NOVIZIATO DI MUSSOLINI

GALLIA CISALPINA

    Il demagogismo da noi notato nel movimento socialista cooperativo e che abbiamo denunziato quale tara ereditaria del giacobinismo repubblicano dal quale molti dei primi socialisti romagnoli derivano, non si creda che rimanesse completamente assorbito dalla pratica industrialistica e liberale dalle cooperative esplicata, dopo che i risparmi dei loro soci e la perizia dei loro capi erano riusciti a capitalizzarle.

    Esso demagogismo esisteva ancora sibbene latente, e ad esso facevan appello i deputati socialisti ogni qual volta avevan l'incarico di ottenere lavori e favori per i "poveri disoccupati" rumoreggianti sulle piazze; al modo stesso che da tale demagogismo veniva tagliata la tela delle future palingenesi sociali addormentatrici e suscitatrici di propositi virili ed azioni rivoluzionarie (mito).

    Era la parte caduca del movimento socialista; che non si poteva tuttavia abbandonare, poiché in quanto mezzo ricattatorio serviva magnificamente gli interessi delle cooperative ed il prestigio dei loro rappresentanti, i deputati socialisti; e poiché, in quanto coltivazione del mito socialista, serviva quale mezzo di propaganda e di proselitismo, nonché quale affermazione di uno dei meno simpatici caratteri dell'anima romagnola: l'inconcludente sovversivismo anarchico e parolaio fatto solo di belle frasi reboanti e di bestemmie; nonché di invettive contro i preti e contro i signori (il Governo), a gola aperta lanciate tra i boccali delle cameraccie dei circoli vinicoli, nei giorni sacramentali della sbornia e della pancia piena. I giorni di riposo e la domenica.

    Invero tale carattere noi abbiamo detto essere di quasi esclusiva pertinenza dei repubblicani, non per il gusto di immeritatamente offenderli, ma per la necessità di riconoscere che esso è, oltre che l'espressione della persistente anima giacobina nei romagnoli, la evidente manifestazione d'un qualché di estraneo e di contrario al carattere realistico da noi avvertito nelle cooperative.





    D'accordo col compianto Caroncini noi crediamo questo "qualché" non sia nient'altro che il sentimento lasciato dai primi occupatori della regione romagnola, i galli; i quali, nel carattere solido e quadrato dei coloni italioti attaccati alla terra, avrebbero immesso la tendenza all'astrazione, all'avventura ed alla generalizzazione, facilmente avvertibile nell'eloquenza romagnola, che spesso e volentieri è del tutto identica alla blague francese.

    A fondamento di questa asserzione che sottoscriviamo sta pure il fatto che molti vocaboli romagnoli sono etimologicamente e foneticamente identici ai corrispondenti vocaboli francesi; il qual fatto, se pur non potesse giustificare appieno la loro comune origine linguistica, potrebbe non di meno avvalorarne la supposizione, molto più che anche fisiologicamente il tipo romagnolo, ha soventi caratteri somatici visibilmente identici a quelli del tipo celto-gallico. Senza bisogno di risalire così in alto colle nostre ricerche per avvalorare la esposta tesi, è pacifico il fatto che dopo la invasione francese avvenuta nel 1797 la Romagna è stato un vero e proprio campo d'esperimento delle idee giacobine; le quali in un primo tempo, oltre a rappresentare il sorgere d'una nuova classe: la borghese: di questa e degli spiriti liberi rappresentarono l'insofferenza al giogo e il desiderio della libertà: insofferenza e desiderio che presero quasi subito l'aspetto di rivolta al clericalismo e di aspirazione all'unità, pel semplice fatto che i dominatori in Romagna erano i preti, il cui governo non poteva essere abbattuto senza il concorso delle altre regioni italiane, per altri motivi e contro altri padroni, pure esse interessate a che, l'auspicata unità avvenisse.





    Si può affermare che da quell'epoca il partito repubblicano è sorto: tipica espressione di idee non nostre; come si può ugualmente affermare che l'idea liberale ed unitaria, dopo questa prima rudimentale espressione, non ne ha avute altre: almeno nell'animo delle masse, rimaste lontane ed estranee dalla rielaborazione ed attuazione loro apportata dagli uomini eminenti del liberalismo romagnolo: intendiamo ricordare qui a titolo di gloria e di devozione Luigi Carlo Farini, Marco Minghetti, Alfredo Oriani ed il grande Baccarini: spiriti altissimi e consapevoli, che sono sempre rimasti degli isolati e dei senza seguito nella loro terra natale.

    Come abbiamo altrove detto questa evoluzione in senso unitario-liberale non è in seguito avvenuta per merito né dei repubblicani né dei monarchici (moderati), ma principalmente per merito dei socialisti; degli Enti sindacali e cooperativi da loro ispirati e diretti.

    Una vaga coscienza di questo fatto era nei repubblicani, allorché rimproveravano ai socialisti il loro scarso rivoluzionarismo e la loro interessata dedizione alla monarchia. All'on. Nullo Baldini venivano specialmente rimproverati i buoni rapporti intercorrenti tra lui ed il defunto Re Umberto I; che fu, come è noto, con un telegramma rimasto famoso, rimpianto dal cooperatore romagnolo; del quale era stato ammiratore ed in certo modo ospite, allorché andò a visitare la colonia romagnola d'Ostia, che aveva munificamente beneficata.

