VISITA A SIENA

    Ci affacciamo alla balconata del Palazzo del Popolo. Dentro, nelle sale, le antiche Città flagellate o esaltate, le Virtù cardinali, Bestie occhiute pennute cornute, cacce, giostre, dedizioni di castelli e ingressi di conquistatori, tutto il ciclo dei miti e delle vicende medioevali; e fuori, sotto il sol di Novembre, le torri di San Gimignano; la Rognosa, la Salvucci, la Pesciolini, la Chigiana; tutte asciutte e ferrigne, tutte ridotte in muscoli e nerbo al mestiero della guerra, come arcieri eternamente giovani, partecipanti della balestra e del verruto; e tutte coronate da rauchi voli di cornacchie, tra buche pontaie, mensole e merlature. Cinque balzane, issate ai finestroni sopr'a noi, ci lambivano il volto colla stoffa pesante e odorosa di cassapanche e di ripostiglio, relento di secoli.

     - Festa grande, oggi, in Siena, ci spiegò il famiglio, custode del Palazzo del Popolo. Quelli della Milizia sono andati in Siena, per dare il giuramento. La balzana di mezzo, è la nostra, di San Gimignano, e porta tutto campo azzurro; poi c'è quella senese, mezza bianca e mezza nera, poi quella col drago rampante in campo rosso, che è di Montepulciano; e poi la volterranna, e la fiorentina. Ci hanno anche messo il gagliardetto del fascio, perché la sede, laggiù in fondo alla piazza, all'imbocco di via San Matteo, è piuttosto bassina e non figura.

    Il gagliardetto, difatti, unico nostro contemporaneo in questa serica mostra, era innastato in un crocco della ringhiera; non c'era posto per lui, tra le cinque balzane, e poi fra quelle pieghe solenni la sua smilza seta troppo nuova sarebbe stata molto mortificante. Anche gli stendardi hanno una loro gerarchia e quelli illustri e famosi, come la balzana senese, un certo modo di tenere a posto, e a distanza, i nuovi arrivati.





    Sicuro. Giù in piazza, al varco tra la torre Chigiana e le Salvucci, dove s'apre appunto la strada di San Matteo, c'era la sede del Fascio, o Partito Nazionale Fascista, sezione di S. Gimignano. Sotto l'arco medioevale detto dell'Oro, essa cercava di farsi notare, con grandi cartigli civettoni e variopinti, e ghirlande di carta tricolore disposte come per richiamo; un'aria da uccelliera, o, se più vi piace, da bottega in cui si liquidi la merce a basso prezzo, pur di attirare folla di compratori. Sopra l'ingresso, e sulle due finestre laterali, era ben disposto, l'apparecchio delle luminarie, non rimediato per la solennità della giornata, ma stabilitovi in permanenza, e pronto ad ogni occorrenza di celebrazione, o civica, o nazionale, o imperiale, o internazionale; le listerelle di legno con le lampadine erano applicate a certi colonnini della facciata, come un abbellimento ormai definitivo; ma il groviglio dei fili lasciati pendenti, testimoniava dell'opera frettolosa e maldestra. I manifesti, incollati e rincollati sempre a quel tal posto della muraglia, gli avevano dato il lerciume proprio di tutte le colonne usate per l'affissione di bandi; erano stati, certo, bandi più obbediti di quelli affissi sotto il Marzocco dai commissari fiorentini, un tempo; ma anche più sguaiati e appiccicosi. E sopra le porte un ritratto del Mussolini, ricavato a mezzo rilievo su una targa di argilla, di quella usata negli studi degli statuari per gli abbozzi; qui a San Gimignano, dove pur c'è esempi mirabili di sculture condotte in nobile marmo, quella argilla provvisoria era parsa pregevole; e il Mussolini, con le ganascie fortemente segnate, e con l'aquila, uccello famigliare, raffiguratogli sul capo, campeggiava su quel, non più facciata di antica casa sangimignanese, ma baraccone di fiera.

    Tutta la piazza, gli archi e le torri, e la cerchia murata dalle porte fiorite, ci era apparsa, fino allora, come un corpo sodo, racchiuso in una austera armatura; ne sentivamo in noi l'asciutto vigore, i profili secolari, e pulsare il cuore nei lievi ondeggiamenti delle balzane. Ma or ecco, che sotto l'ascella di questo corpo adusto, di pietra, avevamo scoperto proprio un gavacciolo; o peggio una di quelle bollicine infuocate tra nere e rosse, con certi razzetti, che gli antichi chiamavano carboni, e che stimavano sintomo di pestilenza inguaribile. Scendemmo in piazza.





