d'Italia, è in questo insoddisfatto desiderio di giustizia che tiene un intiero popolo da secoli? Accanto al problema della libertà si pone per l'Italia il problema della giustizia, di tutte le giustizie, la politica, la morale, la sociale, l'economica, la giuridica. Può darsi che il popolo non chiegga a' suoi principi la libertà: certo chiede loro, a gran voce, la giustizia. Diamo giustizia a questo popolo, a queste "masse", ed esse si queteranno; largiamo loro elemosine d'ogni fatta continueranno però ad offrir tanti spettacoli di parzialità e di ingiustizia, le troveremo sempre insoddisfatte, inquiete, sordamente minacciose; chiunque, ufficiale, maestro, datore di lavoro, organizzatore, vive fra le moltitudini, può far testimonianza di questa verità.

    L'esercito italiano - un popolo in arme - malato d'ingiustizia, stramazzò a Caporetto; si rilevò anche per la promessa di maggior giustizia per l'avvenire. Il popolo italiano - un esercito inerme - attende ancora che la promessa sia mantenuta. La lezione della guerra non deve esser vana. Solo così la serie delle Caporetto potrà esser chiusa per sempre.

AUGUSTO MONTI