    Certo prima della guerra i soli liberali in Romagna erano i socialisti: i quali verosimilmente (per riprendere un accenno da noi fatto in principio e per obbedire ad una tentazione che folleggia nel nostro spirito) di fronte al pensiero giacobino vivo ancora nei repubblicani e latente negli stessi socialisti, rappresentavano il sano realismo del fondo italiota e romano del nostro carattere: il quadrato romanesimo insomma, di fronte alla barbarie celto-gallica ad esso mescolatasi in seguito alle invasioni.





IL SOCIALISTA RIVOLUZIONARIO
BENITO MUSSOLINI

    Le cose erano a questo punto allorché appena ventiseienne (1919) da Trento ritornò in Romagna il socialista rivoluzionario Benito Mussolini. Nella città che l'aveva ospitato era stato appena sei mesi, coprendo la carica dapprima di segretario di quella camera del lavoro, di collaboratore e poi di redattore-capo del quotidiano socialista il "Popolo" diretto e fondato dall'on. Cesare Battisti, che ne era anche il proprietario. Durante questo breve tempo di permanenza nel Trentino aveva organizzato due scioperi di cui uno generale contro la reazione politica, due agitazioni: una pro suffragio universale ed una contro le tasse approvate dai clericali contro i quali inscenò pure un'altra agitazione per l'abolizione della messa nelle scuole elementari, come risulta dal libro di intonazione salveminiana che sul Trentino pubblicò nei quaderni della Voce (8° della 1ª serie) raccolti, come è noto, dal buon Prezzolini che del Mussolini ha ultimamente parlato (1ª delle medaglie dell'Editore Formiggini) senza ricordare i sopra accennati fatti per non sciupare forse il ritratto, lezioso anzichenò, del Duce.

    Nei fatti ricordati, appare subito e in tutta la sua totalità la figura niente affatto amletica di Mussolini: che dall'inizio s'è rivelato un demagogo anticlericale romagnolo ed un blagueur.

    Il metodo ricattatorio poi del Mussolini socialista, interventista e fascista su vasta scala fa qui la sua prima apparizione. Tale metodo consisteva in ciò: con uno sciopero o con una agitazione mettersi in mostra, sulla paura degli avversari posare il fittizio piedestallo della propria potenza, sull'illusione della propria forza di condottiero fondare il prestigio presso i gregari, infine sulla sua auto-proclamata unicità ravvisare e far ravvisare dagli altri, i dominati, la provvidenzialità della sua "graziosa" tirannia e la necessità della sua missione.





    Codesto metodo, se mette subito in mostra i peculiari caratteri della mentalità mussoliniana, interamente rivolta al passato, al tipo medioevale del capitano di ventura, ne mette pure in chiaro i limiti consistenti non soltanto nell'anacronismo, ma nella mancanza di generosità, e di fedeltà ad una idea: origine unica e prima del banderolismo di Mussolini e del suo superomismo soggettivista malamente mutuato dal Nietzsche e dallo Stirner traverso la mascheratura letteraria del D'Annunzio: vero padre spirituale della nostra generale decadenza. Però, nulla di più lontano dall'estetismo dannunziano pieno gli occhi dallo splendore cinquecentesco, quanto dalla concezione cavalleresca della vita del Fratti e del Cipriani, di cui Mussolini ha voluto qualche volta rinnovare il ricordo: giacché, se per uniformarsi al primo gli manca e la cultura e la finezza e l'estetico disinteresse, per praticare il secondo gli mancano la generosità come abbiamo detto, e l'amore.

    Mussolini non ha mai amato gli uomini, perché non ha mai amato nessuna idea: confinato nel suo sogno di potenza, ha sempre considerato gli uomini in rapporto al suo interesse e mai in rapporto al merito da essi assunto di fronte ad una idea, di fronte cioè ad un valore che trascenda il suo soggettivo parere; il suo giudizio è sempre stato inquinato dalla passione e dal personale tornaconto, per virtù del quale ogni oggettivo valore è stato o misconosciuto o falsato.

    Per Mussolini gli uomini sono: o nemici o servi: meritevoli quindi di disprezzo o di stima a seconda che appartengono all'una piuttosto che all'altra categoria.

    Questa sua prepotente sete di dominio non lo allontana soltanto dai campi della morale, della giustizia e del pensiero, per confinarlo nei regni bui dell'empiria e del capriccio; ma lo allontana benanco da quello più ambito dell'eroismo. Riconoscere ciò basta per essere autorizzati a denunciare l'intrinseca femminilità del pensiero mussoliniano; per questo fatto solo negato alla storia, in quanto quest'ultima registra i valori che accrescono il patrimonio culturale e politico degli uomini, e non le avventure di chi approfitta delle loro passioni.





    Invero l'eroismo è incompatibile coll'empiria mussoliniana; alla quale più s'attaglia il compromesso. Anzi a quest'ultimo va sempre a sfociare la sua violenza di incolto romagnolo e di blagueur; e non v'è cosa più amena del machiavellismo di questo semplicione che ha la pretesa di teorizzare la sua astuzia; quando il suo metodo basato su pochi numeri è a tutti arcinoto, si da render piacevole ai suoi avversari l'anticipazione dei suoi gesti e delle sue parole!

    La "tragedia dell'ardimento" potrebbe pertanto diventare la "tragedia dello scarso intendimento" se non fosse la "fetida ruina" d'un metodo e d'una corrente di pensiero.

