DUE LIBRI FRANCESI

    Non si era ancora tentato in Francia - come, ad esempio, è stato fatto da autori inglesi - un esame non polemico e frammentario, ma sistematico e complessivo, delle origini, responsabilità, conseguenze ed insegnamenti della guerra mondiale nella politica. Ci voleva infatti un bel coraggio, in Francia, dove la tinta nazionalista prevale, se non altro, nell'opinione che più sa farsi valere (classi colte, sfere ufficiali, stampa) - ci voleva un bel coraggio a tentare questo esame , spregiudicatamente. Il libro del Fabre-Luce (1) La Victoire, esamina infatti con ordine, con chiarezza, appoggiandosi ad un'abbondante documentazione, questi problemi. Egli riporta la questione della responsabilità nei suoi veri termini, cioè ben oltre le ultime settimane che precedettero l'Agosto 1914. Facendo il processo a tutto l'insieme della attività delle Potenze europee, corresponsabili, per la loro politica di equilibrio e d'alleanze al cui determinismo, ed in ultimo all'ingranaggio meccanico in esse montato delle mobilitazioni, i Governi fatalisticamente si abbandonarono (la Francia in testa, ben preparati a ciò, con gli accordi Poincaré-Izvolski) quando la tempesta lampeggiò tra Sarajevo e Vienna. Egli denuncia l'ipocrisia d'aver voluto includere nel Trattato di Versailles un condanna morale della Germania, facendo della sconfitta in guerra una delinquente giudicata dalle parti avversarie, così come si era fatto uno scandalo dell'invasione "inaudita" del Belgio, elemento della partita perfettamente previsto dallo Stato Maggiore franco-britannico. Ipocrisia che è per di più una stoltezza, giacché in essa consiste una ragione capitale dell'inefficienza pratica del Trattato di Pace (reso da essa inaccettabile per la Germania.





    Dopo la parte critica retrospettiva, l'autore cerca di delineare le direttive d'una più saggia politica avvenire, che egli con moderato ottimismo spera possa sorgere sulle rovine della guerra. Questa seconda parte del libro è meno notevole della prima, che costituisce un vero manuale della preistoria della guerra europea (la divisione in numerosissimi capitoletti rende il libro molto comodo da maneggiare). Il Fabre-Luce ha una ragionata fiducia nella Società delle Nazioni e in generale nella forza coattiva dell'opinione mondiale, la quale, se fosse stata più illuminata, influendo maggiormente quale freno contro il laisser aller dei governanti del 14, avrebbe permesso di ritardare, localizzare ed attutire la tremenda scarica di forze che fatalisticamente fu lasciata scatenare. L' analisi di questa colpa fondamentale della politica europea dell'anteguerra è la parte migliore del libro.

    A mettere di queste cose sotto il naso del pubblico, in Francia, ancor oggi, ci vuole - ripeto - un bel coraggio. Il Fabre-Luce, che è un giovane il quale conosce l'ambiente diplomatico francese per essere stato addetto al Quai d'Orsay e all'Ambasciata francese di Londra, nutre speranza in un indirizzo più lungimirante della politica internazionale della Francia, giacché "già da parecchi anni - scrive egli (p. 420) - vediamo prodursi in molti spiriti liberi, in molti osservatori illuminati della politica - funzionari, intellettuali, uomini dell'industria o della finanza - una muta opposizione all'azione del Governo all'estero. Tra coloro medesimi che debbono rappresentarlo all'estero, un dissidio si crea di frequente tra l'uomo pubblico ed il privato, ed il patriota vede con uno stringimento di cuore gli effetti disastrosi delle istruzioni che l'agente ha fedelmente eseguite. Potrà la politica esser condotta par tanto tempo contro il sentimento dell'élite? Sarebbe questo l'indice di una vera decadenza della nazione".





    Per avere scritto con tranquillo ardimento di queste verità, il Fabre-Luce è stato, manco a dirlo, aggredito dai nazionalisti quale bochefile e "disfattista" - che sarebbe, nel linguaggio dei benpensanti patrioti di Francia, come dire da noi: antinazionale! Con la quale manganellata verbale, uno è bell' e spacciato.

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    Scendere da una potente Fiat alla soglia della residenza del Budda Vivente, a Urga nella Mongolia, la città dei sessantamila monaci buddisti, dove un generale russo, il barone magiaro-tedesco Ungern von Sternberz, capo (più tardi ucciso) di antibolscevichi, ha installato telegrafo e telefono senza fili; parlare al Budda Vivente, intelletto, profondo in un corpo di vecchio alcolizzato cieco: non è questa, che l'avventura culminante di Ferdinando Ossendowski (2), ingegnere geologo polacco già collaboratore del conte Witte e del gen. Kuropatkin, quindi di Kolciak. Ma tutta la sua odissea, a piedi a cavallo a dorso di cammello vagando e combattendo gelo e tempesta, belve e uomini attraverso selve e deserti siberiani e mongoli e sino ai margini del Tibet, è un romanzo vissuto più avventuroso d'ogni fantasia. Paesi inesplorati, genti e sette strane e misteriose, tutto un mondo asiatico che sembra pendere tra un'immobilità di leggenda e un risveglio pieno di possibilità apocalittiche, infiltrato d'un fermento sanguinoso al contatto dei bolscevichi e degli antibolscevichi in lotta mortale tra loro in un ambiente caotico, ora ostile ora indifferente, lontano per millenni di civiltà divergenti, vicino improvvisamente per un lampo di affinità etnica remotissima.





    Protagonista dell'ultimo episodio, questo barone Ungern von Steinberg, circondato da una fama di ferocia, in realtà anima tormentata tra aspirazioni eccelse di riformatore religioso e necessità crudeli di guerriglia da partigiano, intimo di capi buddisti, vecchio soldato energico e intelligente, familiare con la strage spietata e mistico sognatore di rigenerazione mondiale. Intravediamo un oceano di umanità a noi ignota. Così, dunque, la guerriglia tra nuclei di bolscevichi e di russi "bianchi" in Oriente, di cui giunse a noi appena qualche eco attraverso laconiche informazioni calcate sugli schemi della politica europea, interferendo laggiù con grovigli inesplorati di conflitti e problemi etnici e religiosi, si sfaccetta in un brulichio di colori dove si smarrisce la nostra povera vista di miopi occidentali, ipnotizzati dal breve spazio di terre e di mari che da troppi secoli calpestiamo, solchiamo, amareggiamo di sangue e d'odio.

    La narrazione dell'Ossendowski, sobria e rapida, tutta cose, come sanno essere soltanto i racconti di quel che si è veduto e vissuto, getta quest'ansia e sconforto stupefatto nell'animo del lettore occidentale e "civile": gli si riaffaccia in blocco l'enormità di enigmi di storia universale, Oriente e Occidente, politica e religione, quid est veritas? - tutto ciò balenante fra un crepitio di fucilate e un galoppo disperato attraverso desolati paesi. Smarrimento che è una lezione d'umiltà, che ci pone bruscamente di fronte alla ignoranza totale nella quale siamo di innumerevoli aspetti della storia contemporanea. Che nausea, dopo un tuffo come questo, riprendere la lettura - o, peggio, la cucina! - di quello specchio di vacuità sapiente e sonante che è il giornale quotidiano toccatutto e satutto!

L. EMERY