La proporzionale nel mezzogiorno
Quando F. S. Nitti, lasciandosi convincere dalla propaganda socialista e popolare, annunziò di voler presentare un progetto di legge per applicare in Italia il sistema della rappresentanza proporzionale, molti uomini del giolittismo predissero la rovina della nostra Nazione, e molti uomini dell'anti-giolittiamo vaticinarono invece la sua entrata trionfale nel comodo porto della modernità.
Gli uni guardavano soltanto il pericolo, cui andavano incontro le loro fortune personali, gli altri invece, scambiavano le loro aspirazioni di conquista per alta espressione di elevatezza politica; ma, in sostanza, il sistema del trasformismo non era menomamente minacciato dalle reciproche contese, ed aspettava ripetute conferme attraverso i più svariati congegni elettorali.
Chiunque abbia lume di ragione e sappia ricostruire un periodo di vita, per lo meno con la fantasia, può ripensare i ragionamenti di quell'ora sol che inverta gli odierni commenti al ritorno del Collegio uninominale, dalla cui applicazione taluni aspettano conseguenze taumaturgiche, altri conseguenze rivoluzionarie.
Come gli uomini del 1919 dimenticavano la guerra e l'esaltazione bolscevica in atto, il sig. Mussolini dimentica oggi la guerra, il bolscevismo ed il fascismo, credendo di poter spegnere la crisi politica del paese nella maire stagnante et croupissante del Collegio uninominale.
Ed è perciò che mentre altri scrittori difenderanno su questa Rivista la Proporzionale e nella sua opera di giustizia distributiva e nella sua alta funzione di manometro delle correnti politiche nazionali, o crederanno scorgere la sua superiorità nella funzione che le si attribuisce di eccitamento meccanico alla formazione dei grandi partiti, io credo assai più utile rifare a larghi tratti la storia del funzionamento dell'istituto nel Mezzogiorno, perché ne appaiano chiari, e privi di soprastrutture rettoriche, i limiti, oltre i quali si ripresentano immutate ed immutabili le caratteristiche fondamentali della nostra vita politica.
1918:
ELEZIONI A CIRCOSCRIZIONE PROVINCIALE
La legge Nitti, volendo temperare le forti preoccupazioni dei deputati meridionali, timorosi di affrontare battaglie politiche fuori dalla cerchia del collegio infeudato, stabilí che le circoscrizioni non potessero avere meno di dieci deputati, e per il primo esperimento concesse, quasi in conto riparazioni, che le province con almeno cinque deputati potessero essere elevate a dignità di circoscrizione.
Ne derivò che in tutto l'ex Regno delle due Sicilie su 24 province ben 23 usufruirono della benevola disposizione transitoria e divennero capoluogo di circoscrizione. Soltanto le due province di Benevento e Campobasso furono fuse in un solo Collegio.
Il primo esperimento elettorale nel Mezzogiorno fu perciò caratterizzato dal fatto che le circoscrizioni erano tutte a base provinciale. Questa circostanza rappresentò, in mancanza di partiti organizzati e di chiarificate correnti di opinione pubblica, il primo criterio di arroccamento.
In qualche provincia furono i deputati uscenti, che nel timor panico dell'assalto di nuovi concorrenti, pensarono di coalizzarsi in lista unica, munita del tabellionato dell'ufficialità.
Altrove, invece furono i deputati e gli uomini, rivali nei Consigli Provinciali, che pensarono di riprodurre attraverso le elezioni politiche, le caratteristiche contrapposizioni locali.
Un po' dappertutto, poi, uomini nuovi e deputati uscenti, poco sicuri delle loro forze, temendo la compagnia degli assi, giuocarono al quoziente, contornandosi di figure mediocri cui tolsero i voti mandamentali in cambio dell'onore di un posto nella lista.
Infine ovunque scesero in campo i combattenti, o presentando candidati propri, scelti tra i più audaci nel gioco dell'arrembraggio trasformistico, o accodandosi specialmente ai così detti partiti democratici in inconscia funzione di puntellamento dell'ancien règime.
