DIFESA MORALELa difesa d'una causa persa è pienamente conforme ai nostri gusti e ai nostri desiderii. Se, anzi, ci fossero molti a pensarla come noi, si dubiterebbe d'aver torto. Ma le compagnie momentanee od occasionali, del resto le più gradite, non c'ingannano. Si pregusta il piacere del distacco e si collaudano meglio, in segreto, i motivi dei proprii convincimenti quando ci si accorge che la via battuta insieme è fortuita. Quanto più breve è il cammino comune, tanto meno ci si è venuti a noia scambievolmente, tanto meglio ci si lascia, senza il rancore d'aver troppo sperato e confidato. La rappresentanza proporzionale, come si sa, la vollero tutti. Un preventivo consenso generale è un po' la sorte di tutte le riforme elettorali, poiché il disagio delle condizioni presenti e la fede che possano mutare alberga in ogni cuore. Non c'è conservatore che non sogni... una migliore ricetta per la conservazione sociale; in un argomento come questo dove c'entrano buste, cabale e quozienti, cerimonie rituali e responsi quasi sacri, ognuno é preso dalla passione del mito, dalla fantastica ansia del prestigiatore che riesce a trasformare la realtà col giuoco de' suoi bussolotti. Il calcolo delle probabilità è il più femminile dei calcoli, come quello che lascia un indefinito margine all'ammaliante ridda delle chimere. Di modo che gli uomini singoli ed i partiti si trovano di fronte ad una riforma elettorale come di fronte a una magica porta che si deve schiudere sull'avvenire. Non si possono rifiutare di tentarla; rinnegherebbero tutte le loro speranze. L'ideologia di cui si armano serve da conscio o inconscio camuffamento per questa realtà semplicistica che la vita comincia sempre domani. Collegio uninominale, scrutinio di lista, premio alla maggioranza, voto plurimo e obbligatorio e quante altre novità la fertile mente dei legislatori saprà escogitare sono trucchi in fondo poco dissimili che ognuno crede di saper manipolare a dovere e da cui si stima beneficato; e di fatto poi non spostano per virtù propria gran che i risultati, e se mai dilazionano soltanto o mutano di sede i problemi che, col loro ausilio, si spererebbe d'evitare. Sicché, da questioni di questa fatta è esclusa l'idea di giustizia, o per lo meno di quell'aerea giustizia che sarebbe "naturale ed eterna". Non si tratta di principii, ma d'espedienti; non di traguardi che dividono le età o di consacrazioni di nuovi ordini o di lungo sperati riassetti, ma di bisogni concreti ed immediati che trovano questa via d'esprimenti; non dipende, dall'approvazione d'una legge, la fortuna della patria o l'instaurazione d'una verità, ma una verità che piano piano s'è maturata negli animi e combatte tra mezzo alle altre cose concrete, trova a un certo momento un inciampo in un sistema vigente e muove quindi quelli che in lei credono a riformarlo. Gli stessi suoi fedeli, se non sono poveri quaccheri privi di senso critico, sanno che la riforma non è una panacéa. Più che la guarigione d'un male, che si può anche stimare necessario, e imprescindibile dalla nostra sorte terrena, si cerca la soluzione di un conflitto non comportabile, la riduzione di un assurdo, la cancellatura d'un errore; il seppellimento d'una pratica morta e il riparo contro alle sue pestifere esalazioni. Qualunque legge, per i pessimisti, che regoli i rapporti tra gli uomini e voglia tra essi fondare una formale disciplina, ha quest'aspetto di espediente e di rimedio - d'altro lato assume una grande importanza, poiché non si tratta, discutendola, d'una disquisizione teorica, e cioè tra utopistica e letteraria, ma di attenersi o non a una ricetta salutare, e perciò di diagnosticare con giudizio lo stato di noi pazienti. Occhio clinico ci vuole, occhio storico: sapere se oggi ci serve meglio questo o quello. Tutto sta a capire la natura dell'oggi - l'oggi che è poi tutt'uno con la nostra tendenza psichica, con le ragioni profonde e inespresse che stanno, se si può dire, anche più giù della psiche. L'uomo e il suo tempo, son le pietre angolari d'ogni conoscenza. Rispettandoli, ci si comporta secondo le regole della convenienza; e si tiene anche in mente il variare del giuoco politico, le lotte e le crisi dell'organismo sociale. Torniamo alla rappresentanza proporzionale; per noi essa è una spia, un sintomo, una specie di criterio storico. Ci son tempi in cui non verrebbe in mente di chiederla, tempi in cui se ne discute, tempi in cui trionfa. Se la vogliamo, significa che vogliamo, che crediamo maturo, quel tempo a cui è necessaria; che tendiamo a quel tipo d'uomo che la richiederebbe, agitando come mito le ragioni dell'astratta giustizia. Un nietzscheano potrebbe dire che la morale di questa richiesta è una morale da schiavi; poiché tende a far valere le ragioni delle minoranze, le sfumature e le varietà umane che son segni di debolezza. Ma un nietzscheano non ha il diritto di farsi riformatore, soltanto quello di ridere, di ballare o di dannarsi. La maggioranza che porta in sé l'istinto