DATI STORICI

    Il massimalismo socialista fu un tentativo immaturo e sfortunato di permeare l'azione dello Stato da parte di grandi masse, ancora rozze ed inesperte dei pubblici affari, e perciò abbacinate da un mito straniero astratto e irrealizzabile.

    Queste masse intuivano vagamente l'angustia della dittatura giolittiana e perciò postulavano la creazione di uno Stato in cui avessero potuto giuocare con il loro peso, allora del tutto indifferenziato. Pertanto la crisi del partito socialista sorse proprio dal conflitto tra queste masse e le oligarchie già pervenute a funzione di élite.

    Infatti mentre queste ultime lentamente avevano assunto una funzione piccolo-borghese appunto in conseguenza dell'azione del giolittismo, le masse, specialmente agrarie, restavano al di fuori di questi legami con la dittatura giolittiana, e perciò erano tentate di distruggerne il dominio per un'affermazione più ampia di libertà politica ed economica.

    Risultante di questo urto interno fu che il partito non potette riaderire al giolittismo, né provocarne esso stesso la disfatta. In tale condizione di cose sorgeva naturale la tendenza a stabilizzare la crisi in una formula media che, distruggendo il giolittismo come concezione di regime paterno, non ne distruggesse contemporaneamente la funzione economica.

    Questa linea di sviluppo, in verità, rispondeva ad una necessità costituzionale del socialismo italiano, che le grandi masse avrebbero dovuto forse un giorno combattere, ma che durante il suo inizio agevolavano con il loro stesso peso: la necessità di assicurare alle formazioni piccolo-borghesi affiorate dal movimento operaio per lo meno una parte di potere politico, sia per garantirle dai ritorni reazionari del regime, che per evitare gli ulteriori sviluppi rivoluzionari della crisi.





    In altri termini si verificava anche per il proletariato operaio del Nord ciò che era avvenuto per la borghesia meridionale durante il regime borbonico, la necessità di assicurarsi il potere politico, dopo di aver acquistato. il potere economico.

    Tale necessità era ancora più urgente in quelle zone della valle padana ove il socialismo agrario era fiorito in margine ai grandi lavori di bonifica perché l'intervento dello Stato come distributore di lavori era più che mai indispensabile dopo la guerra e fatalmente i rivoluzionarii di quelle regioni erano portati a proclamare la necessità d'impadronirsi dello Stato per sottrarre all'odiata borghesia questa importante funzione di distribuzione di ricchezze. Eguale tendenza manifestarono gli operai delle industrie protette contro il rivoluzionarismo di taluni gruppi teorizzanti la lotta di classe integrale.

    L'unica formazione quindi che avrebbe potuto garantire tale necessità era la creazione di uno Stato social-democratico attraverso gli accordi con la democrazia radicale e col partito popolare: formazione social-democratica verso cui ancor oggi tende ad orientarsi la crisi italiana. Ciò spiega il perché dei reiterati tentativi socialisti di limitazione costituzionale della Corona per la formazione dello Stato parlamentare.

    Il massimalismo, perciò, rappresentò lo sforzo di una élite di nuova formazione per perfezionare il suo dominio economico mercè il potere politico, e le reazioni in varii sensi di sterminate masse di manovra escluse dai benefici di tale politica e tuttavia desiderose di non limitare la loro funzione a quella di peso morto nello sviluppo del piano.

    Di fronte a questo sviluppo il giolittismo, che stava per essere superato in una fase più moderna di interessenza economica e di mediazione politica, reagì, e, svelando tutto il suo spirito reazionario, si volse verso le formazioni di destra, maturate in quella piccola borghesia umanistica, che aveva visto con terrore l'affermarsi della borghesia socialista.





    Il giolittismo vedeva mal volentieri la fine del suo prepotere e non voleva assolutamente rinunziare alla funzione di mediazione politica ed economica assunta dal 1900 in poi. Si diceva lieto di continuare la politica di benevolenza verso le masse, a parole s'inghirlandava di tutte le gemme del liberalismo politico, ma, nella realtà, pretendeva ancora di farla da padrone, adottando le soluzioni che gli venivano prospettate dai partiti di masse non come risultanti del giuoco delle forze in lotta, ma come concessioni della borghesia illuminata e progressista.

