LA VITA MERIDIONALEIl problema del SudEsso è anzitutto un problema spirituale. Croce in un fascicolo di Critica (Marzo 1924) alle giustificazioni sullo stato di fatto meridionale, basate sul clima, sul terreno, sulla razza, rispondeva con le parole di Hegel: "Il medesimo clima accogliere le opere degli Elleni e l'ozio dei Turchi". Ciò è profondamente giusto. Il problema meridionale è più un problema di storia che di geografia. Il Sud non ha una borghesia industriale (ha una pseudo-borghesia di avvocati, di impiegati e di piccoli proprietari depauperati dal fisco); data quindi la mancanza di questa, non vi esiste la lotta di classe. C'è una plebe numerosa povera, sobria, incolta, sottoposta al latifondista ed alla parrocchia. Il Sud insomma non ha ancora avuto il suo ottantanove da cui si esprimesse una nuova borghesia. Nel Nord è passata, alla meno peggio, una Riforma a scartamento ridotto (Stuart Mill e Kant senza Calvino), nel Sud siamo ancora nella pre-riforma. Il contadino o meglio il bracciante-contadino vive sotto il controllo dei quattro o cinque proprietari del luogo che gli danno, alla giornata, il salario; e sotto il controllo del parroco, mediato attraverso le mogli analfabete e superstiziosissime. La introduzione dell'alfabeto nelle classi contadine del Meridione ha servito ben poco. L'alfabeto è un mezzo per chi voglia raggiungere una coscienza e l'autonomia, ma per chi non sa che cosa ciò significhi, esso serve soltanto a scrivere le lettere ai cari d'America. L'emigrazione non è servita a nulla, in una civiltà giovane come l'americana i nostri contadini vivono spiritualmente isolati; sfacchinano e mandano alle loro mogli i dollari in voto al santo protettore del paese. La chiusura dell'emigrazione darà forse una certa pressione nella fredda caldaia meridionale. La superstizione è vastissima; processioni frequenti, culto di reliquie, osservanza dei precetti. Non vi esiste altro che come nella civiltà primitive la festa a carattere religioso. Il carattere di divertimento dato a questa, la rende una funzione sociale come, per esempio, il teatro. Il valore efficace dato dalle pratiche religiose magiche - caratteristica dei popoli non avvezzi al senso protestantistico della responsabilità e del lavoro - è grandissima. L'Italia meridionale appare una fortezza triangolare chiusa ai suoi vertici da S. Gennaro di Napoli, da S. Nicola di Bari, da S. Rosalia di Palermo. Insomma la caratteristica dello spirito condadino meridionale è nettamente, statisticamente cattolico-superstiziosa. Non c' è altra "formamentis". La politica in quelle classi non ha senso. Feci, qualche anno fa, una breve inchiesta sull'antifascismo meridionale contadino. E' un fenomeno riflesso causato dalle leggi restrittive sull'emigrazione, dalle tasse rovinose di De Stefani che si ripercuotono dai piccoli proprietari sui contadini (in alcuni paesi le mercedi giornaliere sono di sei lire) e - reazione psicologica del nostro contadino ombroso e protervo - dalle violenze consumate dalle cricche di piccoli borghesi disoccupati, che si dicono fascismo. L'idea politica nel contadino e nel piccolo proprietario è quella del Governo paterno e provvido verso i sudditi. Mentalità borbonica dunque. I meridionali sono antifascisti perché il Governo non è stato provvido verso loro. Ho sentito io stesso, in questi ultimi mesi, nel Sud molta gente fare paragoni tra il regime borbonico e quello mussoliniano, con la preferenza del primo. E' bene che le opposizioni pensino alla gravità di questa inestirpata mentalità cattolica. La chiave della situazione meridionale è la parrocchia. La parrocchia é in ciascun villaggio quello che, in grande, é, per l'Italia, il Vaticano: un controllo conservatore, moderatore, antirivoluzionario. Non si tratta solo di controllo ed influenza spirituale, ma di controllo economico; infatti la maggior parte del movimento di piccoli capitali contadini é affidato alle Casse rurali che, come è noto, fan capo alle parrocchie. In questa situazione io credo si debba spiegare lo scarso successo (tranne qualche centro operaio come