DEL PERFETTO TIRANNOLettera di Lorenzo Vecchio De' Medici a Benito MussoliniLorenzo de' Medici, miracolo di saggezza giolittiano nel Quattrocento, ma ingenuo per i nostri tempi, mandò questa "lettera aperta" all'on. Bottai, credendolo non illetterato. Senonché l'on. Bottai, fosse la fretta, fosse la magia del suo mussolinismo, attributi anch'egli lo scritto a Lorenzino e temendo di venirne poi accusato come amico dei tirannicidi Cesare Forni e Libero Tancredi si indusse a cestinarla. Noi l'abbiamo avuta sotto vincolo di segreto da Curzio Suckert, che si sta frego le mani per la gioia di aver fatto un dispettuccio al suo padrone Mussolini. Col rispetto e coll'amore nostro per la storia ripariamo l'errore del buon Bottai e diamo per una volta tanto posto nella Rivoluzione Liberale ad una prosa revisionista ringraziandone l'onesto filosofo dell'Altercazione. Magnifico Signore, Da tempo avevo divisato scrivere alla Magnificenza Vostra, per rivolgerLe qualche rispettoso consiglio sul modo di governare lo Stato e di tenere i popoli soggetti: e tardai a ciò fare, solo perché temetti di essere da Voi non conosciuto e considerato. In uno infatti dei Vostri discorsi, (quale non ricordo, perché tanti ne pronunciaste), Voi mi confondeste con un mio tardo e indegno nipote, attribuendo a quel Lorenzino o Lorenzaccio, uccisore pazzo e inconsiderato del suo Signore, una certa canzone del Trionfo di Bacco e di Arianna, che, per dare spasso nel Carnasciale a me ed ai concittadini miei, in un'istante di ozio improvvisai. Perché, Magnifico Signore, io mi dilettava di cotali bagatelle, e molte ne composi, che assai piacquero allora, ed ancora oggi a qualche rado amatore recano alcuna dolcezza; come parimenti mi dilettavo di lingua greca e latina e di arti belle, molto allietandomi la vista delle meravigliose opere dei nostri antichi, e di quelle ancora, che ad imitazione di esse, gli artisti miei amici dipingevano e scolpivano: la Vostra Magnificenza invece non è usa a perder tempo in tali vanità, indegne per certo di un tanto Signore, e può onoratamente vantarsi di non aver aver mai posto piede in un museo, e di non aver mai lette le inutili favole di questi cianciatori, di cui io stoltamente mi compiacevo. Temevo dunque allora di giungervi sconosciuto, ma so che Voi avete ultimamente con somma attenzione letto e meditato gli scritti di Nicolò Macchiavelli, Fiorentino, uomo, che, sebbene avverso alla mia casa, ebbe ingegno non piccolo, e animo degno di signoria, il quale nelle sue Istorie Fiorentine, parla alcuna volta di me e dell'opera mia: laonde, non potendo io credere che la Magnificenza Vostra si sia appagata, come taluno insolentemente sussurra, nel leggere il solo opuscolo "De Principatibus", ma ogni cosa abbia diligentemente considerato credo oramai di esserVi noto abbastanza per ardire di sinceramente parlarVi. Ancora mi ratteneva il timore di non essere da Voi inteso: che, se io avessi adoperato lo stile solenne, che costumavisi ai miei tempi per le eccelse cose, Voi, che non sciupaste le Vostre preziosissime ore nel leggere le antiche scritture, non avreste forse compreso la parola: e se Vi avessi scritto nel nostro dialetto fiorentino, come usavo cogli amici e coi famigliari, Voi, che in altra terra siete nato, ugualmente non avreste inteso. Ho fatto perciò accurato studio delle Vostre gazzette, e mi vo sforzando pazientemente di imitarle e di seguire il loro stile, tanto dal nostro disforme, e la lor lingua, strana e inconsueta per orecchi fiorentini: e, se non riuscirò forse interamente a dismettere il mio vecchio costume, almeno spero Vi sarà la mia scrittura per la maggior parte chiara ed aperta, non avendo Voi alcuno che possa in tali faccende aiutarVi. Posso così finalmente compire il mio vecchio desiderio, e palesarVi che ho seguito con interesse e con simpatia il Vostro sforzo per farVi tiranno d'Italia. Era tempo che in questo Paese, rovinato dal popolare dominio, si instaurasse da qualche uomo degno e virtuoso, un saggio Governo. Spiacquemi, per dir vero, sin da principio che Voi Vi foste impadronito della pubblica cosa con mezzi violenti e straordinari: ma anche altri che similmente per scelleratezze pervennero al principato, seppero poi conquistarsi l'animo dei loro soggetti. Bisognava, Magnifico Signore, che Voi faceste dimenticare con quanto sangue e uccisioni infinite Voi eravate al potere pervenuto, e che, fingendo di deporre le armi, appariste amico sincero del popolo. Io vidi alcuna volta la Vostra Reverendissima effigie, e molto mi contristai, veggendoVi sogguardare torvo, con feroce cipiglio: ai popoli bisogna mostrare faccia benigna e sorridente; non minacciare, ma spargere dolci e melate parole; non tener desto con le continue percosse il malvagio loro spirito di rivolta, ma soavemente addormentarli, proprio come Mercurio assopì Argo dai cento occhi. Perché Voi mi parete aver dimenticato che questi Vostri Italiani, come i miei Fiorentini, erano genti adusate allo scelleratissimo stato di libertà; e con sí fatti uomini vuolsi altro consiglio che coi consueti a servire. Puossi con la forza tenere un popolo da secoli schiavo, come quei barbari di