    Entro i limiti di questa peculiare concezione politica il giolittismo in un primo tempo assecondò tutti i movimenti diretti a realizzare il così detto ministero di sinistra, non comprendendo che su questo terreno era già stato preceduto dal nittismo, che si sforzava di armonizzare gli interessi dei partiti di masse con quelli della borghesia radicaleggiante, senza pretendere contemporaneamente di farli passare attraverso la pressione del regime paterno. Quando in un secondo tempo questa realtà divenne chiara all'occhio dello statista di Dronero egli brandi la frusta fascista. Ma, ancora una volta, la vipera morse il ciarlatano.

    In verità il fascismo, nel suo primo sorgere, aveva tentato di assumere una funzione libertaria contro il predominio piccolo-borghese del socialismo di stato e del giolittismo, e si era colorito vagamente di rivoluzionarismo operaio e di autonomismo politico. Ma, sorto territorialmente in una zona industriale e demograficamente tra le schiere della piccola borghesia umanistica, ormai politicamente battuta, non era in condizione di afferrare la realtà italiana per farsi interprete di quelle necessità rivoluzionarie che le grandi masse non riuscivano ancora ad esprimere. Ciò spiega perché una parte del giolittismo potette sperare di operare la sua conservazione attraverso lo spauracchio fascista, e dall'altra il sig. Mussolini non sentì fin da allora i pericoli della manovra cui aderiva.





    Ed infatti la prima adesione giolittiana al fascismo cominciò a determinare lo spostamento delle masse rurali protette dal movimento operaia a quello fascista, ed a chi ben consideri il fondamento delle cose non potrà non apparire che la crociata contro il socialismo, colorita di accenni libertari, corrisponde soltanto a questa necessità del regime di sottrarre al movimento operaio queste forze intimamente connesse all'azione statale.

    Così il giolittismo tentò agire dall'esterno sulla crisi interna del socialismo italiano, agevolando il tentativo di consolidamento della destra riformista.

    Dopo - esso pensava - sarebbe stato possibile operare la sintesi obbligando i partiti di massa a prestarsi alla dittatura giolittiana.

    Così il fascismo cominciò a potenziarsi specialmente in quella bassa pianura padana ove l'azione economica dello Stato sulle masse era ed è sensibilissima e questa sua origine e le necessità che doveva assolvere, lo portarono ad accettare quella dottrina nazionalista della collaborazione di classe, attraverso le corporazioni sindacali, che costituisce il più audace tentativo di impadronirsi della funzione economica del socialismo di Stato.

    Ma questa sviluppo determinò che il paternalismo giolittiano, avulso dal suo sistema originario, elaborato sotto veste di dottrina sindacale, reso autonomo, passò nelle mani della borghesia antigiolittiana, che pose per conto suo la successione al vecchio di Dronero.

    Ciò spiega perché il fascismo pur transigendo nel momento stesso del suo sviluppo col regime, si pose subito come avversario del giolittismo di cui negò in teoria i dati storici, mentre in pratica in buona parte li riprodusse.

    In seguito poi la lotta con il socialismo operaio e la possibilità della riscossa social-democratica giolittiana, spinsero il fascismo sempre più nella fase reattiva che il regime, superando le previsioni del vecchio di Dronero, scelse per la sua salvezza.





    Naturalmente questa corsa fascista alla reazione coincise sempre più col doppio processo di elaborazione, che il socialismo subì come risultante delle forze in movimento.

    Infatti da una parte il movimento operaio rimasto fedele alle sue origini riscattò la sua funzione liberale e dall'altra la forze operaie con funzione conservatrice, si staccarono da quelle rivoluzionarie.

    Ma mentre nel movimento operaio avveniva questa grande semplificazione di forze e di obbiettivi, il fascismo caricando nel suo seno tutti i termini della vita pubblica italiana, appropriandosi il compito storico del socialismo di Stato, lasciandosi permeare dalle necessità dell'industrialismo protetto e del regime, in una frenesia panica di dominio si scordò di essere né più né meno che la lotta di classe del giolittismo e in un delirio di superbia si proclamò avversario e liquidatore testamentario del liberalismo europeo.

