LA VITA MERIDIONALE
Questioni meridionali
e questione napoletana
Qualche anno fa, e proprio un paio d'anni prima che Renato Fucini morisse, fu molto opportunamente riesumata una delle cose più belle e fresche del Fucini, Napoli ad occhio nudo, che al suo primo apparire (1878) aveva colpito ed impressionato il pubblico come una rivelazione, come il rapporto di un viaggio in terre inesplorate. E la cosa era meno straordinaria di quello che si potesse immaginare.
Napoli ed il Mezzogiorno furono guadagnati all'Italia da Garibaldi, furono cominciati ad esplorare da un gruppo di volonterosi - uomini di studi, uomini politici, uomini di cuore - intorno al 1876, e confidiamo che verranno un giorno scoperti e messi in valore.
Quei primi esploratori sono commoventi per lo slancio disinteressato, con cui risposero al grido di allarme lanciato da Pasquale Villari, in quelle lettere indirizzate al Dina nel 1875, e che divennero poi le Lettere meridionali. Il Villari, emigrato presto da Napoli, in Napoli era però nato ed aveva trascorsi gli anni giovanili. L'esperienza di cose ben presenti alla memoria nei loro particolari, dava a lui un'autorità che pochi altri potevano avere. Egli ebbe il merito di mettere alla luce quei fatti, così come a lui erano noti, e con quel suo stile piano, limpido, ragionevole additare senza sottintesi il sostrato sociale di quei fenomeni. Con quegli scritti il malanno del Mezzogiorno fece ufficialmente ingresso nella clinica politica ed ebbe il suo nome: la questione meridionale. C'era il malanno, e c'era anche il malato. Quest'ultima circostanza è stata troppo spesso trascurata nel fervore di discussioni teoricamente sorprendenti, ma che spiegano però perché dal tempo dei primi "esploratori" del Mezzogiorno attendiamo ancora che scocchi l'ora della scoperta. L'opera del Villari non si fermò alle Lettere meridionali. In quel tempo egli era deputato, e varie volte prese occasione da questa o quella discussione parlamentare per portare alla Camera, e lumeggiare sotto vari aspetti la dolorosa questione che gli stava a cuore, e per invocare l'attenzione del pubblico e i provvedimenti del Governo. L'una cosa e l'altra non vennero presto né in larga misura; ma tra gli uomini nuovi, che salivano sulla scena politica, il Villari trovò consensi e simpatie in quel gruppo di studiosi ed uomini politici insieme, che si raccoglievano in Firenze intorno alla Rassegna settimanale ed in Parlamento sui banchi del centro sinistro.
Ma oltre che l'apostolato del Villari quella che fu detta la "rivoluzione parlamentare" del marzo 1876, già preceduta dalle minacciose elezioni del novembre '74 e suggellata in modo così clamoroso da quelle del novembre '76, contribuirono indirettamente a richiamare l'attenzione sulla questione meridionale, poiché la leva, su cui l'opposizione aveva fatto più forza, era appunto il Mezzogiorno. Da circa duecento collegi, dei quali si comprendeva la deputazione meridionale, non erano mandati alla Camera che cinque deputati di destra!
Spartaco raccoglieva un'altra volta le sue ciurme intorno alle falde del Vesuvio! A pochi anni di distanza dalla definitiva costituzione del Regno, il fermento di miseria accidiosa e di rabbia mal repressa, che già aveva mostrato i tristi segni nel fenomeno del brigantaggio, ribolliva ora minacciosamente. Una folla mescolata e confusa di insoddisfatti di ogni sorta, ma soprattutto di poveri insoddisfatti, strascicava le sue ciabatte dietro le mal note insegne del partito che s'era fatto paladino di tutte le insoddisfazioni, ed agitava in aria i suoi cenci, come in una visione di Callot. Fu uno spettacolo impressionante, che per la prima volta fece comprendere agli uomini che dirigevano la cosa pubblica, ai "Piemontesi" troppo chiusi entro certe formule politiche del liberalismo classico, che le folle semiselvagge del mezzogiorno erano un pericolo reale e vicino per l'equilibrio generale del paese, e che quel pericolo non si poteva sperare che si andasse dileguando da sé, ma reclamava cure intelligenti ed amorevoli da parte del Governo. Se non che la destra apriva appena gli occhi a questa verità che li chiudeva alla vita. Saliva baldanzosa la sinistra, che aveva ottenuta la schiacciante vittoria proprio come vindice di quelle miserie misconosciute. Ma, ahimè! i primi atti di riparazione che credette necessario di fare furono le famose liste di decorazioni, con le quali il nuovo ministro per gl'interni, Giovanni Nicotera, ricompensava le compiacenze elettorali di vecchi amici rivoluzionari e di nuovi amici borbonici.