Senza soluzioni di continuità, perciò, la lotta trasformistica mirò a riprodursi entro la mutata forma e gli elettori votarono l'una o l'altra lista sol perché conteneva il nome dell'eletto del loro cuore.
Anzi la disposizione legislativa, in virtù della quale il voto aggiunto ad un candidato di altra lista gli valeva come voto di preferenza, autorizzò i più atroci connubii personalistici, che, risaputi, provocarono le più scandalose meraviglie.
Così queste deviazioni lungi dal provocare un infrenamento, foss'anche meccanico, del personalismo, ne svelarono, attraverso nuovi orizzonti, le profonde radici.
Né un correttivo a tali deviazioni fu portato dall'ingresso nella lotta politica meridionale dei partiti storici, che, pur di arraffare voti, non esitarono ad eleggere le terre del sud come colonie elettorali, valendosi, in buona parte, di uomini, che, non avendo seguito personale, speravano trar partito da quella forza mitica che accompagna gli studiati programmi unitari.
La prima applicazione della proporzionale perciò, riprodusse integralmente tutti i difetti e tutta l'infantilità dell'organizzazione politica meridionale, impostando lo sviluppo elettorale intorno all'asse dalle piccole miserie provinciali.
1921:
ELEZIONI A CIRCOSCRIZIONE REGIONALE
Nel 1921 i fenomeni di adattamento trasformistico al meccanismo elettorale si complicarono, per l'applicazione integrale della circoscrizione ultra-provinciale.
Il primo criterio di reazione alla legge fu di natura campanilistica, la prima preoccupazione degli elettori fu di riassicurare alla propria Provincia il numero di seggi assegnati con il Collegio uninominale. Entro questo schema poi si precisarono le reazioni di carattere circondariale e mandamentale, ed infine quelle più strettamente personali.
I mezzi per garantire il raggiungimento di così caratteristici fini furono differenti secondo le diverse circostanze di tempo e di luogo.
Così qualche provincia, preoccupata, oltre ogni limite di ragione, di evitare la perdita di qualche seggio, non permise ai suoi candidati di entrare nelle combinazioni elettorali di altre province e preferì arroccarsi in una o più liste a carattere strettamente provinciale.
Qualche altra provincia, invece, credette conveniente provocare addirittura un'offensiva facendo entrare i suoi candidati un po' dovunque nelle liste regionali e speculando sulla compattezza dei voti preferenziali da assegnar loro e sulle lotte intestine dei candidati delle altre province.
Viceversa i singoli interessati si fecero sostenitori dell'uno e dell'altro metodo secondo le loro convenienze personali, quando non credettero giovarsi del sistema, già sperimentato nell'elezione precedente, di giuocare al quoziente con la solita listarella, ripiena di ambizioni mandamentali.
In sostanza il giuoco personalistico venne dilatato ancora verso più ampi orizzonti e gli elettori tennero costantemente fisso lo sguardo sul nome del candidato preferito.
Mutatis mutandis il trasformismo si riprodusse.
1924:
ELEZIONI RIVOLUZIONARIE
Questa dilatazione personalistica del trasformismo venne ben presto troncata dall'avvento del fascismo e dalle elezioni sovversive del 1924, di modo che non è storicamente possibile accertare fino a qual punto il trasformismo avrebbe potuto ancora resistere al giuoco proporzionalista. È perciò impossibile rifare tutta la storia dell'azione sovvertitrice del fascismo nel Mezzogiorno e del modo come furono ivi impostate e condotte le elezioni del 6 aprile 1924, trattandosi d'altra parte di avvenimenti assai noti e recenti. Tuttavia non sarà inutile riassumere per sommi capi tale azione elettorale fascista per comprendere gli avvenimenti posteriori.
In verità quando la nuova fiera elettorale fu bandita, molti che si sforzavano di trovare il filo conduttore della politica governativa, credettero che il fascismo volesse definire e fissare le sua posizione nel Sud, tentando di assorbire il maggior numero di forze possibili senza pregiudiziali di provenienza, accentuando così per il Mezzogiorno la politica che nel resto d'Italia svolgeva nei riguardi di tutti i gruppi così detti fiancheggiatori.
