Note economicheVINO CAFFÈ E ZUCCHEROAi consumatori di vino, prima delle recenti modificazioni, si domandava a vantaggio degli enti pubblici un sacrificio che forse in complesso non superava gli 800 milioni; oltre qualche decina quale tributo privato a favore dei contraffattori di vino all'interno dei comuni chiusi. Così per gli acquirenti si rincarava la spesa di un importo tra un ottavo ed un decimo del prezzo medio anche in annate di abbondanza: si toccava il quinto solo per le qualità peggiori vendute nelle più disastrose condizioni per il produttore. Con il dazio consumo si chiede ancora meno della metà: in complesso il peso restava tenue, non andando quasi mai al di là del 60% e riferendosi ad un consumo secondario, non indispensabile poteva e doveva essere conservato. Con vantaggio degli stessi viticoltori, per la graduale scomparsa dei vigneti marginali. Si pensi invece ai compensi che il ministro delle finanze ha dovuto cercare, a riparo della falla aperta con la sua rinuncia improvvisa ed assoluta. Sugli zuccheri l'imposta di fabbricazione viene rialzata di 100 lire per quintale portandola a ben 400: né scherza l'imposta sul consumo del caffé che, sommata al dazio doganale giungeva a 1000 lire, mentre ora ne chiede altre 200. E si tenga conto del dazio comunale, che può toccare le 25 e le 100 lire rispettivamente. Uno sguardo alle quotazioni nei mercati internazionali ci dice che lo Stato preleva un balzello pari al 150% e più del valore dei due prodotti, con l'aggiunta del comune anzi si oltrepassa il 160%: la pressione è insomma tra le sedici e le trentadue volte più intensa che non sul vino. Siamo infinitamente più di alto del punto che faceva inorridire i viticoltori, che però hanno saputo strillare così forte da vincere le resistenze dei custodi del bilancio, con un danno per i consumatori di una bevanda che non merita certo la persecuzione di cui è vittima, e non senza ripercussioni sulla stessa agricoltura, la quale potrebbe non veder aumentare di pari passo alla produzione anche la domanda di zucchero (e quindi di bietole) e di frutta da confezionare in marmellate e canditi. Per fermarci al caffé, si noti come questo venga colpito dal dazio doganale all'importazione e da una imposta sul consumo, riscossa anch'essa al confine contemporaneamente al dazio e dagli stessi funzionari. Resta stupito il laico alla scoperta di tre tributi identici, che vogliono giungere allo stesso risultato, e che differiscono quasi soltanto nel nome: la maraviglia si trasforma in amarezza non appena intuisca la ragione dello sdoppiamento, voluto per mascherare certe deviazioni nei rapporti internazionali. Il dazio doganale può diventar oggetto di accordi in qualche trattato di commercio, col Brasile ad esempio per il caffé: resta vincolato allora e non si può accrescerlo senza un nuovo accordo bilaterale alla scadenza della convenzione. L'ostacolo però può girarsi col predisporre in aggiunta un altro tributo, inventato dalla fertile fantasia dei burocrati: con non troppa correttezza verso i paesi che, per ottenere da noi un ribasso di quel dazio doganale ci accordarono delle riduzioni in alcune voci della loro tariffa, ma vedono poi drizzarsi nuove paratie stagne, battezzate con nomi diversi mediante un giuoco di prestigio molto semplice. Espediente molto simile a quello di chi, dopo aver rubata un'automobile, cambia colore alla carrozzeria e la modifica con aggiunta di oggetti esterni. Dalla corretta onestà del ministro delle finanze si dovrebbe attendere un progetto di legge, da presentarsi al più presto al Parlamento, per cancellare questo mezzuccio non elegante. Non lascia senza dubbi nemmeno il rialzo di 100 lire nell'imposta di fabbricazione dello zucchero. L'andamento favorevole dei prezzi delle bietole ha spinto con crescente intensità a questa coltura, e si costruirono parecchie fabbriche nuove. Si nota uno sviluppo rapido, ed un consumo crescente mentre i rifornimenti dall'estero . . . . . . . . . . . . . .
