COMMEMORAZIONE
ANTICIPATA DEL DUCE

    E' opinione assai diffusa che i nostri Comuni abbiano avuto origine e derivino dalle invasioni barbariche. Secondo l'opinione di autori molto stimati l'ordinamento feudale avrebbe determinato il formarsi di essi, che sarebbero stati niente più che il territorio dell'imperatore domato al cattaneo, al conte cioé ed al capitano, per questo solo fatto tenuto a fornire all'imperatore determinate contribuzioni pecuniarie e un determinato numero d'armati in caso di guerra.

    Sempre secondo i ricordati autori da questi armati sarebbero poi nate le milizie cittadine dei Comuni, nel tempo stesso che dai cittadini, nell'assenza del Conte chiamati a reggere la cosa pubblica, sarebbero nati i primi parlamenti locali, i primi Consigli comunali.

    Con tutto il rispetto dovuto a coloro che riconosciamo per maestri ci sia permesso osservare che, secondo noi, non è esatto dire ciò, o che per lo meno, se a molti Comuni può convenire la derivazione descritta, a molti altri non può certamente convenire: e sono questi i Comuni esistenti anteriormente alle invasioni, vale a dire i Comuni Romani.

    I Comuni italiani hanno verosimilmente avuto una doppia origine, di cui una può essere riferita ai Romani e l'altra agli imperatori oltramontani, con questa differenza che i Comuni d'origine romana erano nella più parte dei casi situati in posizioni salutari e privilegiate riguardo alle grandi vie di comunicazione e per ciò più popolati, ricchi e colti, mentre gli altri erano nella più parte situati in zone anticamente inabitate per florescenza di selve, o per invasioni di acque, e facenti parte del patrimonio demaniale, riguardo ai quali è facile osservare che gli elementi inferiori delle popolazioni viciniori, ladri, banditi e fuori legge di ogni risma delle città più antiche sono stati i primi abitanti, mentre dalle cattive condizioni etniche è facile arguire la miseria di quei luoghi impervii e la necessità di una difesa contro i numerosi predoni che li infestavano.

    I piccoli Comuni feudali erano quasi minuscole colonie gravitanti attorno ai grossi Comuni romani, dentro le mura dei quali venivano esclusivamente fabbricati gli oggetti necessari alla vita ed alla produzione: calzature, stoffe, vanghe, aratri, ecc.





    Un assieme di questi vichi era la Bassa Romagna che i Conti di Cunio di Donigallia e di Zagonara dominavano dall'alto dei loro merlati castelli, e non altro forse che un vico romano era anche l'antica Mazafrena che fu poi chiamata (per la produzione in essa preponderante dei cotogni), Cotignola, e che è rimasta celebre per aver dato i natali al grande capitano di ventura Muzio Attendolo Sforza, della cui morte è ricorso in quest'anno (1924) il centenario.

    Non riesca discaro ai nastri lettori il sentirne parlare, giacché l'argomento è quanto mai di attualità!

    Da Giovanni di Muzio Attendolo e da Elisa Petroncini nacque quinto d'una serie di 21 fratelli il 19 giugno 1369, a quanto sembra, Muzio. Tanto il padre che la madre erano facoltosi cittadini di Cotignola, proprietari di terre, e di case, e niente affatto contadini come molti storici dicono.

    Tanto Muzio che gli altri fratelli tutti, maschi e femmine, riceverono dalla madre una severa educazione militare, nella vasta casa sempre rigurgitante d'armi e d'armati e risonante delle gesta dei famosi capitani di ventura che allora scorazzavano la Penisola, l'inglese Giovanni Acuto e il romagnolo Alberico Conte di Cunio e di Barbiano, resosi celebre in tutta Italia per l'appello che a lui fece Santa Caterina perché corresse a difendere la fede contro lo straniero, e per la strepitosa vittoria ottenuta a Marino con truppe esclusivamente italiane (30 aprile 1379) sulle truppe brettoni e guascone, in riconoscimento della quale fu da Urbano VI investito del titolo di Cavaliere di Cristo e donato d'una bandiera bianca con sopravi ricamata una croce rossa e la leggenda: - Italia liberata dagli stranieri -

    E' facile immaginare quali risonanze avessero tali gesta nella faziosa famiglia dei Attendolo, sempre in rissa con la rivale famiglia dei Paolini, e di quali smaglianti colori si colorissero nella mente infantile del piccolo Muzio, sin da allora sempre primo quando c'era da menare le mani.

    Non desta perciò meraviglia la fuga che egli appena dodicenne nottetempo compì dal tetto paterno per arruolarsi quale soldato di ventura agli ordini di Alberico, il suo grande e leggendario contemporaneo.





    La nota leggenda che a questo proposito ne è nata non solo è falsa, ma è grottesca, poiché non è possibile credere che un bambino di dodici anni potesse lavorare di zappa; molto più poi lo Sforza che apparteneva ad una famiglia ricca e nota di cittadini.

    Merita però di essere riportata, perché bella, quantunque non originale, poiché in Paolo Diacono ve n'è una simile a proposito del matrimonio di Autari re dei Longobardi con Teodolinda, come giustamente ha fatto osservare l'illustre monsignor Lanzoni nel discorso commemorativo tenuto il 15 luglio 1924 a Cotignola.