    Noi pensiamo che, dappoiché l'atto puro, dal suo creatore è stato identificato colla pratica del bastone, sia necessario non più fare il processo all'on. Mussolini che di tale pratica si rivendica l'iniziatore e duce, ma bensì all'on. Gentile che in un volgare caso di psicopatia collettiva destinata a morire nei rigagnoli della cronaca spicciola, ha voluto ravvisare le gloriose gesta d'una rinnovata età dell'oro; ed il fatale esprimersi d'una superiore civiltà.

    Infatti "la civiltà del manganello" noi eravamo disposti a chiamare la nostra disgraziata epoca, se la riconosciuta paternità idealistico-gentiliana non ci obbligasse a chiamarla invece l'epoca dell'atto puro".

    Giunti a questo ritorniamo al punto di partenza, per meglio approfondire la nostra ricerca.





BENITO MUSSOLINI
ROMANZIERE E VIOLINISTA

    Nell'accenno all'attività trentina di Benito Mussolini ci eravamo dimenticati di dire che sul "Popolo" dell'on. Battisti, aveva pubblicato dei racconti di cui uno "alla Poe" come dice il suo autore, intitolato il "Suicida" nell'intento di raccoglierli poi in un volume da intitolarsi baudelairianamente "Novellette perverse", mentre le cartelle d'un altro "romanzaccio storico" d'appendice venivano preparate e mandate al "Popolo", contemporaneamente che nella sua povera casa di Dovia, imparava a suonare il violino, col proposito di girare il mondo quale suonatore.

    Questa dimenticanza è stata voluta ad arte da noi per avere agio di dire che questa che era l'espressione della sua educazione e cultura di autodidatta, veniva naturalmente al innestarsi sul fondo allobrogo del suo temperamento di romagnolo, si da fare di lui un caso di esperimento della cultura francese, e de' suoi fatti la tragedia di essa cultura.

    Se un altro romagnolo d'ingegno, il poeta Dino Campana poté allo scoppio della guerra stampare quale epitaffio dei suoi Canti Orfici "la tragedia d'un ultimo tedesco in Italia" ad ugual titolo Benito Mussolini potrebbe sintetizzare con una sola frase le sue disavventure culturali e politiche: "l'odissea di un ultimo allobrogo in Italia".

    Quando si tenga presente ciò si capiscono e si giustificano tutti gli atti di Mussolini: il suo stile teppistico e follajolo, la sua strampalata immaginazione fissa ad un'epoca sola della storia, quella del secondo impero e della Comune di Parigi, nei fasti e nei nefasti; ed il suo metodo ferreamente condizionato dal suo temperamento, dalla sua legnosa induttilità psicologica e dalla sua pseudo-cultura: ciò che forma il pittoresco di esse azioni, mai improntate ad un pensiero, come abbiamo detto, ma in un primo tempo (il tempo socialista) quasi esclusivamente ad un metodo, complicato nel secondo tempo (il tempo interventista-fascista) al personale torna-conto.





LA "PROVVIDENZIALITÀ" DI MUSSOLINI

    Il ricordato metodo è esso pure di marca francese, ditta Blanqui-Sorel.

    Come il Blanqui che ammirava e come il Sorel che diceva di seguire, il socialista Benito Mussolini, considerava la società divisa in due grandi eserciti (il borghese ed il proletario) destinati a battersi per il sopravvento l'uno; per la resistenza l'altro.

    Con un po' giù di generosità e di onestà avrebbe potuto diventare un Cipriani od un Malatesta, col suo cervello e col suo temperamento non è potuto diventare altro che quel che è: il capo di una fazione armata.

    La concezione sindacalista del Sorel consistente nel considerare i piccoli scioperi parziali delle scaramuccie atte a preparare l'animo ed il fatto alla grande battaglia finale, dal suo profeta esteticamente rappresentata nel mitico sciopero generale espropriatore e liberatore, era accettata appieno dall'allora socialista rivoluzionaria Benito Mussolini.

    E' pure noto ch'essa concezione aveva diretti rapporti coll'insurrezionismo mazziniano, poiché lo stesso Sorel s'era occupato di avvertirli nelle celebri sue Considerazioni sulla violenza allora molto lette negli ambienti sovversivi.

    Non sono però altrettanto noti i rapporti tra l'insurrezionismo mazziniano e quello del Blanqui, né quanto il sindacalismo teorico del Sorel dava a loro, ma specialmente al secondo il quale fu dal Proudhon teorizzato e fatto risalire alla sua vera origine, che va trovata nell'epopea napoleonica: conseguenza, veicolo e tomba del giacobinismo.

    Ai postumi di esso giacobinismo latenti come abbiamo visto nell'anima dei repubblicani di Romagna e, in parte, anche in quella dei socialisti, non interamente assuefatti al realismo cooperativista, come abbiamo pure visto; a tali postumi fece appunto appello il rivoluzionarismo mussoliniano, allorché nel 1909 l'attuale duce ritornò nella natia regione.

    La feroce lotta sostenuta contro i repubblicani a base di contumelie e d'insulti (è di quell'epoca un'accesa commemorazione dell'internazionalista Pio Battistini, ucciso nel 1880 a Cesena dai repubblicani), non fu che lotta per il primato d'un metodo; mentre la lotta contro i riformisti del suo partito e contro i clericali faentini, non fu che l'espressione della sua incomprensione politica e della sua faziosità demolitrice; in stridente antitesi con quanto è freddo dato di realtà.





