IL PROBLEMA DELLE AUTONOMIE

    Occorre che gli uomini nuovi che agitano oggi un problema non nuovo per l'Italia, il problema delle autonomie, non si facciano illusioni di sorta sulle difficoltà della loro lotta; non s'illudano sopratutto sulla portata ed il valore d'un largo e facile proselitismo iniziale tra elementi che, in verità, non si rendono conto dell'enorme importanza della questione.

    V'è da far tesoro di tutta la nostra moderna storia fino ad oggi; v'è da far tesoro della recente esperienza politica post-bellica. Il decentramento e l'autonomia, più o meno larga, della regione fu in questi ultimi anni una bandiera agitata da ben numerosi partiti politici, ed una riforma (sic) burocratica doveva bastare perché da quasi tutti fosse ripiegata. Non diversamente avrebbe potuto avvenire quando mancava una pur rudimentale educazione politica di fronte a questo ponderoso problema. Altro è chiedere che si salvi lo Stato da una morte per congestione progressiva e palese, sperimentabile in tutti i suoi anche più elementari organi d'amministrazione, altro è chiedere che radicalmente se ne rinnovi la struttura fondamentale. Nel primo caso basterà un buon salasso che, momentaneamente, ristabilirà una qualunque possibilità funzionale; nel secondo non si dice nulla quando si chiede autonomia dei Comuni ed Enti locali e della regione, o magari... della provincia (ed allora, invero, si dice almeno un enorme strafalcione), se non si è preparati a fronteggiare la questione in tutta la sua vastità e complessità, perché si tratta né più né meno, abbiam detto, che di ordinare su basi nuove lo Stato.

    Il problema non può essere quindi di amministrazione solamente (sia pure di... straordinaria amministrazione), ma è essenzialmente politico, nel senso più specifico del termine (potremmo dire istituzionale), giuridico, economico, sociale.

    Può una forma di costituzione politica che non sia schiettamente democratica o sociale accedere ai postulati autonomistici? Vi può accedere quindi una società capitalistica, un ordinamento sociale che si fonda su l'attuale sistema economico e lo sostiene? Infine - poiché il nostro non è solo un problema di teoria politica - vi può accedere in Italia l'istituzione monarchica?





    È evidente che no. Lo sviluppo del capitalismo nel nostro paese, iniziatosi più tardi che altrove, mentre forse, per le condizioni stesse d'ambiente, più presto che altrove toccherà il culmine della parabola, tende logicamente al più rigoroso accentramento monopolista d'ogni forma d'attività. E' necessario al capitalista che da Roma si muovano i fili da cui dipende la vita d'ogni grande o piccolo centro di produzione, perché gli è necessario poter disporre d'un governo che abbia in mano direttamente tutto il prese, per il gioco incontrastato dei trust e delle speculazioni bancarie. D'altro canto solo una tal forma di costituzione rende possibile all'alto capitalismo di manovrare la politica interna ed esterna conforme ai proprii esclusivi interessi, a danno effettivo di quelli generali della Nazione. Il capitalismo si sostiene ed ingigantisce - si dirà - anche in paesi che di questo accentramento non soffrono: noi non vogliamo dire che la soluzione autonomistica comporti senz'altro l'immediata trasformazione dell'ordinamento sociale; essa è solo un elemento, abbiam già avvisato, per quanto essenziale, del problema più vasto che la comprende. Ma è indubbio anche che, se oggi dovesse in Italia trionfare, questa soluzione coinvolgerebbe un fondamentale innovamento di tutta la costituzione, e però anche del problema del lavoro. In questo senso il capitalismo è il più fedele alleato della monarchia accentratrice. Il problema del reggimento politico è per noi infatti - anche fuori d'ogni questione dottrinale - risoluto dalla esperienza storica. Il contrasto di federalismo e unitarismo che soffocò nel nostro Risorgimento il problema delle autonomie o dell'accentramento, riuscì di tutto profitto della monarchia. E quando la monarchia seppe farsi padrona déll'unità, la soluzione nel senso accentratore del secondo problema fu decisa. Un'altra soluzione non avrebbe potuto riuscire per il nostro paese che come la condizione e insieme la conseguenza prima e diretta d'una costituzione repubblicana, poiché la lotta per il sistema autonomistico o accentratore si era già impegnata tra repubblicani e monarchici nel corso della formazione unitaria. Cosicché oggi - giova esser franchi - sotto le spoglie del problema delle autonomie, risorge la vecchia lotta sopita, ma non mai spenta, tra repubblica e monarchia. Oggi la monarchia resta - né potrebbe intendersi altrimenti un reggimento monarchico - essenzialmente legata al sistema accentratore. Non può cedere d'un palmo su questo terreno. E' forse per questo che i nostri socialisti han sempre guardato con occhio benigno all'istituto principesco.





    Ci si spiega in tal modo come il partito repubblicano anche nelle ore di smarrimento (ricorse invero troppo frequenti) dové conservare il postulato autonomistico, e poté procurare in certo modo su questo punto l'accordo tra Mazzini e Cattaneo. E come, d'un altro lato, si vedano correnti evolute del socialismo, fuori da lontane mire di collettivismo - che solo può giustificare l'accentramento statale in una costituzione socialista, - indirizzarsi, sia pur lentamente, verso il nostro programma, perché l'ordinamento autonomistico non potrebbe che riuscire oggi un colpo formidabile e forse decisivo alla società capitalistica.

    La soluzione del problema, teoricamente compita, urge che si traduca nella pratica. Pure chi non affronta insieme - questo noi vogliamo avvisare - il problema strettamente politico e giuridico della forma del reggimento, e quello economico e sociale dell'ordinamento della produzione, non può agitare seriamente e con probabilità di riuscita la questione delle autonomie. Perché sono questi aspetti diversi d'un solo problema, il problema di una costituzione democratica o sociale delle Stato.

    Occorre - a nostro parere - evitare il doppio errore che ha dominato fin qui. Quello di affermarsi per le autonomie come soluzione di un problema meramente amministrativo, girando lo scoglio del reggimento politico e dell'ordinamento sociale; e l'inverso, di avanzare troppo astrattamente il problema del reggimento come quasi unicamente politico, ponendo in seconda linea gli altri lati della questione. Questi errori non si devono più ripetere e noi si deve affrontare la questione di petto, nella sua inscindibile unità. Per noi italiani essa presenta aspetti particolari molteplici; ma inutilmente, crediamo, si cercherà di risolvere problemi pur vitali, come sono quelli dello sviluppo agricolo e della campagna, e quello cosidetto meridionale e insulare, senza impadronirsi del nerbo di tutti essi. Nodi arme questi non si sciolgono che con la spada.

RODOLFO MORANDI