Ma questo proposito, che affiorò sempre nella politica elettorale mussoliniana, fu ben presto frustrato dall'incongruenza governativa e dall'azione addirittura anarchica che esercitò nella scelta dei candidati la famosa Pentarchia.
Così, mentre fu sollecitata l'entrata nel listone degli on. Orlando, De Nicola, Fera, Colosimo e De Nava, si pretese isolarli dai loro amici, rompendo nel punto più delicato di sutura il sistema personalistico.
Ciò produsse conseguentemente dissensi fortissimi, che accentuarono le antipatie meridionali per il fascismo e dopo qualche giorno portarono al dissenso più aperto con questi vecchi parlamentari, che o furono costretti a ritirarsi o restarono nel listone come ricordo di un naufragio senza nome.
Fu così che i pentarchi rimasti finalmente liberi potettero contentare le velleità di tutti gli avventurieri che si erano insinuati nel movimento e che, impadronitisi delle segreterie provinciali, da una parte ricattavano le popolazioni con l'aiuto delle autorità locali, e dall'altra ricattavano il Governo facendosi credere spontanea emanazione delle popolazioni.
Così nacquero i listoni meridionali, che non furono né vera emanazione del partito, che da noi esisteva soltanto come aggregato trasformistico intorno al Governo, né espressione della popolazione che vedeva i suoi uomini più amati battuti senza combattere o da giovani politicanti, assolutamente ignoranti dei publici affari, o da vecchie carcasse già sconfitte, sullo stesso campo trasformistico.
In verità il cieco settarismo del partito dominante, e la necessità di svolgimento della sua azione in forma grossolanamente unitaria, gli fece ignorare il grande segreto del giolittismo nelle nostre contrade, riposto nello sforzo di assorbire volta per volta tutti gli uomini politici che, per simpatia delle popolazioni o per valore personale, emergevano. Così Giolitti riusciva a dare l'impressione di non coartare la volontà degli elettori, e tuttavia non aveva difficoltà a formarsi amici fedeli interessati al mantenimento del sistema.
Gli elettori, infatti, salvo casi eccezionali, venivano lasciati liberi di votare a loro talento specialmente quando tutti i candidati in lotta si professavano governativi, e nel deporre la scheda, credevano sempre di compiere un atto di sovranità.
Il Governo, quindi, lungi dall'intervenire con atti diretti a violare il costume regionale, cercava agevolarlo, limitandosi soltanto a combattere i pochi tentativi diretti a superarlo. Così, senza eccessive reazioni, faceva funzionare le forze politiche del paese nel modo più naturale.
Quando, invece, nelle liste del 1924 si videro inclusi una quantità enorme di nomi nuovi, sconosciuti all'universale, privi di simpatia, ignoranti in ogni campo dello scibile e solo audaci nello scimiottare le pose dittatoriali del loro capo, e nel giorno delle elezioni i pochi nuclei di oppositori furono sommersi da turbe di violenti e di irresponsabili sotto lo sguardo indifferente delle così dette autorità, il segreto del trasformismo fu svelato agli occhi di vaste categorie di cittadini e cominciò uno strano processo politico, in virtù del quale nello stesso momento in cui il Governo acquistava un vero esercito di comparse, la maggior parte delle popolazioni meridionali non solo si estraniava dal fascismo ma cominciava a passare alle opposizioni, specialmente amendoliana e socialista unitaria. D'allora questo processo di contrapposizione tra i rappresentanti ed i rappresentati, accentuandosi giorno per giorno, si è avvicinato verso una vera e propria scopertura del regime.
Così anche nel Mezzogiorno, soltanto per virtù di contrasto, il fascismo ha potenziato vere forme rivoluzionarie obbligando più vaste schiere di cittadini a superare le forme di organizzazione personalistiche, per passare a postulare in tutta la sua estensione la vera lotta politica.
COLLEGIO UNINOMINALE TENTATIVO
DI RITORNO TRASFORMISTICO
Questo notevole svolgimento antifascista meridionale, non frenato né dalla visita mussoliniana alla Fiera campionaria, che si ridusse ad una passeggiata solitaria, né dalla promessa dei lavori pubblici (del resto non mantenuta) espediente abusato ormai e divenuto di scarsa efficacia, minaccia di porre in serio pericolo il fascismo, dinanzi al riaffermarsi delle lotta politica nel settentrione d'Italia, perché nessun Governo si è trovato dal 1860 ad oggi a dover fronteggiare l'azione dei partiti storici avendo il Mezzogiorno e le isole in subbuglio.