IL SUO ANTI-REALISMO

    In fondo contro i socialisti riformisti egli non faceva che ripetere quanto i repubblicani andavan da tempo dicendo sul conto dei moderati prima e poi degli organizzatori; poiché, con essi, il Mussolini non s'accorgeva che il suo rivoluzionarismo era non soltanto un anacronismo ma la quintessenza del conservatorismo sociale.

    Così, come nel Trentino aveva aspramente combattuto i risparmiatori clericali a loro modo riformisti (in quell'epoca nacque la Vita di G. Huss edita poi dall'"Asino"), in Romagna combatteva adesso Nullo Baldini ed i socialisti riformisti organizzatori e cooperatori; poiché tanto i primi che i secondi rappresentavano la freddezza del dato di fronte alle luminarie della rettorica di cui era l'espressione.

    Come non capiva allora la profonda rivoluzione in senso liberale esplicata dalle cooperative, quali organismi industriali e capitalistici, altrettanto non capisce oggi la democrazia, non per via della paretiana teoria delle élites come dicono gli esegeti del fascismo, e delle gerarchie, come dice lui; ma per via dell'incompatibilità di essa democrazia colla sua guasconesca concezione della vita, forse perché nella sua ottenebrata coscienza intuisce che ai nostri giorni la democrazia è la sola forma possibile di aristocrazia in virtù del metodo selettivo (concorrenza, liberalismo) basato sul valore personale e di gruppo, risultante dalla utilità-novità di esso valore nei confronti del pensiero storico e della collettiva ricchezza preesistente all'atto del suo manifestarsi.

    (Non è neppure del caso chiederci quale novità abbia apportato Mussolini nella vita politica italiana; giacché, tanto da socialista che da interventista e da fascista, non ha mai espresso un suo personale pensiero. Quindi... Tiremm innanz!).





IL DUCE HERVEISTA

    Una specialità dell'agitatore socialista Benito Mussolini era l'herveismo. Sempre seguendo la sua concezione bellica della lotta politica, egli pensava che dovere primo dell'esercito proletario dovess'essere l'indebolimento dell'esercito nemico, cioè capitalista.

    Quando e perché potesse riuscire con efficace in questa sua propaganda antimilitarista non è possibile capire altro che col rifarsi alle condizioni spirituali e politiche dell'Italia di quei tempi.

    La politica interna ed esterna dell'on. Crispi cominciata coll'isolamento commerciale e finita negli stati d'assedio e nella disfatta d'Adua, aveva rovinata l'Italia, alla quale, per non trovarsi da un giorno all'altro costretta alla guerra, era giocoforza tenersi legata, in contrasto col sentimento popolare, alla Germania e all'Austria mediante la Triplice.

    Per virtù della quale avveniva questo che, alla sfiducia dell'esercito succeduta alla disfatta d'Adua, subentrava un senso di scetticismo quietista ed idillico lietamente riposante sulla credute eterne garanzie di pace offerte dalla Triplice, a cui conseguiva il generale disinteresse per la politica estera del nostro paese e le reiterate disapprovazioni dei bilanci per la marina e l'esercito da parte dei socialisti; mentre solo pochi degli uomini politici democratici che avevano allora coscienza del pericolo incombente sulla nostra Patria, avevano il coraggio di votarli e sentivano il dovere di denunciare alla distratta nazione l'indecorosità del legame che ci univa a Nazioni sino a ieri nemiche. Fra questi pochi era il socialista riformista Leonida Bissolati da vivo e da morto insultato dal demagogo di Predappio; la di cui cacciata dal partito socialista italiano, quando l'herveismo predicato dai seguaci di Edmondo e di Michelino attorno al 1910 non altro volle dire che dar partita vinta nella questione di Tripoli alla retorica nazionalista che in quell'impresa fece, per nostra somma sventura, la sua prima apparizione quale monopolistica rivendicazione del sentimento patriottico. Se i socialisti italiani avessero capito come diceva a loro Bissolati, la necessità di non rinnegare la patria e di non straniarsi dai problemi di politica estera ed interna con uno sterile astensionismo "il monopolio del patriottismo non sarebbe passato nelle mani di coloro che hanno tutto l'interesse a scartare la nostra (dei socialisti) influenza, a metterla da parte; per proseguire il loro sogno di imperialismo all'estero e all'interno".





LA GUERRA LIBICA

    Fu in quell'occasione che l'on. Mussolini dal piccolo borgo natio allargò la sua attività e fece il suo ingresso nella vita politica italiana, mediante lo sciopero generale di protesta contro l'impresa libica (25-30 Ottobre 1911) che gli valse l'arresto e la condanna a 5 mesi di reclusione. Si può con sicurezza affermare che il socialista rivoluzionario Benito Mussolini (e con lui gli altri suoi compagni d'allora che di fronte ad un problema concreto qual'era l'impresa si limitavano a cantare l'inno dei lavoratori ed a gridare: "Guerra alla guerra!") inconsapevolmente lavoravano per i loro nemici: i nazionalisti; che soli, nella generale indecisione dimostravano di avere una linea di condotta, precisa anche se dannosa.

    Lo sciopero generale di protesta a base di azione diretta contro i pali telegrafici e le rotaie avvenuta a Forlì nei giorni dal 23 al 30 settembre 1911, l'arresto e poi la condanna a cinque mesi di reclusione al suo promotore portarono lo sconosciuto agitatore provinciale alla ribalta della vita politica nazionale.