    Accostatici alla sede del Fascio, in compagnia del famiglio, potemo leggere i due cartigli più grandi, appiccicati a certe persiane.

    Essi dicevano:

    "Chi non ha dato l'obolo, se ne può stare rintanato".

    "Vi conosciamo, vi teniamo d'occhio, vi sorvegliamo nei vostri covi".

    Erano minacce. La bottega in liquidazione, la mostra della vanità, era dunque anche una fucina di rappresaglie? Pareva. Medioevo di fazioni viventi in questo Medioevo di pietra? Molti giornali spiegano che è così e che la rissa d'un tempo ricompare fra le vecchie pietre.

    Ma tant'è. Il Medio Evo aveva un altro sapore; questa bottega, adorna di lampadine apprestate per le luminarie e di ghirlande di carta, sapeva troppo di fonografo e di film.

    Intanto, il famiglio del Comune di San Gimignano, ch'è toscano scrutatore e sottile, e aveva capito di poter parlare aperto, accennò a tutti quegli altarini e ai due artigli, con quel dispregio che solo può avere un donzello di un palazzo comunale visitato - come attestano le storie del Pecori, sangimignanese - da Dante.

     - Ringraziato sia Dio, egli disse, che pur di qui si leverà questa fanciullaia.

    Ma tacque quando passò dinanzi alla porta dai molti richiami vistosi; perch'egli è prudente quanto arguto ragionatore. Un giovane era seduto su una panchetta, a far da guardia, certo, a tutto quell'apparecchio festaiolo, perché nessuno della parte avversa lo sconciasse, profittando della lontana di quasi tutti i più mattani e bizzarri; e il famiglio comunale gli fece di cappello, ma quello duro: accettava gli omaggi, ma non rendeva i saluti. O conosceva il famiglio come un avversario aperto: difatti, quando fummo poco più innanzi, il giovane piegò la manca sulla piegatura del braccio destro, e questo agitò a pugno chiuso dietro di lui.

    Oggi ancora, se ripenso alle ore di San Gimignano, il contrasto tra il Medio Evo di pietra e quello di cartone mi appare tutto qui: nel giovinastro seduto all'ombra, di quelle torri, sotto quei cartelloni da cinematografo, ed esercitato più che trar di balestro, a schermire col gesto priapeo.





***

    Sul piazzale fuori Porta San Giovanni a San Gimignano, c'è una certa lapide murata sul bastione, che, a decifrarla, in quel giorno del giuramento della Milizia Volontaria, pareva un trucco dell'Opposizione.

    La lapide sangimignanese dice:

    "Qui, l'anno tale e tale, così e così, Nicolò Macchiavelli - esercitò primo le Milizie Nazionali - alla nuova disciplina delle armi. - Quando cessato il mercimonio degli stipendi e delle infauste compagnie di ventura - rivendicossi agli italiani il proprio diritto - di morire e spargere sangue per la patria, ecc. ecc."

    Come piazza d'armi, le reclute di Niccolò Macchiavelli l'ebbero francamente bella. Dalla porta, e torno torno dal recinto del piazzale, comincia il declivio della costa tutta olivata; le prime ville bianche in sui poggioli tal quale sulle etichette di falso Chianti, discorsive ed accoglienti nei loggiati aperti, anche quando son riquadrate di sagoma come fortezze, e con intorno i fienili zeppi di maggese, e gli alti castelli di legname segato, come baluardi; e poi la distesa della campagna, tutta festosa nel contrasto tra le ghirlande delle viti ingiallite, intrecciate agli ulivi risecchiti dai geli precoci e le pore lucenti, a linee ondulate, condotte a regola d'arte su chine difficili, da bovi sapienti e da erpici ammaestrati, non a sbandare le zolle di qua e di là, ma a pettinare queste terre sfarinate e sottili; e la delicata architettura degli argini aggrottati, tutti fatica umana, che tiran su i colli come giardini, perché i colti non smottino; il fumo delle oliviere appena messe in opera per la spremitura più sollecita; e dappertutto, di colle in colle, l'arguzia delle terricciole e delle pievi, e quell'ariosità graziosa del paesaggio toscano, tutto pissi pissi, aneddoti e voglia di benestare; e la torre mozza di Montemiccioli in fondo.





