Note economicheL'imposta sul vino1. L'abolizione dell'imposta sul vino costrinse a mandare al macero un denso volumetto di altre 98 pagine, che conteneva le istruzioni ministriali e la relazione sul decreto legge emanato da poco più di un anno per riordinare questo tributo. Al macero andranno pure milioni di copie dei dieci "modelli" distribuiti agli uffici tecnici di finanza per l'applicazione pratica del non semplice ordinamento. Né pare vi siano molti a rimpiangere la scomparsa dell'imposta generale sul consumo del vino. Era nata abbastanza bene nel 1919, ma i continui ritocchi anno per anno l'avevano resa costosa e molestissima. Perciò era fatale che il ministro delle Finanze dovesse cedere all'ondata delle richieste di numerose associazioni, ed in ubbidienza al presidente del Consiglio colpisse a morte la costruzione non sua, da lui appena corretta qua e là nelle falle peggio appariscenti. Le lagnanze piú vive degli interessati contro il tributo ora tolto, più che al peso del tributo si riferivano agli impacci per il controllo dei varii movimenti del vino, alla noia di conti precisi. Si era ceduto sul primo punto, e da una imposta sul consumo - riscossa accertando la materia imponibile presso il produttore, il quale se ne rifarà nel prezzo di vendita - si era preteso, attraverso a rimaneggiamenti successivi, di lasciarne sí debitore chi fabbrica il vino ma con l'obbligo di versare il dovuto solo al momento di ogni singola cessione; salvo a completare lo sborso alla fine della campagna anche per le quantità eventualmente sottratte al mercato dell'anno per attendere nei prossimi condizioni più propizie. Si era inoltre concessa una esenzione scalare per il consumo diretto dei piccoli produttori: di qui altre necessità di controlli, con milioni di accertamenti e di visite, conteggi che inferocivano gli interessati. Tutto questo era frutto di una illusione cui si era ceduto fino dal 1920: nel primo anno di applicazione i viticoltori avevano obiettato che, dovendo pagare il tributo anche senza aver ancora venduto il vino venivano ad esserne gravati direttamente, mentre le altre produzioni agrarie restavano esenti da imposte speciali. Qui si annidava il sofisma, le nozioni sull'incidenza dell'imposta non riuscendo a penetrare bene nella mente dei difensori degli interessi vinicoli. Dimenticando che per rivalsa il venditore ne aumenta di altrettanto il prezzo, sostenevano che invece del consumo rimanevano colpiti i terreni vitati: con aria di trionfo ne trovavano la prova nel fatto che il vino non è prodotto da monopolisti, i quali soli riescirebbero a rimbalzare sul compratore della loro merce il tributo speciale che li raggiunge. Arrovesciavano così la realtà del fenomeno; gli studi dal Seligman all'Einaudi hanno dimostrato al contrario che il monopolista per definizione porta il prezzo al livello massimo cui può ancora sottoporsi l'acquirente: perciò quando sopravviene oppure si aumenta l'imposta speciale sopra la sua merce ne rimane inciso. Viceversa, per quanti lavorano in regime di libera concorrenza il prezzo è determinato dal produttore che agisce nelle condizioni meno favorevoli; all'opera del quale tuttavia è giuocoforza ricorrere per soddisfare l'intero fabbisogno. Il tributo diventa un nuovo elemento da unire agli altri del costo: al rialzo del prezzo qualche consumatore restringerà la sua domanda, ma il grosso accetterà l'aumento, sicché chi vende dovrà solo lasciarsi percuotere, e figurerà quale contribuente di diritto, mentre gli sarà facile il rimbalzo del carico fiscale intero o quasi sul compratore. Né si può pensare agli sviluppi indiretti, propri delle industrie che si esercitano a costi decrescenti: la viticoltura si trova piuttosto nel caso opposto. E quindi il rincaro della derrata restringendo il consumo farà abbandonare la vite nei terreni di pianura e meno redditizi, abbassando i costi unitari di ottenimento, con probabilità anzi di lasciare una rendita tributaria per tutti gli altri vigneti che si conserveranno. 2. Forse per il vino si arrovesciavano le leggi generali di incidenza dei tributi? E quanti saranno stati i monopolisti colpiti? E meritavano tutto il compianto di cui si fecero segno, mentre appunto per la loro posizione di venditori di vini tipici di grandissimo pregio potevano con tutta facilità cedere una parte della loro rendita? La quale sarà rimasta del resto incisa per una somma inferiore al dieci per centro e nella maggior parte dei casi al 5 per cento del valore del loro vino: sacrificio ben lieve in un paese dove la tassazione per necessità di bilancio deve chiedere a molti un contributo assai alto. Quid in anni di crisi? Molto frequenti nel caso del vino, le lagnanze ritornando con pari intensità negli autunni rattristati da mancato raccolto come in quelli di grande produzione: perciò quasi sempre si riodono le elegie, ad eccezione delle annate medie non apprezzate nemmeno esse per il loro grigio. Nell'Enotria Tellus nessuno parrebbe più infelice dei viticultore; ed è umana la lagnanza, in questa industria il raccolto potendo oscillare tanto da fare il pendolo nei cinque anni 1909-1913 tra il massimo di 62 milioni di hl. ed il minimo di 29 appena, con meno della metà; e nel dopo guerra da 54 a 32, mentre nel 1915 aveva toccato il punto estremo con soli 19 milioni. Si noti però che a prezzi medi negli stessi periodi variarono con ampiezza minore che nelle quantità. Dalle 26 lire per q. passarono a 48 nei cinque anni prima della guerra, cioè come da 55 a 100, mentre i raccolti andavano da 47 a 100. Si direbbe insomma che il ribasso stimolasse tanto la domanda da impedire alle quotazioni di scendere in proporzione esattamente inversa alla maggior abbondanza del raccolto. Conviene omettere il periodo reso difficile dalla guerra: all'esame invece del quinquennio successivo all'armistizio il fenomeno appare ancora più nitido, le quantità muovendosi come da 100 a 59 mentre i prezzi solo da 100 a 70. Più delle medie calcolate dall'"Ufficio di Statistica Agraria" interessano le quotazioni minime e massime: sono note per gli ultimi tre anni PREZZO