    Uscito dal carcere (12 marzo 1912) Mussolini non era più un ignoto. Nel partito di già s'era acquistata la sua fazione: in Romagna i combattutissimi repubblicani intensamente l'odiavano-amavano, poiché non ingiustamente lo sentivano dei loro e mentre i giovani lo seguivano, i ribelli e gli anarchici lo obbedivano.





ANTIMILITARISMO INSURREZIONISTA

    Il cemento che tutti univa questi disparati elementi, era, oltreché la violenza verbale e l'apocalitticismo, l'antimilitarismo, come nel 1914 s'è visto colla settimana rossa. L'eccidio avvenuto il giorno dello Statuto ad Ancona non fu che il pretesto per l'accensione della polvere a larghe mani disseminata nelle masse romagnole; da Benito Mussolini in prima, e poi da Maria Rygier, da Armando Borghi, da Pietro Nenni (che allora trovavasi a Jesi a dirigere il Lucifero) e dagli altri agitatori minori i quali nei comizi e sui giornali apertamente incitavano alla ribellione. La propaganda fatta con la lotta di classe di Forlì da Mussolini, coll'Agitatore (anarchico) di Bologna da Domenico Zavattaro, coll'antimilitarista Rompete le file! di Bologna dalla Rygier e dall'allora sindacalista-anarchico Armando Borghi, aveva indotti molti fra i più semplici operai alla disubbidienza ed alla diserzione, nonché alla rivolta.

    Nei giornali sovversivi di quei tempi è spesso fatta la cronaca di processi per tali reati militari; i quali poi non erano che lo sfondo dal quale spiccavano i maggiori reati, quali quello del soldato Masetti che sul finire del 1913 in una caserma di Bologna sparò vari colpi di fucile contro il suo colonnello e del soldato Antonio Moroni che fu aggregato ad una Compagnia di disciplina ed internato nel forte di S. Leo (Rimini) per aver scritto articoli antimilitaristi.

    Il comizio di Ancona che diede origine al conflitto e dal conseguente sciopero generale, fu per l'appunto indetto per protestare contro la "ingiusta" detenzione di questi e di altri condannati per reati di natura militare. Nella generale infatuazione antimilitaristica neppure i repubblicani seppero trovare nel loro vantato patriottismo il modo di resistere.

    In quei tempi per i trentennali commemorativi di Oberdan l'irredentismo era diventato una cosa ridicola e spregevole; se al congresso nazionale repubblicano tenuto nella primavera del 1914 a Bologna, Malatesta fu invitato a parlare, e dopo il suo discorso nel Congresso s'inveì contro i fautori della guerra ravvisati nei massoni, si respinse ogni e qualsiasi collaborazione colla Monarchia e si gridò infine "Abbasso Trento e Trieste".





IRREDENTISMO ADRIATICO

    Come spiegare tutto ciò? Abbiamo detto che la guerra libica aveva valorizzato la scarsa pattuglia nazionalista la quale dalla recente avventura africana si credeva in diritto di trarre illazioni imperialistiche evidentemente ispirate da ricordi letterari.

    Chi sognava l'impero non si dimenticò di rievocare Duilio.

    La conquista della Libia doveva essere il principio della padronanza italiana dei mari, oltre al bacino mediterraneo-Jonico, l'erede di Roma doveva signoreggiare l'amarissimo Adriatico, mediante la riconquista dei territori dalmati già posseduti dagli antenati.

    Nella propagazione del nuovo verbo anche l'archeologia fu utilizzata; mentre il cantore delle Odi Navali riprendeva la lira per magnificare le "novissime gesta" e odor di sangue e di lauri pregustavano le sue raffinate nari nelle Canzoni d'Oltremare.

    Quanto tale propaganda fosse esiziale agli scopi della nostra guerra non è qui del caso parlare: basti accennare al fatto che tale propaganda era molto ben accetta in Austria, poiché serviva col dualismo Italiano-Slavo che veniva creando, a consolidare sempre più la Monarchia absburgica.

    Se l'inconsistenza di tale irredentismo non fosse subito risultato evidente dall'arbitrarietà delle richieste nazionaliste che sulla buona fede dei suoi pubblicisti richiedeva territori abitati da stranieri, mentre territori abitati da italiani (l'Istria p. es.) erano o dimenticati o tagliati fuori, basterebbe per chiarirlo la nostra appartenenza alla Triplice, e la parte che in essa vi facevamo di terzo incomodo e di parente povero. Chi non avrebbe dovuto vedere che in un contrasto coll'Austria (in cui noi saremmo stati soli perché abbandonati dalla Germania e perché non aiutati dall'Inghilterra e dalla Francia la cui politica Balcanica osteggiavamo), all'Italia sarebbe toccata la peggio se pur le fosse bastato il coraggio di battersi?





PERPLESSITÀ POLITICA

    Evidentemente questo interrogativo turbava l'animo irredentista dei repubblicani, al modo stesso che in quello di qualcuno fra i più consapevoli democratici (citiamo per tutti Salvemini e Bissolati) faceva rivivere il ricordo della politica balcanica mazziniana; mentre nei più semplici e nei più passionali, il pericolo d'una nuova immancabile disastrosa guerra svegliava irresistibili repugnanze, variamente mascherate ed espresse dai partiti in cui questi passionali erano iscritti, senza peraltro riuscire a far dimenticare la loro comune origine, che era il diffuso sentimento di sfiducia e di preoccupazione derivante dalla schiavitù triplicista e dalla mancanza di una qualsiasi direttiva in fatto di politica estera da parte del Governo.