Bari, Taranto) dei movimenti di sinistra nel Sud! (nei paesi feudali dove esso attecchì assunse semplicemente le caratteristiche di lotta antifeudale). L'unico movimento che abbia avuto qualche successo é stato il popolarismo perché legato intimamente alle parrocchie le quali, d'altra parte, impressero al movimento la loro caratteristica conservatrice. Casi Miglioli, prove di autonomia e di educazione del contadinato nel Sud invano si cercherebbero. In molti paesi la sezione popolare è tuttora una minestra fatta in famiglia tra il parroco e qualche esponente dell'aristocrazia clericale. In considerazione di questo io credo che nessun movimento politico rinnovatore riuscirà tra le masse del Sud (le quali masse, è bene ricordarlo, se non diventassero giacobine potrebbero essere le vandeane di domani), se non si propone di colpire al cuore la parrocchia e se non terrà conto della forma mentis pseudo-religiosa del contadino. Il contadino del Sud non può comprendere il volterianismo che è una forma di dilettantismo borghese posteriore al tempo in cui idealmente vive il contadino del Sud, che è l'epoca anteriore alle Eresie italiane del secolo XII (considerare come queste non hanno mai - tranne che con gli emigranti valdesi - sorpassato il Volturno) e anteriore alle lotte tedesche dei contadini. Ciò non significa che oggi si debba dare a queste masse come antidoto il mito della povertà, dell'incultura e dell'attesa apocalittica impersonato in qualche S. Francesco o in qualche Fra Dolcino, per poi, come attraverso ad un programma gentiliano, farle passare alla fede intellettuale di Calvino o al catastrofismo dialettico di Marx. Le eresie medioevali mentre in parte sono un prodotto di situazioni particolari e irriproducibili del tempo di cui sorsero (corruzione della Chiesa, incultura millenaria), hanno un valore eterno che vive intatto nella civiltà della Riforma e solo è riproducibile. Occorre dunque che l'azione rinnovatrice sia nuova, sia sopratutto politico-religiosa e tenda a staccare il contadinato dalla parrocchia e a porlo contro a questa come alla nascosta avversaria della sua autonomia e della sua libertà di movimenti che non hanno libertà d'azione in quanto movimenti popolaristici facenti capo alla parrocchia sono controllati dalla Chiesa. GIUSEPPE GANGALE.
Basilicata in camicia neraPecunia omnium dignitatem exaequat L'avv. Vito Catalani, non ancora deputato fascista per la circoscrizione Calabro-Lucana, si impegnò nel 1916 ad interessarsi delle sorti di un soldato basilicatese, condannato per diserzione dal tribunale di Thiene. Egli avrebbe dovuto recarsi nel Veneto per avere conoscenza sia dell'entità delle imputazioni che del testo della sentenza emanata, ed avrebbe dovuto o presentare ricorso al Tribunale supremo di guerra e marina o fare ottenere la grazia al soldato Cirenza, dietro compenso di lire duemila, se i suoi sforzi fossero stati coronati da successo entro un periodo di tempo determinato, o se una provvida amnistia fosse intervenuta ad appianare ogni difficoltà. L'on. Catalani avrebbe dovuto difendere molto audacemente il "documento inoppugnabile", se avesse ricordato di avere aderito al fascismo dopo aver militato nelle file popolari, con tutta l'anima perversa dal verbo della fede e dell'amore che aveva accolto nella solitudine della sua coscienza. Avrebbe potuto così ripetere l'affermazione cara a tutti i teologi, che il mondo è pieno di iniquità e di peccato, cose senza dubbio turpi e abominevoli, ma cui Dio compatisce e perdona, perché nella sua misericordia senza confine sa la creta di cui siamo composti. Accettando tale insegnamento, non bisogna infrangere la canna che già si piega e non si deve spegnere il lucignolo ancora fumante, perché non si addice ad un'anima cristiana il contemplare le miserie altrui e l'aggravarle, ma occorre dare sempre un conforto immediato. Dopo questa professione di fede l'on. Catalani avrebbe potuto aggiungere che obbedì ad una profonda convinzione religiosa quando si impegnò, mentre durava ancora la guerra, a far graziare un disertore entro un tempo