Si tirò avanti così per altri anni, fino a quando la Corte dei miracoli della vecchia Napoli si trasformò in un ammorbante carnaio, davanti all'Italia atterrita. Occorse il colera del 1884 perché non dico la questione meridionale, ma appena la questione napoletana facesse un primo passo.
Durante quegli anni, a scuotere l'indifferenza ostinata ed egoista, il falso ottimismo dei più, molto valse l'opera amorevole ed assidua del Sonnino, del Franchetti e degli amici che si raccoglievano intorno a loro nella Camera e fuori. Se non che il carattere comune di quel gruppo di uomini politici trasparì fin d'allora in una visione troppo rigidamente schematica di fatti sociali, che, per la vastità del territorio su cui si svolgevano, per le profonde differenze nella vita di ciascuna delle regioni, assumevano caratteristiche peculiari, che andavano studiate con un senso di maggiore assimilazione dei fattori sociali. Il primo studio del Franchetti è intitolato: Sulle condizioni economiche ed amministrative delle provincie meridionali; di fatto, noi sappiamo che il suo campo di esperimenti furono poi per la massima parte le provincie dell'Abruzzo. Poi Franchetti e Sonnino passarono a studiare la Sicilia. Erano certo alcuni elementi molto importanti della questione meridionale, ma non era "la questione meridionale". Purtroppo questo difetto di visione di coloro che per primi impostarono il problema si è perpetuato, con gravissime conseguenze per una retta e sollecita soluzione. Si videro fare i medesimi tentativi su provincie che reagirono in modo tutt'affatto diverso, ed allora caddero le braccia per lo scoraggiamento. Non si vide a tempo e chiaramente, forse non si vede ancora dal gran pubblico, che non ha un'esperienza diretta, che, per essere esatti, non esiste una "questione meridionale", ma ci sono alcune svariate questioni - economiche, sociali, morali - che si riferiscono a questa od a quella parte del Mezzogiorno d'Italia.
Così nel libro del Fucini non appaiono che alcuni lati della "questione napoletana", una delle varie "questioni meridionali", risolta oggi in parte dai grandi lavori operati nel ventennio tra il 1890 e il 1910, allo scopo di mettere la città nelle condizioni igieniche indispensabili per una popolazione civile. Non bisogna illudersi: quello che si è raggiunto è ancora il minimo richiesto dalle regole dell'igiene. Le grandi arterie stradali, che oggi occupano il suolo, dove si ammucchiavano i melmosi formicai umani dei "fondaci" di "Basso porto", queste grandi arterie, dove oggi ride il sole e scampanellano i tramvai in corsa, sono tuttavia degli altissimi paraventi, dietro i quali si vedono profilare nell'incerta luce i budelli tortuosi, pavesati di stracci, che aspettano invano un'ora di sole e distillano pazientemente la loro miseria. Tuttavia può dirsi che il libro del Fucini, come "quadro impressionistico" abbia un valore quasi completamente storico. Non ci sono più certe topaie della vecchia Napoli - topaie nel vero senso, perché abitate più dai topi che dagli uomini, che vi facevan la parte degli intrusi -, come certe forme bestiali di povertà che il Fucini ci descrive, come non ci sono più quelle fosse pestifere del vecchio camposanto dei poveri, la cui descrizione è una delle più belle e più commoventi pagine d'arte che il Fucini abbia scritto.