    Se la impossibilità di un qualsiasi sbocco impediva una serena valutazione dell'opera dei vari ministeri, il continuo aumento delle spese militari per l'esercito e per la marina (che in pochi anni aumentava del doppio), non faceva che accrescere ancor più la preoccupazione delle masse, che s'ingrandiva in proporzione che l'orgoglio nazionalista triplicista cresceva.

    Questo parallelismo che spiega l'intensa propaganda antimilitarista dei partiti sovversivi corrente sullo stesso binario di quella nazionalista (va ricordato che nella primavera del 1914 i nazionalisti si radunarono a congresso, mentre pochi giorni prima gli sloveni facevano una dimostrazione anti-italiana (1° maggio a Trieste), è stato da noi lumeggiato perché chiarisce uno degli aspetti della neutralità mussoliniana: l'induttibilità psicologica, la necessità di vedere la realtà sotto i due soli aspetti del bene e del male, nettamente divisi.

    Teniamo presente questo dato, perché ci servirà ancora per chiarire gli ulteriori atteggiamenti di Mussolini.





LA SETTIMANA ROSSA

    Ora proseguiamo nella rievocazione della famosa "settimana rossa" dopo che abbiamo visto quali sentimenti erano nelle masse.

    Abbiamo già detto che il comizio tenutosi in forma privata ad Ancona il giorno dello Statuto del 1914 era stato indetto per protestare contro "l'ingiusta" detenzione dei soldati Masetti e Moroni, come abbiamo già detto che l'eccidio cui esso comizio diede luogo (17 militi feriti dalla folla nell'aggressione ch'essa fece alla forza pubblica, e 2 morti e 5 feriti nella difesa che i militi opposero all'aggressione) non avrebbe assunto le proporzioni che assunse se una vasta propaganda di sovversione non ne avesse facilitato lo scoppio e la propagazione.

    Abbiamo anche detto che in tale propaganda di sovversione si fosse specializzato il Mussolini; non abbiamo detto ancora quali caratteri assumesse in seguito ed a quali avvenimenti si riallacciasse.

    E' noto che non appena diffusasi la notizia dell'eccidio fu proclamato lo sciopero generale al quale aderirono anche i ferrovieri. Nelle altre regioni d'Italia lo sciopero generale non durò che tre soli giorni (dal martedì mattina al giovedì sera) e fu fissato per ordine della Confederazione generale del Lavoro e della Direzione del P. S. I.), e non assunse forme così gravi come nelle Marche e nella Romagna che portarono avanti lo sciopero (che avevan cominciato prima) per più giorni; imprimendo alla loro protesta i caratteri veri e propri d'una insurrezione.





    La rottura dei pali telegrafici e l'incendio delle stazioni, il guasto delle linee ferroviarie e i tentativi d'incendio di chiese, che formavano il clou della propaganda rivoluzionaria di Mussolini, furono largamente praticati; senza che risultati molto seri fossero ottenuti e senza che apocalittici scontri avvenissero colla truppa che fu fatta rimanere asserragliata nelle caserme, oppure fu messa di guardia alle stazioni ed alle chiese quando erano già stato oggetto all'ira plebea; se pure non fu obbligata a rendersi oggetto di scherno in seguito alla cattura d'un generale d'esercito (il generale Agliardi di stanza a Forlì) d'un capitano di corvetta e di quattro ufficiali, i quali, circondati dagli insorti si fecero senza resistenza prendere e disarmare durante una passeggiata in vettura nella frazione Savio di Ravenna!

    La rottura delle comunicazioni ferroviarie, telegrafiche e telefoniche avevano isolato le due regioni dal resto dell'Italia; e fu forse perché in Romagna non giungevano più, assieme alle notizie, gli ordini del Governo, che il generale Agliardi e gli altri ufficiali stimarono bene di farsi prendere quali ostaggi; giacché lo stesso isolamento fu quello che determinò il breve sogno repubblicano dei Marchigiani-Romagnoli, sugli spiriti dei quali non invano era passata la propaganda anarchica-federalista di Malatesta. Il quale, in quell'occasione, cercò di trar profitto dai disordini per imprimere ai moti insurrezionali il carattere d'un violento distacco d'una parte della Nazione dalla tirannia del Governo centrale, contro il quale, assieme ai repubblicani che di detti moti furono i protagonisti maggiori, tentò di dichiarare quella che per ischerno fu chiamata la "Repubblica romagnola" e la "repubblica di Fabriano". Mussolini che stimò bene di fronte alla reazione del governo e della popolazione che istituì plotoni di difesa (in anticipazione delle squadre fasciste), di "darci un taglio" e di lasciar nell'imbarazzo il vecchio rivoluzionario napolitano, che dovè ancora una volta emigrare a Londra, ed il giovane repubblicano Pietro Nenni oratore del comizio-miccia e duce in sottordine dell'insurrezione.





    Questi nella loro semplicità i fatti. Ora, pensando che appena 14 giorni dopo avvenne il misfatto di Sarajevo (28 giugno 1914), noi dobbiamo chiederci: quale importanza ebbero i summenzionati fatti nella politica interna ed esterna dell'Italia?