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si riassottigliano fino a tenui proporzioni, dopo essere stati ingenti nel 1919 e nel 1921. Ora si teme anzi che l'industria nazionale venga a mettere in vendita delle quantità di zucchero crescenti con ritmo più rapido della stessa domanda interna: la quale è ben suscettibile di espandersi lontano ancora dalle dimensioni cui giungono i mercati anglosassoni, e la maggior parte di quelli europei. Ma non riesce propaganda opportuna il rincaro, adatto a trattenere piuttosto da più abbondante impiego. Anche da questo lato non appar dunque favorevole alla stessa agricoltura la serie dei provvedimenti cui si ricorse nel settembre: il preteso vantaggio per l'industria vinicola minaccia di venir scontato da altri ceti rurali. Di rimbalzo potrebbero soffrirne pure i produttori di frutta da trasformare in marmellate, canditi e gelatine, con larghe aggiunte di zucchero: pagare un sesto di più una materia prima così importante non può lasciarli tranquilli, almeno per le vendite eseguite nel mercato interno. Né è del tutto approvabile la parziale esenzione concessa a loro favore - tranne ove fosse stata un semplice rimborso dell'imposta ove esportino la propria merce - in quanto servono ad un impiego ben più voluttuario di molti altri in cui lo zucchero entra: prima di uno sgravio per i compratori di torte e di confetti si doveva pensare a chi addolcisce il latte per la modesta cena. Si stuzzicano intanto appetiti pericolosi. Come si parla di crisi vinicola così qualcuno avverte una crisi zuccheriera, e con uno scarto logico avanza pretese di ripristino per il dazio protettivo sospeso dal maggio del 1923. Il sofisma si scopre subito: se l'offerta eccede già la domanda, e non vi è larga possibilità di collocamento all'estero dove i prezzi sono appena medi, il dazio non può giovare in alcun modo a risanare la posizione. Anzi, se rincarasse il prodotto all'interno, verrebbe a restringe ancor di più le vendite: a meno che nell'intenzione di chi se ne fa paladino vi sia il progetto di tener scarse le vendite all'interno sfruttando del tutto il dazio richiesto, per vendere poi all'estero il di più a sottoprezzo, svolgendo un "dumping" a vantaggio degli stranieri. Politica evidentemente "patriottica". Non necessaria del resto: si può vendere in altri mercati senza operare alcuna svendita, dato che il millantato eccesso della produzione saccarifera in Europa non ha ancora ricondotta l'offerta alle dimensioni del 1913-14: se ne rimane lontani di un quarto. Né riesce maggiormente persuasivo questo altro ragionamento: altre industrie sono protette, perciò va compresa anche la saccarifera, non essendo lecita via di mezzo tra il liberismo intero e la protezione generale, per compenso. Ma proteggere tutti vuol dire non proteggere più nessuno, se non per le differenze che resterebbero piccolissime: e quanto al diritto degli zuccherieri di essere compensati per i rincari loro imposti dalle protezioni concesse agli altri, si pensi che ebbero larghi favori per decenni e decenni. I guai di quest'anno derivano dal cattivo contratto loro strappato dai bieticoltori: saranno più accorti nella prossima campagna. 2. Il confronto tra il peso totale - da parte dello Stato e dei Comuni - di 425 lire per quintale sullo zucchero, di 1300 sul caffé, e di 60 lire al massimo sul vino impone di esaminare la gerarchia degli oneri fiscali sulle bevande. Per tener conto anche del contrabbando, che cresce irrefrenabile ove si lasci un premio molto largo a quanti vi si dedicano. Diventano per necessità elevate le spese di repressione, e troppa gente trova modo di lasciare le vie del lavoro economico diretto, per cercar un guadagno nello svolgere oppure nell'eludere la sorveglianza degli uffici fiscali. Meglio attenuare i tributi sul caffé e lo zucchero, e riparare al minor gettito col cancellare qualche spesa, distruggendo ab imis qualche servizio, rinunciando a qualche funzione non pertinente allo Stato data la sua stessa natura. Dopo alcuni mesi di lavoro attivo e non vano il comitato per la revisione delle spese pubbliche pare non si aduni più: con sagacia avrebbe potuto scovare il mezzo miliardo di economie occorrenti per evitare la jattura dell'appesantire la mano sullo zucchero e sul caffé. Di uffici che attendono allo stesso lavoro, con noia tremenda dei privati che potrebbero rimanere liberi nella loro opera; di controlli duplici e triplici per le stesse spese, non ne mancano. Basterebbe una