Russia, non una Nazione, usa a cianciare di libertà, e bramosa di governarsi da sé medesima. Conveniva, Magnifico Signore, che come io feci, lasciaste loro l'illusione di essere d'ogni cosa padroni, e amorevolmente li conduceste al Vostro volere. Pure avevate accanto a Voi accorti e moderati consiglieri, che sempre andavano dicendoVi di attenervi alle leggi, che sarebbe stato saggio consiglio, e non sareste precipitato come oggi siete. E Voi non li ascoltaste, e fidaste in certi uomini inconsiderati ed eccessivi, che, col loro continuo minacciare e battere e uccidere gli avversari, Vi fecero apparire ai Vostri soggetti Crudele tiranno. Ora un tiranno può essere crudele, ma non deve mai apparire. Bisognava che nessuno dei Vostri nemici fosse pubblicamente battuto ed ucciso, solo bisognava che la giustizia li punisse quando con le loro congiure minacciassero la Vostra sicurezza, e che per il loro odio verso un Signore reputato dalla maggioranza buono, naturalmente cadessero in disgrazia alla moltitudine. Io mai non colpii i rivali miei, ma li feci apparire nemici della Città e del popolo Fiorentino, che tanto li odiava, che io stesso più non avrei saputo. E potevate lasciarli liberamente parlare, che mai le parole non nocquero ad alcun signore: eravi nei miei ultimi anni uno stoltissimo frate, certo Jeronimo Savonarola il quale andava dal pulpito cianciando contro di me, e voleva io ridonassi a Firenze il suo libero stato: ora io nulla feci contro di lui, ed egli inutilmente gridava, ché il popolo più volontieri alle mie feste che alle sue prediche accorreva; e se voi aveste lasciato che questi Vostri piagnoni andassero per le vie e per le piazze a piangere ed a lamentare quei loro vani nomi di libertà, il volgo persuaso di essere felice e sovrano avrebbe riso di loro, e finalmente li avrebbe lasciati predicare al deserto. Bisognava non con la Milizia reggersi, ma introdurre in tutte le cose dello Stato uomini fidati, che facessero e disfacessero a Vostro modo, e paressero governare per il bene della nazione Italiana. E Voi non dovevate tanto mostrarvi, ma tenervi nascosto e silenzioso, ed apparire piuttosto privato cittadino che signore. Spesse volte Vi incamminaste per questo retto cammino, ma subito deviaste per falsi sentieri. Specialmente, molto mi rallietai, quando, tolti cinque uomini Vostri, li eleggeste a scegliere i nomi di quegli che dovevano entrare nel Consiglio maggiore o Parlamento, e fingervi di rappresentare il volere della Nazione. Voi saprete essere stato questo mio consueto modo, usando io a cinque accoppiatori affidare l'imborsamento degli eletti dal popolo: e così credevano gli sciocchi di governare, e di questa illusione si appagavano, mentre io facevo ogni cosa a mio piacere. Potevate Voi avere così un sicuro consiglio: non era allora necessario, ed era dunque stolto, permettere che seguitassero le battiture e le uccisioni e le altre innumerabili offese: ma dovevate Voi chiudere in carcere questi Vostri seguaci, e preferire il consenso della moltitudine alle armi dei pochi. Eppure, Magnifico Signore, non è ancora troppo tardi: liberateVi dai malefici compagni, richiamate i Vostri amici veri, quelli, che oggi vanno anch'essi gridando contro di Voi: mi dicono che volete cangiare nome alla Vostra parte, fatelo e cangiatene tutte le sembianze, deponete le offese, lasciate che lo Stato colpisca esso i Vostri avversari, fate giustizia, e molti ritorneranno a Voi, perché il vulgo è stolto e dimentica e crede: quelli che Vi sostennero ieri, Vi sosterranno oggi, perché sanno che a quei Vostri nemici non saranno mai cari, mentre da voi ancor tutto possono attendersi: lasciate che questi fantocci si illudano di governarVi, e colla Vostra scaltrezza tirateli sempre al Vostro volere. Fate quanto Vi dico, Magnifico Signore, e sarete ancora in tempo a salvare Voi e lo Stato. Oggi è il momento dei rimedi straordinari; sospendete ad una forca in una pubblica piazza qualcuno dei vostri più fieri seguaci, quel Roberto, in primis, che tanto ha fatto per rovinarVi, credendo di servirVi, ristabilite le leggi, e Voi sarete padrone d'Italia. Fate, Magnifico Signore, che io veda presto una Vostra immagine in atto dolce e benigno, spirante amore verso i popoli soggetti, sorridete, e imparate a tacere, o almeno pensate a lungo prima di parlare, andate per vie coperte e tenebrose, ed io sarò sicuro delle cose Vostre. Che se Voi seguirete invece ad apparir tiranno, poco Vi resta di signoria: e che farete allora? Io almeno avrei trovato qualche consolazione nella poesia e in simili baie: ma a Voi, che di tali cose degnamente siete schivo, non resterà che ritirarVi in un convento a meditare sopra i falli Vostri. Noia Vi spiaccia, Magnifico Signore, se ho ardito rivolgerVi questi consigli: me li ha ispirati sincera devozione e desiderio di vedere Voi amato e potente, e il mio popolo saggiamente governato da un buon Signore, che sappia dominarlo, lasciandogli quell'illusioni di libertà, alla quali, per sua naturale stoltezza, porta cotanto amore. Sono della Magnificenza Vostra: L'umilissimo servo LORENZO DE' MEDICI Cittadino Fiorentino Ex inferis. Anno Domini MCMXXIV |