    Per rispondere a questo interrogativo, bisogna tener presente il fatto che la rivolta di Romagna, come abbiamo visto, fu principalmente sostenuta dai repubblicani, i quali le impressero coi ripetuti tentativi di incendio di chiese e distruzione di oggetti relativi al culto ed alla fede (questo avvenne specialmente a Forlì ed a Ravenna, fortilizi repubblicani), uno spiccato carattere, oltreché antidinastico; anticlericale: il primo contro i nazionalisti fatti simbolo della monarchia "traditrice della causa nazionale ed usurpatrice", il secondo contro i preti, loro alleati nella lotta contro la "libertà di pensiero" (leggi Massoneria) e nella campagna irredentista a base di richieste di un più equo trattamento dei nostri fratelli d'oltre Isonzo, e di sogni imperialistici sulla Dalmazia; - campagna che, come abbiamo visto, finiva per essere favorevole all'Austria in quanto sull'opposta sponda adriatica svegliava l'odio degli slavi contro l'Italia. Non è improbabile che il la di tale campagna partisse da Vienna; comunque a Vienna era molto ben accetta; come non è improbabile che il la della rivolta Romagnola fosse partito da Parigi, traverso la compiacente trama delle Loggie, il cui organo bolognese di quei tempi, il "Giornale del Mattino", di detta rivolta si fece subito vessillifero e portavoce, mediante le prestazioni dei suoi redattori, le cui corse in automobile traverso la Romagna servirono da collegamento e da incitamento.





LA SETTIMANA ROSSA E LA GUERRA

    Questo non può essere che un nostro sospetto. Ma se si pensa che il delitto di Sarajevo fu voluto dall'alta banca francese padrona della Massoneria internazionale, non meno che della politica balcanica e della dinastia Serba (della cui Mano nera si servì per fare uccidere l'arciduca Ferdinando, come è dimostrato in "Rassegna Internaz.", 1921, pp. 517 e segg.), non è azzardato supporre che se non fu voluta, la rivolta in Romagna fu però vista con molto buon occhio dall'anzidetta, in quanto, nell'imminenza della grande conflagrazione doveva servire a gettare il discredito su un esercito alleato al nemico e la sfiducia del Governo che tale esercito doveva manovrare.

    Non è inoltre fuor di luogo avvertire che tale rivolta e l'ostruzionismo che poi ne seguì alla Camera da parte dei socialisti, furono due fra le cause determinanti della nostra neutralità: Utile, come si sa, agli Alleati, che sarebbero stati disposti a pagarcela più cara se la generosità dei ministri d'allora non avesse obbedito più ai pregiudizi che all'interesse. La parte che ebbe Mussolini in questi avvenimenti è nota, quanto la sua indecisione e debolezza d'animo.

L'INTERVENTISMO E MUSSOLINI

    La romagnolesca bellicosità che di fronte alla guerra si risvegliava, silenziosamente cozzava contro gli imparaticci della sua pseudo-coltura e contro i limiti che ancora aveva della sua moralità e del suo carattere; - ed avrebbe durato per un pezzo se dal naldiano "Resto del Carlino", Libero Tancredi, e da altro giornale Giuseppe Lombardo-Radice, non l'avessero obbligato a trarsi d'impaccio ed a cavarsi la maschera.





    Il "forte" Mussolini fu schiacciato dalla irruenza polemica dei suoi avversari, di fronte ai quali cadde come un pulcino; allo stesso modo che cadde di fronte ai suoi ex-compagni che ebbero mille ed una ragioni di schiacciarlo col loro disprezzo, non per il suo interventismo, ma per la sua doppiezza.

    Quel che avvenne dopo questo tempo è anche troppo noto, perché meriti di essere ricordato: lo troveremo documentato nelle memorie di Barrère.

MUSSOLINI CONTRO-LUCE
OSSIA LA FRANCIA NON C'ENTRA

    Converrà alla luce di queste premesse studiare la più recente politica estera italiana: è evidente che la politica di Mussolini nella questione della Ruhr (dato che l'Italia sarebbe a quest'ora al pareggio perché libera dei debiti di guerra se invece di dover dar retta a Poincaré, Mussolini avesse dato retta alla voce dell'interesse nazionale, che lo consigliava di seguire la politica riparatrice dell'Inghilterra consistente nella cancellazione del debiti di guerra) non fu che la continuazione della politica filogallica interventista, e poi fascista, contro Nitti, Sforza e la democrazia vera, fautrice della sola politica estera degna di un Paese uscito vittorioso da una guerra quale l'Europea; - consistente, nella mazziniana valorizzazione delle Nazioni piccole, la cui federazione l'Italia sarebbe stata destinata a presiedere quale arbitra: come risulta dal Patto di Roma che, benché in ritardo, fu non solo il riconoscimento della fondatezza della politica Salveminiana, ma una delle più importanti cause determinanti, e lo sfacelo dell'Austria e, conseguentemente, la nostra vittoria.

    La campagna mussoliniana contro i "rinunciatari" non fu che la prosecuzione della campagna contro i neutralisti; allo stesso modo che prosecuzione di essa è oggi la campagna contro gli anti-nazionali. Tutte non sono soltanto l'espressione della già notata induttilità psicologica, ma benanche della fumosa e romagnolesca scarsa intelligenza mussoliniana, negata a comprendere le questioni, dai vapori sulfurei della passione.