del trionfo e dello schiacciamento é una maggioranza accidentale fatta di gente debole e improvvisata; a cui non basta l'esercizio, ma vogliono per soprappiù la sicurezza dell'esercizio del potere. La violenza, prima che affermazione di fronte agli altri, è affermazione a sé stessi, è la propria debolezza, che si stupisce degli attributi e della possibilità della forza e non ne conosce il dominio sereno. Non si porrebbe antinomia tra maggioranza e minoranza quando la maggioranza attuasse il proprio diritto; ma sono gli elementi più impreparati, più pesanti e oscuri della maggioranza (e dì cui nessuna può esser priva) che creano, con la loro azione cieca e faziosa, antagonisticamente i diritti delle minoranze. Quando poi tutta una maggioranza è impreparata, pesante e oscura, quando un ceto è giunto al potere per miracolo, i diritti delle minoranze, calpestati e infranti, sono il problema essenziale, rappresentano la forza più emotiva e più attiva e il loro soddisfacimento regolerà le prossime manifestazioni della politica. In altri termini (è una verità lapalissiana) se le maggioranze voglion durare, devono difendersi dai proprii difetti, e non dai nemici, insussistenti finché non sono suscitati. L'ordine "liberale" di governo - o, diciamo, costituzionale, cioè dominante negli Stati europei com'erano costituiti fino alla guerra - affidava il potere alla maggioranza. La maggioranza, non sarebbe astrattamente, ma è effettivamente un ceto: per molte ragioni, alcune ovvie, altre aiutate da sottili accorgimenti, è il "Comitato della borghesia". Abolito il diritto divino, le classi che si sentivano la capacità di dirigere dovevano appellarsi al diritto maggioritario. In parte il nome non ingannava: come maggioranza erano insorti: i pagatori di tasse, il terzo Stato; se non maggioranza numerica, maggioranza d'interessi. D'altro canto non erano tutto lo Stato, ma quasi degl'insorti vittoriosi stringenti con l'assedio la cittadella inespugnabile che cedeva uno spalto per volta, e non s'arrendeva. Che cos'era allora, nel loro seno, la diversità dei partiti? Un atteggiamento tattico, la creazione di "clan" politici, la fedeltà all'uno o all'altro capo. L'ideologia del progresso è sorta in rapporto a questa lotta diuturna ed efficace: finché l'oggetto era la sodezza d'una muraglia la pratica liberale aveva ragione d'affilare le armi e di sperare nella conquista. Ma bisogna pur dire che il problema dello Stato il liberalismo non lo poteva risolvere, se non empiricamente, all'uso inglese. Che cos'è, di fatto, un "potere" liberale? Quando la maggioranza non è più soggetta, è a contatto con questa parola e la sventola e se ne serve - ecco che eccede nel dominio e ha paura, ecco che sorgono le minoranze per crearsi vittime prima e poi ribelli. Siamo forse nevrotici e ipersensibili se si sentono queste cose come problemi concreti? Ma di qui hanno origine tutte le forme di sovversivismo o, per usare una parola più larga, di non conformismo, e chi non le ha sperimentate nel suo spirito? Il momento dell'autorità, lo crediamo anche noi, è insopprimibile; nell'esperienza personale, guai se non ci fosse la realtà dell'oggetto. Ma questi poveri soggetti, questi poveri sudditi in un mondo che gli appare irrimediabilmente artefatto, dovranno proprio logorarsi tra il recalcitrante morso del freno, e le ribellioni frenetiche e cieche? Non pare che la "dura lex" sia soprattutto una "lex ignota", che la legge, il congegno della legge fatto più domestico e vicino, convincerebbe meglio, s'adatterebbe di più, e si potrebbe ottenere una obbedienza più umana più benevola dei singoli al suo comando? I singoli non son più dei cospiranti, degli affigliati alle società segrete, degli iniziati e dei pervasi; è passata la generazione quarantottesca, ch'era liberale perché ardimentosa e profondeva insieme sangue e idee, e si prodigava, generosa e illusa, per gl'ignoti, per i renitenti, per crearli uomini secondo un nuovo modello, che li avrebbe gravati di non sperate dignità e di tanti pesi; questi ormai sono i singoli, questi umili ancora presi dall'oscurità e dal torpore, questi facili e improtetti elettori che sono alla mercé di qualunque ruffiano; questi responsabili ineducati, questi lontani prossimi a cui noi, tante volte, non sappiamo come parlare, questi alieni da ogni stato che non sia quello famigliare o parrocchiale. Questi, che ci danno il diritto di reggerli con un voto mendicato coi raggiri. È strano che i diritti dell'individuo sono oggi reclamati a caso, e quasi a rovescio. Si prospetta una difesa delle classi medie col rivendicare una loro priorità, un loro maggior valore di fronte alle classi proletarie organizzate; e si chiedono alle leggi e al costume degli strumenti che agevolino la loro espressione e ricostituiscano il loro privilegio. Al solito, nella gratuita rivendicazione è insita una gratuita offesa. Le classi medie, le classi dirigenti non per loro incapacità o grettezza sfuggono al Sindacato o al partito, ma