    Ma eccola nella prosa del Ricotti:

    "Passavano un giorno alcune squadre di Boldrino da Panigale presso a Cotignola in Romagna, e scorgendo nei campi un garzoncello intento a lavorare colla manca le non molte terre paterne, l'addimandavano della via. La speditezza delle costui risposte avendone fatto osservare la gagliardia delle membra e la finezza dell'aspetto, da buoni camerati il richiesero di arruolarsi con loro. Il villanello dubbioso ed impaziente di consultare fra sé quel partito, abbandonò alla sorte di chiarirlo: detto fatto, lancia la marra fra gli spessi rami d'una quercia, e seco stesso fa patto di prendere l'armi quand'essa (non) ricadesse. La marca (non) ricadde, e Muzio Attendalo (tolto segretamente di casa un cavallo) seguì alla guerra in qualità di ragazzo un uomo d'arme spoletino detto per soprannome lo Scorruccio".

    Ciò accennato si può dire che la carriera militare dello Sforza non si differenzia da quella degli altri capitani di ventura, consistente nella più parte dei casi nel passare da un padrone all'altro; e nel saccheggiare i villaggi e le città su cui venivano ad abbattersi, pericolo non meno grave della peste cui i loro eserciti erano quasi sempre apportatori e della morte che quasi sempre accompagnava le loro vittorie.





    Quindi, in quanto strumenti in mano dei signori che li adoperavano pel loro interesse, più che alla storia essi appartengono alla cronaca, e solo raramente qualcuno di essi assurge alla dignità della prima, come il celebre ai suoi tempi Alberico da Barbiano che primo assoldò in Italia un esercito di italiani, e primo dopo molti secoli vinse contro gli stranieri, conferendo alle armi italiane un qualche pregio e all'idea di indipendenza allora rappresentata da Urbano VI e da Santa Caterina, una realtà; che non per colpa sua, tornò ben presto a dimostrarsi fugace, come il figlio dello stesso Muzio Francesco, che con audacia pari all'astuzia riuscì a sposare la figlia del Visconti ed a farsi proclamare dal popolo duca di Milano dopo la morte dello suocero, Filippo Maria Visconti, segretamente caldeggiando l'idea di farsi proclamare re dell'Alta Italia, dopo che per merito suo e del Visconti, ricordato, le piccole Signorie locali erano state inghiottite dalla maggiore signoria milanese.

    Il vasto movimento delle Compagnie di ventura (combattentismo) impostosi dapprima come un fenomeno di disoccupazione e di polizia, occasionato dalle invasioni straniere e dalle fazioni (Fasci di Combattimento, squadrismo), finì per assumere l'importanza d'un fatto politico allorché col Barbiano, collo Sforza, e con Braccio di Montone ed altri minori, diventò febbrile ricerca d'una signoria e d'un dominio e con Francesco Sforza e le due regine Giovanna I e II di Napoli, tentativo di dar una qualsiasi unità all'Italia (Marcia su Roma). Inconsapevolmente le Compagnie di ventura ebbero la missione di proseguire l'interrotta opera del ghibellinismo, rappresentando, di fronte al papato, che con Urbano VI e Santa Caterina, come abbiamo detto, era l'esponente dell'indipendenza italiana contro lo straniero, il laicismo e l'insofferenza, e la schiavitù di fronte agli usurpatori ultramontani (Missione Barrère - Ruhr).

    Non è senza significato il fatto che proprio da un discendente dello Sforza, Lodovico il Moro, duca di Milano, sia stato chiamato in Italia Carlo VIII, dietro al quale, come è noto, sono venuti gli altri stranieri che per circa quattro secoli hanno tenuta in soggezione la nostra patria.





    Sullo sfondo sanguigno e turbato di questa epoca noi dobbiamo collocare lo Sforza, che fu chiamato tale da Barbiano per la sua petulanza e prepotenza, e che dei suoi contemporanei se ebbe al sommo i difetti, non ebbe che scarsamente alcuno dei rari meriti, se ne togli il coraggio e l'audacia che possedé in gran copia.

    Così anche lo Sforza che i contemporanei chiamarono villano perché violento, ignorante e rozzo (sapeva appena scrivere il suo nome) e che pure macchiò la sua coscienza con concubinaggi, furti, uccisioni, tradimenti (è rimasta celebre l'uccisione a tradimento di Ottone Terzi, tiranno di Reggio, il cui cadavere fu a Modena dato in pasto ai cani) e stupri, ebbe a sua volta tratti umani e degni di cuore come allorquando per invito del Gran Siniscalco della Regina Giovanna, strinse di nuovo l'amicizia con Braccio di Montone suo antico compagno d'armi sotto il Barbiano (chi parla di Zinowieff, e che cosa c'entrano la Bessarabia o la discesa dei comunisti dall'Aventino?), a lungo soffermandosi a discorrere delle passate gesta di gioventù; non senza rigare di pianto quelle sue gote glabre ed ossute; e come allorquando nel guado del fiume Pescara alla foce per salvare il paggio che lo seguiva, travolto dalle onde furiose del mare, lo Sforza allungò per soccorrerlo il braccio poderoso, ma essendoglisi impennato il cavallo, anch'egli precipitò nell' acqua per scomparire per sempre, prima che il figlio Francesco potesse correre in suo aiuto, e senza che la pesante armatura gli permettesse di tentare un salvataggio qualsiasi.

    Questo avvenne il 4 gennaio 1424, e l'avversario che gli stava di fronte era appunto Braccio di Montone, il quale dicesi che alla morte dell'amico-nemico rimanesse molto triste e seco stesso piangesse, forse pensando che altra fine doveva spettare all'illustre suo rivale.

ARMANDO CAVALLI