    Per un certo periodo la prosa tronfia del nuovo profeta sognò antitesi mondiali inesistenti e quindi sentimmo delirare di còmpito antidemocratico, antiliberale, antisocialista, assegnato dalla storia al fascismo, quasi che non si trattasse delle convulsioni di un regime duro a morire, ma dell'esplosione della genialità di un popolo intero.

    La verità, invece, è più modesta perché se si vuol parlare di un'antitesi col liberalismo filosofico questa è connaturale non al fascismo ma addirittura al regime, e se si vuole, invece, parlare di un'antitesi al preteso liberalismo dello Stato italiano niente di meno esistente e di meno vero.





    Malgrado tutto ciò, però, il fascismo alla base fu un movimento liberale. Spinto ad effettuare la reazione attraverso le folle e non soltanto attraverso le forze di polizia, il regime fu costretto a riconoscere talune necessità elementari delle masse rurali, di cui dovette servirsi ed il rassismo bene spesso corrispose ad un bisogno di reazione al centralismo romano.

    Anche se l'élite dirigente si pose rapidamente al servizio degli industriali e non ebbe timore di svolgere una politica stupidamente padronale, essa dovette concedere non poco al peso delle masse e contribuì alla loro educazione politica, avvicinandole sempre più ai concetti di autonomia ove debbono fatalmente sboccare.

    Nessun uomo, forse, pur avendo avuto così largo potere, si è lasciato così vincere più che dagli avvenimenti dai piccoli uomini che lo circondavano.

    Salito al potere in un momento di smarrimento generale e quando gli uomini decisi a non abdicare la loro personalità erano pochissimi, egli aveva aperte dinanzi a sé tutte le vie, da quella massima di fare la rivoluzione delle forze rurali a quella minima di sostituire Giolitti nel giuoco trasformistico. Unica via preclusa quella della violenza per la violenza, del feudalismo squadristico! Ed egli, invece, quella scelse.

    Dopo aver strappato un mandato di fiducia a tutti i ceti prima e dopo la marcia su Roma, godeva così largamente il favore del ceto dominante da poterlo anche tradire. Invece preferì ondeggiare in un trasformismo inconcludente che valse soltanto a nascondere per un certo tempo il reale dominio anarchico del Direttorio. In verità egli ebbe così scarsa fede nei suoi propositi rivoluzionarti che ebbe paura di iniziarne l'attuazione, oppure conosceva così poco il meccanismo dello Stato che non seppe da qual punto cominciare le promesse riforme. E così la sua azione sembra sovversiva là dove era trasformista, e viceversa.

    Queste deficienze personali ed il logorio terribile che in conseguenza il regime ha subito, non potevano non produrre ripercussioni nello stesso campo fascista. Ed, infatti, ad esse si deve il nascere del revisionismo che, si noti bene, si divide in due ali perfettamente antitetiche: revisionismo trasformista e revisionismo rivoluzionario.





    Il primo ritiene che il compito del fascismo era quello di schiacciare il bolscevismo, impadronirsi dello Stato storico e provvedere alla formazione di un governo forte capace di ristabilire il dominio della legge. In altri termini sfronda tutte le pretese rivoluzionarie del movimento e combatte il governo perché invece di tentare l'assorbimento delle forze sane del paese si trastulla in propositi rivoluzionari che non possono non contrastare la effettiva prassi trasformistica. È insomma un revisionismo che, abbandonando il doppio giuoco mussoliniano, abbraccia consciamente il trasformismo e mira a trarne tutte le conseguente utili al proprio dominio.

    Il secondo, invece, vuol tener fede al conclamato contenuto rivoluzionario e, perciò, reagisce alla politica trasformistica. Esso ritiene che il liberalismo sia completamente superato e rimasticando alcune formulette dell'attualismo gentiliano pretende che il sig. Mussolini riformi tutta l'impalcatura dello Staio allo scopo di tradurre nella realtà le idee della nuova dottrina filosofica.