perché son già giunte a quella individualizzazione, a quella singolarità di pensiero e indipendenza di giudizio che la vita associata serve a promuovere; e riassociandosi, non per necessità ma per calcolo breve e per interesse immediato, sentono infatti che fanno un sacrificio, che mutilano la loro libertà e digradano verso condizioni inferiori. Non conta se nella libertà ottenuta c'è una gran parte di retorica: anche essa è frutto di storia e d'esperienza, e si ottiene a uno stadio di civilità già matura. La difesa dell'individuo è da farsi per i molti che non son giunti a un'individualità consapevole nella vita politica. Per questi ci vuole la associazione, che è un po' la conventicola o la "vendita" dei nostri nonni, un po' la scuola, la sala di lettura e la biblioteca. Se il sindacato, dando loro la coscienza degl'interessi e inquadrandoli, sia pure parzialmente, con la sua azione in un ordine generale, li solleva a una coscienza economica, il partito, che sulle rivendicazioni dell'interesse costruisce un sistema, uno Stato, li solleva verso la compiuta coscienza di cittadini. L'uomo, solo e senza tradizione, privo dell'appoggio del sapere e per ciò di solidarietà nella storia, trova nella famiglia una fissità e una responsabilità morale; nella Chiesa l'appartenza a un corpo mistico che trascende e trascura la città terrena. Ma per esser elemento vivo di questa città che tutt'intorno lo preme, deve parteggiare, aderire a una dottrina, a un mito che gl'indichi, anche grossolanamente, la possibilità e la qualità delle sue azioni. Il partito lo conquista allo Stato, e gli fa conquistare, magari con imaginazioni che hanno del fantastico e del miracoloso, un miraggio e una speranza, che è tutto quanto dello Stato e della storia può esser appreso dalla sua umiltà. La politica dei partiti - mediazione dunque necessaria tra lo Stato e le masse per elevare i singoli alla qualità di cittadini coscienti - è osteggiata per timori contrari alla sua pratica. Non è vero che i partiti di masse farebbero una politica violenta e settaria come dovrebb'essere ogni politica di minoranze. Minoranze in quanto a capacità di raccogliersi sotto un unico capo e di definire un preventivo programma. Poiché invece la politica delle minoranze, la politica riformistica e di rivendicazione è l'unica politica "progressista" e quindi liberale. Di fronte alle masse, agli umili che hanno ancora da diventar cittadini e son lontani le mille miglia dalla psicologia della maggioranza, c'è - e ci dev'essere - un saldo costituito potere borghese, che rappresenta lo spirito maggioritario; come di fronte alle esigue minoranze del quarantotto c'erano i poteri centrali e assoluti da conquistare a grado a grado, che non s'arrendevano certo nello spirito con l'elargizione di una carta statutaria. Si deve ancora osservare che non si può parlare di partito di masse, bensì di partiti. Perché, appunto per la poca organizzazione, e anche per caratteristiche regionali e psicologiche che non devono scomparire, alle nostre masse non si può parlare da per tutto lo stesso linguaggio. La corrente europea del liberalismo, astratta e illuministica, era buona per un pugno di teorici, quasi di profeti, che dovevan preparare l'occasione al risveglio degli altri. Adesso bisogna avviare e promuovere la partecipazione generale sulla base degl'interessi concreti, che polarizzano ormai di fatto l'attività dei partiti finora colpevoli di vacui universalismi. Il richiamo al problema immediato, quasi alla configurazione geografica della nostra terra, all'indole degli abitanti tanto più varia quanto più ci s'addentra fra i nuclei indigeni segregati e primitivi, è un frutto del suffragio universale e porta come conseguenza la rappresentanza proporzionale. Infatti la molteplicità dei partiti e degl'interessi tutti vivaci e a priori contrastanti impone che nessuno di essi domini solo, poiché, per aver ottenuta una maggioranza precaria e malsicura, si puntellerebbe con le violenze e le intimidazioni. La possibilità per gli altri di conquistarsi la maggioranza, quando questa conquista fosse l'unica via per salire al potere e attuare il proprio programma, scatenerebbe una perpetua lotta a coltello, con quello strascico di odii e di vendette che si può immaginare; con il mutare delle fortune elettorali ognuno di essi passerebbe dallo stato di prepotenza allo stato di rivolta. Perciò noi abbiamo ancora la malinconia di pensare ai governi di coalizione: quelli per cui lo Stato non subisce scosse, i cittadini non passano a traverso fasi di lotta violenta; e i partiti, partecipando quasi continuamente all'ufficio del potere, attuando via via e abbandonando a seconda delle occasioni e degli accordi i singoli punti del loro programma, si adeguano a una realtà che è in sé pacifica e ordinata e solo sembra tingersi di colori reazionari o sovversivi a quelle passioni che da essa si sentono escluse. UMBERTO MORRA DI LAVRIANO.
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