sacrosanta revisione della tariffa doganale, cancellando tutte le distinzioni potenzialmente protettive, le voci di scarsissimo gettito fiscale, per sveltire l'amministrazione delle dogane. Come nel debito pubblico il trasformare la trentina di tipi esistenti nei pochissimi di larga circolazione condurrebbe a risparmio di spese e di tempo: e molti funzionari potrebbero essere assegnati a rendere più produttivi i tributi già esistenti e forse anche con aliquote abbassate. Così pure rinunciando a costruire case per gli impiegati od a controllare i prezzi dei viveri, si dovrebbe provare con fiducia a battere invece la via degli sgravi, attendendo molto dalla elasticità dei consumi come dalla minor evasione dei contribuenti. E viceversa una riforma radicale potrebbe riordinare con semplicità il trattamento del vino. Qui può apparire la visione lungimirante di un ministro preoccupato del futuro svolgersi degli avvenimenti, per dominarli e non subirli. Mentre l'abolizione dell'imposta di successione nel nucleo famigliare rivelava un programma, un precorrere le ripercussioni non immediate, manca la linea nelle deliberazioni sancite a mezzo settembre. Poteva esservi, ove al posto dell'aborrito tributo che si seppelliva avesse introdotta un'imposta sull'uva vinificabile, ad aliquota da variare di anno in anno in rapporto alle contingenze, con esenzione per le qualità "da tavola" destinate al consumo diretto. Abolendo contemporaneamente il dazio consumo sul vino si poteva assegnare ai Comuni un ratizzo sul gettito del nuovo tributo. L'uva presenta grande facilità di accertamento: la materia imponibile è in vista nei vigneti, che si possono periodicamente misurare; mentre la varia prosperità e valore del raccolto forma oggetto di rilievi locali e di conversazioni non riservate. Né complicata, potrebbe risultare l'esenzione dell'uva da tavola: chi ha interesse ad ottenerla, farebbe rilevare la qualità tipica dei vitigni destinati a questo consumo; i tecnici sanno distinguerli in base a caratteristiche sicure, e sarebbe probabile ne derivasse - per raggiungere lo scopo - un perfezionamento nei nostri vigneti, con specializzazione assai più ampia di quella finora ottenuta. Scomparirebbe il bisogno di sorvegliare i movimenti successivi dell'uva da uno ad altro possessore: o di penetrare nelle case per misurare la quantità di materia imponibile spostata verso il consumo; oppure di accertare se la mancata denuncia trovi giustificazione adeguata nel diritto di esonero per il consumo famigliare del piccolo produttore. Converrebbe non assegnare favori per nessuna quantità di uva che si possa destinare a fabbricare del vino. Quanto all'inconveniente della variabilità del gettito in rapporto alle mutevoli dimensioni del raccolto, con incertezza per chi deve predisporre il bilancio preventivo, è difetto comune a moltissime imposte. Ed è del resto suscettibile di sufficiente correzione, rendendo variabile l'aliquota di anno in anno, tra un minimo di 8 lire per quintale ad esempio quando la produzione oltrepassi i 60 milioni di q.li, ed un massimo di 12 lire ove se ne ottengano appena 40 milioni. In molti paesi l'altezza di certe aliquote non viene fissata rigidamente dalla legge creatrice, per lasciarla determinare ogni anno con la legge del bilancio. Sarebbe utile tuttavia l'indicazione del massimo e del minimo, e del legame correlativo all'ampiezza del raccolto, per evitare il ripetersi di agitazioni tendenti a conservare sempre fissa l'aliquota al livello minimo. Il peso tenue e l'ordinamento semplicissimo dovrebbero far preferire l'imposta sull'uva anche al dazio consumo. Abolito questo, si potrebbe assegnare ai comuni una sovvenzione sul gettito dell'imposta erariale: un ratizzo invece di una addizionale, non applicabile in quanto ricaverebbero un'entrata solo gli enti delle zone di produzione e non quelli di consumo. Seguendo esempi inglesi - i "grants in aid" sono numerosissimi - basterebbe determinare quanto i comuni col dazio percepivano in media negli ultimi tre anni: e calcolare in quale rapporto la somma complessiva stesse col gettito medio del tributo erariale. In futuro, lo Stato potrebbe accantonare una quota proporzionale alta; per distribuirla tra gli enti interessati in rapporto alla loro posizione rispettiva nella media di base. In questo modo il ratizzo manterrebbe anche una certa elasticità, legato alla congiuntura: e scomparirebbe il guaio delle frodi. OBSERVER
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