    Entrambe queste correnti repugnano per opposte ragioni dalla prassi del sig. Mussolini, dichiarando di avere scarsa fiducia nella politica della violenza rassista e degli accorgimenti governativi, ma entrambe ignorano il problema italiano nella sua precisa consistenza e perciò sono costrette o a ripiegare nel neo-giolittismo o a riprodurre l'astrattismo rivoluzionario del bolscevismo.





    Queste considerazioni spiegano brevemente entro quali linee sia svolgerà non soltanto il governo mussoliniano, ma il movimento fascista stesso in tutte le sue tendenze e sfumature.

    Intanto è assolutamente degno di nota che non soltanto il governo mussoliniano ma le stesse correnti critiche del fascismo siano cosí distanti dalla questione italiana che sembrano addirittura astratte. Essi ignorano l'Italia agricola ed i suoi bisogni e perciò si arroccano sempre più intorno al protezionismo industriale ed al corporativismo di Stato, ignorano l'Italia meridionale e perciò insistono nella violenza tributaria e politica, ignorano l'anelito di libertà del popolo italiano e perciò sognano di togliergli perfino le astrazioni istituzionali della carta albertina.

    La questione italiana è tutta contro di loro e le revisioni non ne affrettano o ne integrano nessun lato.

    Forse Mussolini ebbe qualche barlume di veggenza quando proclamò di voler poggiarsi sull'Italia rurale ma a parte che questa affermazione è contraddetta da tutta la sua politica e con le frasi non si governa, egli era tratto anche questa volta in inganno dalla lotta padana, che non solo non é la questione italiana, ma ne è la negazione.

    Se Mussolini sogna nel suo aperto tentativo di resistenza al regime di farsi capo di un fascismo rurale che possa costituire il primo nocciolo di arroccamento della futura rivoluzione italiana si disinganni: anzitutto, perché il movimento rurale non potrà non essere contro i dati storici del padanesimo.

    Rimangono sí ancora le forze sanamente rivoluzionarie, quelle che sia pure inconsciamente hanno sognato di fare il loro ingresso nella storia a mezzo del fascismo, ma queste non potranno tardare a convincersi del compromesso di cui sono stato oggetto e perciò dovranno fatalmente gravitare verso altri partiti.





    Gli errori antitrasformistici di Mussolini non potranno più salvarlo e perciò egli dovrà sempre più esaurirsi nei ritorni trasformistici, finché non lo raggiungerà la manovra fiancheggiatrice.

    In effetto la manovra fiancheggiatrice costituisce oggi la spina dorsale della politica italiana, ed in ciò sta la colpa del fascismo e delle opposizioni, l'uno venuto al punto di permettere ai battuti della vigilia di tentare la riscossa, le altre così deboli e perplesse da temere addirittura la successione.

    In queste brevi considerazioni si congloba dunque tutta la dolorosa realtà italiana, lotta di impotenza e di transazioni, dominio di ristretti circoli di politicanti atteggiantisi ad eterni salvatori della patria.

    Così mentre lo sfondo della psiche collettiva non riesce a superare l'angusto e vuoto quadro del combattentismo, il giolittismo si ripresenta, come nel 1920, arbitro e liquidatore di una situazione. I reduci, quelli che, assumendo di aver finalmente fatta l'Italia sui campi di battaglia, pretendevano di fare gli italiani patrioti e cittadini, liberi nello Stato nazionale e padroni del loro destino, dopo aver costituito la base politica dittatoriale di una fazione, che, solo a chiacchiere, diceva di voler rappresentare l'Italia del lavoro e della produzione, la grande Italia del sacrificio silenzioso e degli oscuri eroismi, passano a far sgabello a quell'uomo ed a quel sistema che ieri, nell'esaltazione della rissa, fu definito nemico del paese. Ed intorno a questo programma si mobilitano le forze più eterogenee e meno politiche, pur di non affrontare ab imis il problema italiano, anche se l'impostazione di questo problema fatto con cognizione di causa e serietà di propositi debba costare altri dieci anni di fascismo.

GUIDO DORSO