    Alcuni podestà di San Gimignano mutarono sulle piombatoie della porta, le loro armi. Piccoli marmi, tenue opera di lavoranti senza pretesa; e pur rifiniti, ben sagomati, ben fermati alle vecchie mura con la calcina di alberese tenace. Documenti delle imprese compiute, e degli uomini morti, fissati senza ordine sulle vecchie mura; ingenue come un desiderio di gloria giovanile, solenni come diplomi di privilegi cittadini, le armi dei podestà toscani guarniscono dovunque le pietre squadrate dei Palazzi di Città; da quelli di Arezzo o di Volterra, che ne son ricoperti; a quelli delle pievi rustiche del Mugello e del Casentino; dal lido delle Maremme, dove le rade torri di palazzo hanno un'alterigia più viva per il timor del contagio, a quelle delle cittadine dell'Amiata, che si levano tra l'odor fresco di borracina, e il vento dei monti sfrullante per le vette delle faggete e dei castagneti; dovunque, i magistrati del Medio Evo in fiore lasciarono questo sigillo alto più che man d'uomo non possa toccare; arme e non orma, segno dell'animo e non del corpo, fatto tutt'uno con la nobiltà del sito, coll'austerità delle mura, coll'amenità del contado, colla dignità dei cittadini; onde ancor oggi tutta la terra toscana, segnata dalle loro armi come da cicatrici, canta le lodi dei reggitori antichi anche se ne dimentichi i nomi; segno di cortesia.





    Fu così, e con questi pensieri, che subito dopo procedemmo per Colle Val d'Elsa; ogni occhiata d'intorno ci pareva una presa di possesso su quella terra e di quelle memorie; e mi ricordo che, alle case di Bibbiano venne fuori il sole, un branco di piccioni si staccò dalla colombaia, e l'ombra fulminea passò sui muri bianchi delle case, e su un cartello che diceva: "zona infetta di afta epizootica". Ma anche questo cartello ci piacque, e la scritta ci parve onesta e graziosa. Finché alle prime case di Colle, la nostra strada cominciò a calare in un borro, e a svoltare attorno all'abitato, allungato in alto sulla collina; e ad uno svolto, ci trovammo a passare tra un filare di alberelli stenti e malati, piantati sul ciglione della strada e su certe piaggerelle motose, sopra il torrente. Ma il singolare è, che ognuno di quegli alberelli reggeva un trespolino bianco, rosso e verde, e ognuno dei trespoli un cartellino col nome di un povero morto in guerra: onde comprendemmo di essere proprio in mezzo al Parco della Rimembranza di Colle Val d'Elsa.

    Merita, da solo, di fare un viaggio a Colle. Degli alberetti, ce n'è di quelli intisichiti per i mucchi di ghiaia che gli stradini devono fare lungo la strada; ce n'è degli altri schiantati, o col trespolino fracassato, da qualche brutto scherzo di mozzo di ruota, e tutti i cattivi servizi che le fruste dei carrettieri, le frogie dei ciuchi, i badili degli stradini, la dimoia alla fine del gelo e il polverone d'agosto possono rendere a della povere piante, quel viale dedicato ai Caduti se le può aspettare; e poi l'umiliazione di essere giù, ficcato nella valle mentre quei di Colle, i viventi, abitano in alto, e il primo sole è il loro, e l'ultimo anche.

    E questi poveri nomi di morti?

    Furono stampati in fretta, su un cartellino bianco, dalla tipografia del paese. Lavoro precipitoso, eseguito senza nobiltà e senza amore; e carta, pensate. Appiccicati al trespolino con delle punte da disegno, già stinti e fradici per le prime pioggie, non è possibile essere più miserini, più provvisori, più sciatti di questi cartellini. Oh, le armi di podestà, lavorate nel marmo, varie secondo tutti gli umori e le voglie araldiche del committente, murate a capriccio, e pur oggi vive come cicatrici sul corpo dalle mura antiche! Perché, di quei morti, restò traccia così peculiare, e ferma, e di questi, più vicini a noi, più grandi, più cari, non resteranno che questi alberetti e questi cartellini, piantati ieri, e poi subito, pare, smessi e buttati?