tra il minimo ed il massimo nel triennio il distacco arriva al 54 per cento, ma si riferisce a qualità differenti e perciò non confrontabili: badando alla scarto dei minimi tra di loro, risulta del 38 per cento; mentre tra i massimi o troviamo appena del 21, confermando il vantaggio delle minori scosse che favoriscono i migliori produttori in confronto ai meno accurati. Un altro sintomo interessante salta fuori dalle cifre dei prezzi: tra il 1918 ed il gennaio del 1921 il vino aveva ottenuto un rincaro fortissimo, in confronto ai prezzi quasi normali del 1911-12 salendo a ben sette volte e mezzo, e quindi molto al di là della quotazione necessaria per controbilanciare la svalutazione della moneta. Gli agricoltori ebbero un vero guadagno di congiuntura negli anni dell'immediato dopoguerra; e confrontando a quella beata cuccagna la penultima annata di minore allegrezza parlarono subito di crisi quando forse non si andava al di là di un ritorno all'equilibrio del mercato: dopo l'abbondanza del 1923 poi, non cessarono più dal manifestare tragico dolore. Eppure il valore medio del vino ai prezzi normali e con raccolto normale nelle annate precedenti la guerra risultava attorno ai 1400 milioni di lire: quello calcolabile ai prezzi "minimi" della campagna 1923-24, risulta di 6 miliardi, cioè di quattro volte e mezzo più alto. Il prezzo basso, ma con una quantità notevolissima, lasciò dunque un compenso non disprezzabile: assumendo invece il prezzo medio, il valore del raccolto arriverebbe agli otto miliardi e mezzo, cioè a più di sei volte un decennio prima. Bisognerebbe perciò andare un poco cauti prima di parlare di crisi nell'agricoltura italiana: i raccolti abbondanti non si disgiungono da prezzi meno sfavorevoli per i compratori a paragone di quelli degli anni scorsi; ma i realizzi tornano subito alti appena le vicende climatiche diventano meno propizie. Si mantiene una costanza opportuna nel valore complessivo dei vari prodotti: tuttavia alcuni singoli restano danneggiati associando prezzi bassi a quantità non eccezionali e si lagnano ad alta voce, ma non si dimentichi che i favoriti tacciono, anzi non di rado ai associano - per solidarietà o per timori fiscali - a chi più sospira lasciando l'impressione di un malessere generale. 3. Sul valore di sei miliardi almeno del vino, quale incidenza avrà esercitato un'imposta che al massimo arriva ad un dodicesimo della somma? Accogliendo l'ipotesi del Coletti, che cioè per metà abbia inciso i produttori, non avrebbe oltrepassato un ventiquattresimo del valore. Ma nulla dimostra che nemmeno la quota dimezzata sia sfuggita ai consumatori: l'elasticità della loro domanda, l'ampiezza delle classi consumatrici - che formano la grandissima massa del popolo italiano, lasciando ben esigue correnti alle altre bevande -, la loro discreta condizione economica, di cui offre indice rassicurante la tenue quota dei disoccupati ed il lavoro non più interrotto da arresti; la tradizionalità del consumo, che viene ristretto forse per ultimo rinunciando piuttosto a molte spese, in altre nazioni considerate degne di maggior riguardo: tutto questo conduce all'impressione che l'imposta sul vino si trasferisce nella sua quasi totalità sul consumatore. La scomparsa del tributo perciò non può esercitare tutte le benefiche influenze che se ne attendono alcuni. L'allargarsi delle vendite avviene spontaneo invece per il solo ripercuotersi della annunciata mediocrità del raccolto: e quanti riuscirono a rendere serbevole il loro vino si da accumularne delle scorte otterranno il premio per la propria abilità. Il minor peso fiscale probabilmente entra ben poco nelle quotazioni migliorate, a meno di cedere al sofisma del "post hoc, ergo propter hoc". Tanto più che rimane intatto il dazio consumo, ancora più dannoso dell'imposta erariale. Contro il secondo balzello - che importa per i consumatori di vino il sacrificio visibile di somme pari forse alla metà di quanto gettava l'imposta sul vino, ma accompagnato da aggiunte "non apparenti" per altre decine e decine di milioni - avrebbero con maggior ragione potuto accanirsi i viticultori. In quanto il dazio poteva giungere al doppio, anzi - dopo la riduzione a 15 lire per hl. - al triplo e più dell'abborrita imposta erariale. Il peggio si è che con la sua altezza viene a rendere lucrosissime le manipolazioni entro cinta per moltiplicare la quantità del vino dopo l'introduzione. Con una facile concorrenza esercitata su larghissima scala in tutti i Comuni chiusi, dove appunto si addensa la parte preponderante della popolazione compratrice. Tra i due tributi di gran lunga preferibile era la scomparsa del secondo, per le conseguenze indirette, che regalano ai manipolatori un lauto profitto ed una vera rendita fiscale, ritirando per diritto di rivalsa un dazio che non pagano. Distruggere radicalmente il congegno che offriva spinta energica a queste falsificazioni avrebbe dovuto apparire compito degno ed opportuno, sicché resta il rimpianto per non avervi punto pensato. OBSERVER
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