C'è un breve scritto oramai seppellito tra i monti di carta, che corrono sotto il nome di Alessandro Dumas e che forse varrebbe la pena di rileggere per intero. Il Dumas, venuto a Napoli insieme con Garibaldi, vi dimorò per circa un anno, facendo un'attiva opera di propaganda liberale: fondò e diresse il giornale L'Indipendente, che combatteva fieramente i resti del partito borbonico; fu talvolta consigliere - non sempre buono - di Garibaldi, durante la dittatura; stette per farsi nominare direttore del Museo di Napoli, se certe strane, rumorose manifestazioni di piazza di inequivocabile eloquenza napoletanesca non glielo avessero impedito. In fondo fu ospitato abbastanza bene e con alquanta larghezza dalla città di Napoli. Questo non gli impedì però di lanciare, poco dopo la sua partenza, una specie di pamphlet intitolato: Le fléau de Naples. Il flagello di Napoli è la mendicità. Napoli è un paradiso, ma i poveri di Napoli la rendono un Inferno. Voi vi trovate al balcone dell'albergo, ad estasiarvi del mare e del cielo, sentite un mormorio confuso... "Vous baissez les yeux et vous voyez une dizaine de pauvres vous tendant qui un moignon de bras, qui un reste de jambe, qui un débris de chapeau". Gettate una moneta: si precipitano all'assalto. Il più forte la strappa agli altri, che ne reclamano un'altra, con un baccano infernale "et ce tout hideux grouille, se contourne, s'enlance, se groupe, s'isole avec de telles contorsions, que vous avez une idée anticipée de la fameuse Géhenne". In una gita a Posillipo "A la Villa Barbaia la route monte, votre cocher met les chevaux aux pas. A l'instant même, sort des excavations de la montagne un peuple de troglodytes. Ce sont des enfants de l'âge de trois ans à l'âge de douze. Les plus jeunes de trois à cinq ans, font semblant de pleurer. Les autres, de cinq à sept ans, vous crient qu'il n'ont pas mangé depuis la veille. Les autres, de sept à neuf ans, jouent des castagnettes avec leur menton. Les plus grands enfin font la roue".
C'è purtroppo del vero anche oggi; ce ne era molto di più nel 1860, e c'è una visione più chiara della povertà, che al Fucini parve quasi tutta una povertà, diciamo così, naturale, mentre in molti e molti casi si trattava di povertà professionale.
Aveva ragione il Villari, nel 1875 e nel 1884, di dire: - Non andate tanto pel sottile. Lo sappiamo che il problema è complesso, ma cominciamo ad attaccarlo. Puliamo, allarghiamo, diamo aria. Poi si passerà ad altro. Ma è pur vero che la parte fondamentale del problema napoletano non s'intaccava col piccone, perché era di natura non tangibile.
Il problema napoletano è problema eminentemente morale, e su questo terreno siamo poco meno che nelle condizioni del 1875. A vedere questa piaga oscura non bastavano i pochi giorni di visita del Fucini, tanto più che gli sfuggì anche un elemento importantissimo di giudizio.
"Sappi dunque - dice nella seconda lettera - che... intendo soltanto parlarti dell'ultima plebe. In un paese dove i quattro quinti della popolazione sono rappresentati da questo ceto, è naturale che un viaggiatore, il quale, come me, non se ne proponga una scopo di studio, non veda altro che quello". Questa era una visione erronea, ed è invece vero che nei tempi passati come nei presenti una numerosissima piccola borghesia, oggi infinitamente più povera del proletariato, costituisce col suo numero, con la sua inadattabilità a lavori più proficui, con la sua deprimente grettezza uno dei fati sempre dolorosi e sempre più urgenti del problema della città di Napoli. Anzi, col progredire del tempo si è visto che mentre il tradizionale lazzarone a piedi nudi è andato a grado a grado scomparendo, assorbito bene o male entro certe prime forme di vita industriale; la piccola ed infima borghesia, che si esaurisce in un lavoro avvilente e sterile tra uffici municipali, aule asfissianti di tribunali, stanze graveolenti di preture o di usurai più o meno decorosi, ha finito per esercitare, per cause storiche differenti, funzioni molto simili a quelle dei clientes romani.
La questione napoletana è sopratutto questione morale; e già ne aveva visto l'intimo senso il conte di Cavour, quando nel suo lucido vaneggiamento, sul letto di morte, disse ad un tratto: " - l'Italia del settentrione è fatta... ma vi sono ancora i Napoletani. Oh! vi è molta corruzione nel loro paese... Bisogna moralizzare il paese, educar l'infanzia e la gioventù... ma non si pensi a cambiare i Napoletani coll'ingiuriarli. Essi mi domandano impieghi, croci, promozioni: bisogna che lavorino, che siano onesti ed io darò loro croci, promozioni, decorazioni; ma sopratutto non lasciargliene passar una: l'impiegato non deve nemmeno essere sospettato. Niente stato d'assedio, nessun mezzo da governo assoluto. Tutti son buoni di governare collo stato d'assedio. Io li governerò colla libertà..."
Chi ha raccolte le ultime parole del conte di Cavour?