    Migliaia e migliaia di cartellini bianchi, in centinaia di alberetti stenti, piantati in tutta la Toscana. Quanti ne avevamo veduti? Dovunque; fuor dagli abitati, o dinanzi alle scuole e ai municipi, o confinati accanto ai cimiteri; e tutti, o appena sgargianti per l'inaugurazione recente, con ancora le impalcature drizzate per le luminarie o già abbandonati alle erbacce delle strade fuori mano e dei terreni vaghi. Portano in sé, così dolorosamente contrastante con il carattere di tutta la terra, l'impronta dell'ordine venuto dall'alto, e dell'osservanza timorosa di una imposizione; paiono etichette, messe lì per compiacere i potenti, non per un bisogno vivo degli occhi e del cuore. Venne un giorno, si vede, una scritta da lontano, da Roma, che imponeva a tutti i borghi e a tutte le pievi, il Parco della Rimembranza, così e così, secondo quel tale modello; e allora se ne fece una furia, in poco di tempo. Pur che il Parco fosse piantato, si andò a cercare le terrucole addirittura, che un bosco non ci reggerebbe le barbe; e di gran premuta, i fusti degli alberetti, e i cartellini dei morti; più presto che si poteva, per sopravanzare gli altri nella esecuzione degli ordini e nella occasione della sagra. Ma un tedio, una colpevole noia, pare che colga coloro stessi che furono iniziatori dell'impresa; appena la banda ha tonato e i discorsi sono pronunciati e il ministro è ripartito... I paesi toscani sono sempre in festa; il regime abbonda di espedienti commemorativi; ma il Parco della Rimembranza è buono per una volta sola; bisogna passare ad altro. Questa terra, così ferma nelle tradizioni e nel costume, è violentata e distratta dalle sagre a comando. Smentisce seu stessa e le sue storie, e la fama di cortesia fra le luminarie improvvisate e le dimostrazioni ordinate e serie. In nessuna regione d'Italia, gli espedienti del regime feriscono di più il nostro buon gusto; perché in nessuna, le voci dei campi e gli aspetti delle case e le pietre murate e gli arginini dei solchi e tutto segnano così bene la spontaneità e la concisione, e chiedono uomini ed opere argute e delicate.





    Perciò ne scapita anche la memoria dei morti; i Colligiani non hanno colpa del loro povero Parco della Rimembranza, e del lavoro così precipitoso e poi trasandato e dei trespolini tricolori lordati di mota dalle automobili che passano. È la sagra, che è passata; che ha improvvisato e ha stroncato; che dovunque tocca, le memorie dei morti ed il costume dei vivi, tutto diminuisce e tradisce.

    Da quel triste viale suburbano del borgo murato di Colle, si sfilò via su Monteriggioni; paese terribile, sepolto vivo in cima al poggio dalle alte mura, rosse nel sole del tramonto, che non lasciano sopravanzare nessuna casa. Il più bello ed astero monumento commemorativo di tutta Toscana; almeno per chi udì quei giorni, la voce di certi soldatini del contado senese:

    "Macchinista di Poggibonsi

    Tacca pure una macchina avanti

    Siam borghesi congedanti

    Ed a casa si vol tornà".

    per chi udì passare così, di strofa in strofa, tutti i nomi del contado, e fin quello di Monteriggioni, sí; dove se una sillaba era di soverchio, quei canterini la mangiavano pronunziando; e la nostalgia ci si sentiva tutta, anche in quattro sillabe sole.

    Siena, la sera, era tutta in sagra. Certi giovanottini di su' i vent'anni, di quelli cui le stornellatrici di un tempo salutavano col "Quando ti vedo mi par nato il sole", andavano attorno col moschetto imbracciato, come se per via Larga ci battessero le lepri; e occhio ai piedi, c'era da farsi arruotare dai camions stracarichi di urlatori. Il giuramento era stato dato alla mattina sulla Lizza; dopo una giornata di sole, questi erano i momenti brutti. Al Casino dei Signori, sotto la Loggia dei Mercanti il decoroso servitore s'era ridotto ad ogni buon fine presso il cancello per difendere l'entratura con l'autorità della livrea. Dei canti non dico; una Toscana stravacata, becera e sgangherata teneva il marciapiede sotto le alte dimore dei Salimbene e dei Tolomei.

    Ma sul campo, c'era deserto e silenzio. Solo lassù, sopra le bertesche della Torre, attorno al castello delle campagne, avevano fatto un pò di luminaria; ma con garbo, all'antica, con certi lumini che lappolavano e palpitavano nel vento della sera. Aiutati da quelle luci, ci pareva di cogliere, pur nel buio tutto lo slancio e la grazia dello stelo di pietra, il più bello che abbia germogliato tra l'Appennino ed il mare; ma forse, si ritrovava in noi stessi, al di sopra del clamore sagraiolo, il profilo della Toscana gentile.

GIOVANNI ANSALDO