indeterminato, e qualcuno dei fedeli che ancora gli restano avrebbe potuto gridare ad un nuovo miracolo di carità e di fede, di grandezza infinita... Il capo dei fascisti potentini invece ha sdegnato questa linea di difesa, fondata quasi esclusivamente su ragioni morali, e si è trincerato dietro una serie di affermazioni avvocatesche prive di senso. Egli invero ha affermato che, di fronte ad una sentenza di condanna all'ergastolo piena di gravi errori di diritto, si era sentito autorizzato a promettere la riduzione della pena ed anche la grazia sovrana, e il compenso che avrebbe premiato la sua fatica gli era legittimamente dovuto. Questa difesa, innegabilmente fiacca, nasconde manifesti errori che è bene esporre con la chiarezza più cristallina. E' affatto gratuita l'asserzione che l'avvocato Catalani abbia avuto esatta conoscenza della sentenza di condanna del soldato Cirenza quando scrisse il documento inoppugnabile, perché tutti hanno letto in questo l'affermazione perfettamente contraria, che cioè "l'avv. Catalani si obbliga recarsi a Padova per assumere personalmente dal Cirenza le possibili informazioni e fare, se sia ancora in termine, ricorso avverso la sentenza che condannava il Cirenza all'ergastolo". Chi è pratico di cause e di ricorsi comprende perfettamente che, siccome l'on. Catalani non aveva letto la sentenza, non sapeva se fosse ancora possibile il ricorso al Tribunale supremo, perché non sapeva da che giorno dovessero decorrere i termini. Se invece egli avesse letto la sentenza, non avrebbe avuto a tale riguardo dubbio alcuno, perché la sentenza stessa glielo avrebbe chiarito. Assodato dunque che la sentenza era sconosciuta ai due contraenti, viene anche meno la causa per cui l'avv. Catalani afferma di essersi obbligato, e cioè la fiducia che promanava dai gravi errori di diritto in cui il Tribunale militare di Thiene era caduto. Rimane allora soltanto quello che appare dal documento riprodotto in fac-simile: l'obbligo di assumere informazioni sull'andamento del processo, di ricorrere al Tribunale supremo se si fosse ancora in tempo, e di chiedere in caso contrario, la grazia, ottenuta la quale si sarebbero dovute versare duemila lire. E a questo proposito non voglio fare all'onorevole Catalani l'offesa di credere che egli non sapesse di contrarre un'obbligazione nulla, perché fondata su causa illecita. L'indulgenza infatti é spiegabile dopo la vittoria, perché allora la Nazione può sentirsi tanto forte da perdonare a chi non ebbe fede nel trionfo e fece prevalere le tendenze egoitistiche che aveva nell'anima. In guerra invece la vigliaccheria è ignobile, e l'aiuto che gli uomini d'onore le danno è cosa nociva all'interesse della Patria, specie quando è lungamente mercanteggiato e lautamente pagato. Quella stessa magistratura che riprova, perché fondata, su causa illecita, una obbligazione sessualmente immorale, non può ritenere valido un contratto che non nuoce soltanto alla dignità unitaria, ma all'interesse stesso della generalità, il quale vuole puniti i disertori, cioè i soldati che non fanno la guerra, quando fare la guerra è condizione necessaria per raggiungere la vittoria e la pace. Capisco benissimo che tali idee siano difficili a comprendersi da un apostolo dell'èra nuova, nella quale la morale, il diritto, la vita stessa in tanto hanno valore in quanto siano valutabili in denaro. Se in un'epoca in cui si fa scempio delle cose divine e umane per soddisfare la bramosia sempre crescente di ricchezza, è possibile non ritenere cosa turpe l'impegno contratto di far graziare per danaro un disertore durante la guerra. Ciò premesso, non si può perdonare all'onorevole Catalani di non aver pensato ad una circostanza notevole mentre dettava la sua difesa. Egli ha perduto un'occasione felice di ripudiare la sua avventura popolaristica, e di trovare la sua difesa come mussoliniano della prima ora paragonando la sua condotta a quella ugualmente disinteressata da altri tenuta al tempo dell'interventismo di fronte a Stati stranieri. G. STOLFI
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