MARIO VINCIGUERRA
Note all'appello
In breve - a rapidi tocchi - la unificazione del '60 credè fondere parti, molto dissimili, che erano state sempre mondi diversi; ne venne fuori un non buon intiero, che rappresentò, in realtà, più la somma dei mali, che dei beni di ciascuna parte. Qui, da noi, le nuove idee, i nuovi indirizzi furono, veramente, di una minoranza, di una élite, cui s'uní un buon numero di "orecchianti", più o meno incoscienti e, spesso, veri "profiteurs", come, del resto, purtroppo, sempre avviene in questi cambiamenti.
Il regime borbonico, con tutti i suoi difetti, talvolta financo eccessivamente criticati, era riuscito a formare un "sistema", un "equilibrio" economico-sociale-politico-amministrativo. Il feudalesimo non era stato, da noi, annientato, superato, come "fatto", né con le idee della Rivoluzione francese, né con l'opera del dominio francese; è il guaio delle "rivoluzioni", in contrasto con la necessaria "evoluzione"; se all'uomo non si può addossare quel vestito che si voglia, molto meno gli si possono imporre regimi, anche perfetti... sulla carta - idealmente. L'ordinamento unitario, senz'adeguati... grani di sale, peggiorò le cose. Il feudalismo continuò a vivere di "fatto"; cambiò la nomenclatura: i Baroni si chiamarono "Deputati", con i relativi feudi e vassalli majores et minores; ecc...
La nostra borghesia, in massima, era stata assuefatta ad un "pacifismo", o meglio "quietismo", "immobilismo", una specie di nirvana, anche economico; "quieta non movere"... per paura di peggio. Aggrappata ad una terra già esausta e poco coltivata, manteneva il suo grado economico-sociale a furia di sacrifizi, del più rigido piede di casa; niente slanci, niente alee: tradizionalismo rigido.
Il popolo era plebe. - La nobiltà, generalmente, ignorante, bigotta, vuota, sciocca, misoneista. Non mancavano élites dell'ingegno, della coltura, quasi sempre nella media borghesia, che manteneva acceso, come le antiche Vestali, il fuoco della vita spirituale fra l'oscurantismo, imperante anche come mezzo di governo.
Coltura prevalentemente speculativa, filosofica. - Esisteva una certa ricchezza, ma morta; tirchia, non operosa-dinamica, non fecondatrice, non motrice di progresso, di novità.
Noi di quaggiù eravamo, quindi, dei sei o sette vari popoli italiani fusi nel '60, fra i meno preparati al "novus ordo" e fummo nella nuova "società" formatasi, fra i più deboli, e come tali subimmo, naturalmente, la sorte di tutti i deboli; fummo come conquistati, sottomessi, sfruttati; ecco, comincia da qui... la quistione meridionale.
Né è a trascurarsi il coefficiente geografico, favorevole pel Nord, a contatto di popoli più progrediti; sfavorevole per noi quasi isolati dal mare e, al di là di esso, popoli meno civili del nostro.
Una miniera davvero preziosa per conoscere e comprendere le cose nostre prima del '60, specie la nostra mentalità, sono i verbali del Parlamento napoletano del nonimestre '20-'21 e le correlative discussioni nella "stampa" coeva.
Per me - e non da oggi - una delle quistioni fondamentali per questo Mezzogiorno, il punto centrale del problema economico, e che è poi buona parte della "Questione meridionale", è il dazio sul grano. Questo dazio che dovrebbe rappresentare la contropartita del protezionismo industriale del Nord, per noi così esiziale, é, secondo me, il nostro cancro. Esso benefica, a modo suo, tutte le altre parti d'Italia, forse anche più di noi; ma noi lo paghiamo con le più dure conseguenze pel nostro sviluppo economico-sociale ed anche politico. Bisognerà uscire da queste condizioni di cose, che finisce col toglierci ogni più naturale proficua libertà di movimenti; come? - è quanto scriverò di proposito. Per tutto il resto, o per gran parte del resto, la ricetta vera è, per noi, una sola: laisser faire, laisser passer - fisiocraticamente - perché tutte le volte che Governo e Politica vi han messo il piede, ahinoi!, sono stati come l'ugna del cavallo di Attila...
Non posso finire questo rapido sunto senza rilevare che questo nostro popolo, sempre il più sfruttato in ogni senso, che non ha conosciuto finora i trionfi del capitalismo, è pur rimasto nella sua onorata povertà la più sicura, abbondante riserva morale della Nazione; verità non campanilistica, che, d'altronde, non è difficile dimostrare, provare; ma... ho già scritto troppo.
GIOVANNI CARANO-DONVITO
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