È naturale, quindi, che Mussolini, avvedendosi oggi per la prima volta dell'errore commesso, (felice errore!), abbia pensato di far macchina indietro per riprendere nelle sue mani il meccanismo infranto del personalismo meridionale, attraverso un'elezione a collegio uninominale, che rappresenti un sistema meno sovversivo, e gli assicuri oltre che i voti dei deputati meridionali anche l'adesione delle popolazioni.
Sotto questo profilo, perciò, il ritorno al Collegio uninominale costituisce un tentativo di reazione contro il sovvertimento prodotto, non dalla proporzionale - già adattata sufficientemente al clima storico-politico del paese - ma dalla applicazione della legge Acerbo.
E tale tentativo meriterebbe di essere combattuto aspramente se i tempi e le circostanze fossero tali da farci prevedere l'applicazione della unica legge per opera di Mussolini e con criteri rigidamente giolittiani.
Ma il temperamento dell'uomo, la composizione del partito, il prepotere del rassismo, e la completa distruzione dell'autorità provinciale, ormai incapace di emanciparsi dai voleri delle fazioni locali, per riacquistare l'antica funzione giolittiana, ci fanno prevedere che la scopertura del regime nel Mezzogiorno non solo non sarà sanata, ma sarà addirittura accentuata.
La riprova di questa intuizione ci è fornita dall'atteggiamento dei fiancheggiatori che non mostrano nessun piacere per il ritorno al Collegio uninominale, ma mirano soltanto ad eliminare le cause di sovvertimento, secondo loro, costituite soltanto dal prolungarsi dell'azione fascista al Governo.
Ed è per questa ragione, che se l'odierna situazione politica dovesse perpetuarsi, di fronte ad un'altra elezione, anche peggiore di quella del 6 aprile 1924, potremmo assistere allo strano spettacolo di un'astensione dalla lotta elettorale a collegio uninominale proprio di quei politici che più vivamente ne hanno invocato il ripristino per ragioni personali.
Ecco, dunque; che la manovra mussoliniana, pur essendo potenzialmente reazionaria, rischia di divenire nuovamente rivoluzionaria per le immancabili interferenze del partito dominante, che non può assolutamente consentire che il Governo riesca a disimpegnarsi dai dati storici del fascismo, per adottare una vera e propria politica di affrancamento.
CONCLUSIONI
Tuttavia, lasciando per il momento sulle ginocchia di Giove gli avvenimenti futuri, non possiamo chiudere queste brevi note senza un saluto cavalleresco alla diffamata proporzionale che, apparsa come una meteora sul nostro cielo politico, è stata ritenuta responsabile di tutti i vizi e di tutte le deficienze italiane.
L'immaturità generale del paese (non soltanto del Mezzogiorno, che si estende per lo meno fino in Brianza) non ha permesso di difendere e conservare tale conquista elettorale, ma i tempi sono così grossi che questa perdita non ci spaventa.
Fino a quando il Mezzogiorno continuerà a rimanere assente dalla lotta politica e sarà impossibile adoperare le sue forze per rompere il complesso giuoco dei partiti storici, tutti i sistemi elettorali saranno buoni a mantenere la dittatura del Nord, ed un'eventuale ritorno della proporzionale non sarà che una nuova irrisione aggiunta alle precedenti.
Il problema fondamentale della vita italiana è ben più profondo e l'ironia della storia si è già servita delle forze più disparate per iniziarne lo svolgimento.
Speriamo che tale svolgimento prosegua ancora a lungo verso le sue ultime conseguenze, potenziando, una per una, tutte le necessità dialettiche dell'unitarismo italiano.
Allora soltanto la proporzionale potrà costituire una conquista intangibile della rivoluzione italiana, giunta a maturazione mercé l'apporto di tutte le forze produttive del paese.
GUIDO DORSO
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