I MERITI DEL BEL TENEBROSO

    Per notare i danni di tale incomprensione, noi dobbiamo cominciare dapprima col rilevare che la dualistica legnosità della psiche mussoliniana passando dal socialismo neutralista il più rigido, all'interventismo intellettualista, scavò in seno alle masse quel solco che poi i bolscevichi riscopersero nel 1919-20; dando il pretesto alla debole reazione fascista ed ai malumori dei piccolo borghesi della media cultura, i quali contro la nuova barbarie proletaria, vollero rivendicare i diritti dell'ingegno, e non riuscirono invece che a far ritornare la barbarie vera, coll'ingrossare che fecero le file dell'esercito nero.

    Noi perciò diciamo che a Mussolini va la colpa degli eccidi avvenuti durante la campagna interventista per lo spirito di faziosità che in essa immise: faziosità che se pure fu voluta dall'on. Salandra (il quale si proponeva di ricavar da essa la giustificazione del suo modo di agire; alla borghesia attonita volendo far credere che l'intervento dell'Italia in guerra - già firmato fin dal 26 Aprile! -- era, oltre che reso necessario dai nostri interessi, divenuto indispensabile per la pressione della piazza), non per questo riuscì meno nociva, in quanto rese necessarie le demagogiche promesse della terra ai contadini e dei fini rivoluzionarii del grande conflitto che doveva essere affrontato per correre in aiuto ai più deboli e della libertà; non doveva durare più di tre mesi, e costare più di un miliardo e mezzo!

    A Mussolini quindi, ed ai salandrini col loro capo in prima fila, va la responsabilità di ciò che fu poi chiamato disfattismo durante la guerra e che in parte condusse i soldati delusi alla sconfitta di Caporetto) e bolscevismo nell'immediato dopoguerra. Per questa ragione Bucco non meno di Bombacci sono legittimi scolari dell'uomo di Predappio.





    Non parleremo invece dei meriti di politica estera per la già detta ragione che conviene attendere la parola di Barrère.

    Noi diciamo ancora che la sua sete di dominio l'ha guidato ad utilizzare tutte le occasioni spremendo dalla realtà tutto ciò che poteva servirgli e rivendicandoselo come suo; creato da lui (abbiamo visto che nella settimana rossa squadre di cittadini s'erano costituite a Bologna, Modena, ecc. per la difesa dell'ordine; potremmo aggiungere che squadre di liberi lavoratori armati apparvero negli scioperi agricoli di Ferrara (1907) e di Parma (1908), da altri è stato notato che le squadre di agrarii esistevano già nel Polesine e nel Novarese allorché i Fasci di combattimento furono costituiti (1919): quale merito ha dunque Mussolini nel confronto dello squadrismo? Quello di averlo avvelenato per utilizzarlo ai suoi fini, non badando né a bene né a male, ma tutto sfruttando dallo spontaneo consenso dei reduci alle convincenti ragioni dell'olio di ricino, dell'incendio, poiché alla sua propaganda d'odio risalgono tanto i 234 (cifra accertata) fascisti, che il qualche migliaio (cifra in via d'accertamento) d'anti-fascisti morti nella disonorante lotta fratricida.

    Aggiungiamo infine che alla sua pseudo-cultura nietzchiana ed individualista risale la colpa di aver ridotto l'Italia a quello che egli vanta come un redivivo Medioevo: soppressione delle garanzie costituzionali per cui la vita ed i beni dei pacifici cittadini sono dati in balia dei ras locali, e la lotta politica è ridotta ad una lotta fra selvaggi; mentre il pubblico denaro è lasciato in balia degli ultimi arrivati, privi spesso d'onestà quanto di titoli per amministrarlo: solo forti di quelli che una pseudo-violenta presa di possesso del Potere ha loro conferiti quali membri d'un esercito d'occupazione auto-autorizzatosi ad amministrare la Nazione secondo il diritto di guerra.





    Vano quindi parlare di normalità con una concezione di tal genere della vita politica; meglio parlare il linguaggio di un antenato di Mussolini: "Guai ai vinti!" e gettare sulla bilancia il pesante sciabolone della milizia fascista.

    Giunti a questo punto ci riteniamo in dovere di rispondere all'obbiezione che, poiché è sorta in noi, crediamo possa sorgere nell'animo dei nostri benevoli lettori: "Ma con tutte queste qualità negative come ha potuto Mussolini risalire dal tozzo di pane carpito a Ginevra ai fastigi supremi del potere?". Essendo già da altri state messe in rilievo le eccellenti qualità di tempista dell'on. Mussolini, noi non possiamo che accettarle e dichiararle vere; aggiungendo per conto nostro ch'egli avrebbe potuto altrettanto che in politica raggiungere il successo in qualsiasi altro ramo dell'attività umana, dove tali doti sono necessarie: nel commercio, nei romanzi d'appendice, p. es., come aveva tentato in gioventù; o nella carriera del teatro come si prefiggeva allorché si mise a suonare il violino; se non proprio nel commercio come si proponeva nei momenti neri di sconforto e di bolletta.

    Dobbiamo concludere che non altre che queste qualità unite ad un particolare fiuto (la sua vantata sensibilità politica), possieda l'on. Mussolini, e che non ad altro che ad un esempio di barrerismo si debba ridurre l'opera politica sua, mentre non ad altro che ad un caso di psicologia va ridotto il suo pensiero?

    Noi saremmo inclini a rispondere senz'altro di si, se non avessimo qualche dubbio sulla efficacia conoscitiva della seconda ipotesi. Non potrebbe, per esempio, trattarsi, anziché d'un caso di psicologia, d'un caso di psicopatologia?

ARMANDO CAVALLI