LE COOPERATIVE DEL RAVENNATE

COME SONO SORTE

    Non perdiamoci in superflue congetture e consideriamo invece a chi sono andati i frutti di questo benessere. Se osserviamo come nella maggior parte dei casi si svolgono i lavori e poi avviene il trapasso delle terre bonificate, ci sarà dato vedere dove vanno a scolare i rivoletti d'oro delle bonifiche. Generalmente il Governo sborsa (poiché la maggior parte delle bonifiche sono considerate di prima categoria) la quota maggiore: i sei decimi della spesa totale mentre i comuni e le provincie sborsano appena il decimo e i proprietari delle terre i tre decimi.

    E' facile capire che chi ha più interesse a volere le bonifiche sono i proprietari delle terre e gli imprenditori di lavoro; i primi perché col danaro del prossimo sopravalorizzano i loro capitali, ed i secondi perché dai lavori ricavano un utile.

    L'immoralità di questi ultimi non è così evidente come quella dei primi; non si tratterebbe, in ogni caso, di altro che d'un comune e banale atto commerciale di prestazione d'opera, la cui modalità resta fissata da un libero contratto, se precedenti atti degni d'esser tacciati di immoralità non ne infirmassero l'apparente correttezza.

    I precedenti atti che noi chiamiamo immorali sono i ricatti che gli imprenditori fanno al concessionario dei lavori (il Governo) perché tali lavori siano a loro aggiudicati, non sotto la spinta della convenienza e in piena libertà, ma bensì sotto l'incubo di possibili rivalse e rappresaglie.

    Intendiamo parlare delle periodiche dimostrazioni di disoccupati sotto le finestre prefettizie, e dei ricatti parlamentari dei deputati cooperatori, minaccianti la rottura degli amori ministeriali qualora ai "poveri operai" loro elettori, non venissero concessi i richiesti lavori.





    Per esser giusti bisogna comunque riconoscere che tale metodo non è stato solo adottato nel passato dai socialisti, perché anche nel presente viene da altri adottato, colla sola sostituzione nei termini della richiesta della parola "patria" in luogo di quella "pane". Oggi infatti non si grida più: "Pane e lavoro!" né si fanno dimostrazioni, ma si fanno sagre e si grida: "Patria e lavoro!" che è poi la stessa cosa. Ma non fermiamoci su queste che sono miserie, per dichiarare senza altro che il metodo ricattatorio da noi biasimato è il metodo degli affamati e dei cattivi corvi, il quale ha fortuna soltanto finché una classe dirigente pavida ha bisogno di quietare i suoi rimorsi e chiudere con l'offa dei lavori pubblici le bocche che urlano, oppure sempre con l'offa deve tentare di suscitare il consenso che gli manca.

    Il derivare la maggior parte dei cooperatori socialisti dal repubblicanesimo ed il dovere dapprincipio svolgere la loro azione in un ambiente saturo di demagogia giacobina, contro un governo che diffidava della regione sempre in iscompiglio, ed a favore di una categoria di operai i quali non avevano la capacità di compiere lavori specializzati, ma avevano soltanto fame; crediamo spieghi la demagogia primitiva delle cooperative ravennati che il risparmio degli operai e la saggezza dei capi ha in seguito trasformate da pompe aspiranti dell'erario quali erano in origine, in selezionati enti di produzione e di progresso civile.

    L'azione benefica delle cooperative si fece subito sentire non appena si conquistarono l'autonomia economica.

    Il livello tecnico, culturale e morale-civile degli operai, fu portato all'altezza di quello degli operai specializzati dell'industria settentrionale, si che all'acquisita coscienza unitaria dei romagnoli furono più accessibili i concetti di cittadinanza e di italianità poiché l'uno e l'altro volevano dire agiatezza e libertà.





    I pericoli che tale nuovo fatto (della massima importanza politica) presentava erano due: il primo (quello notato dal Salvemini) costituito dal formarsi di una oligarchia operaia capace di imporsi al governo a scapito degli interessi collettivi della nazione; il secondo, costituito dal trasformarsi dell'innato campanilismo romagnolo, nella esigenza decentratrice postulata dai revisionisti repubblicani, i quali, nella ricchezza della regione dovuta allo sviluppo della agricoltura, e nella conseguente coscienza della loro superiorità nei contadini, potrebbero trovare un fecondo terreno di propagazione.

    Sul primo non è necessario più oltre parlare, poiché, in quanto fenomeno di selezione e di classe non ha oggi ragione alcuna di esistere; ma in quanto al secondo si deve avvertire che non è detto che non possa eventualmente assumere i caratteri concreti di una vera esigenza rivoluzionaria quale espressione della rivolta dei produttori e dei contribuenti, qualora il dominio compressore di una oligarchia di liberticidi e di parassiti, impoverisca ancora di più la nazione.

    Quali enti industriali le cooperative hanno inoltre il merito di avere promossa l'industrializzazione della agricoltura, servendo dapprima quale esempio, poi quale temibile concorrente, a svecchiare la patriarcale agricoltura romagnola.

    Si può dire che siano state le cooperative a promuovere la rotazione razionale delle colture, che prima dell' 80, epoca della loro costituzione, non avveniva, come si può dire che siano state esse le prime a promuovere la colonizzazione interna, di cui si è tanto parlato; senonché sia dal 1883 una colonia di operai romagnoli (seicento circa) fu spedita ad Ostia ad eseguirvi lavori di bonifica che furono fatti in modo encomiabile, anche se l'on. Mussolini non ha avuto la bontà di ricordarli nella recente inaugurazione della ferrovia Ostia-Roma, da essa, in gran parte, costruita.





    Il merito maggiore però, di esse cooperative quali enti produttivi, è stata l'introduzione nell'agricoltura della concimazione fosfatica, che, oltre a moltiplicare i prodotti del suolo, ha arricchito e trasformato i terreni, e reso possibile il formarsi di industrie annesse alla agricoltura, facendo sorgere nelle varie città romagnole prosperosi zuccherifici (è stato scritto che quello di Mezzano è il più grande d'Europa), fabbriche di marmellate per la trasformazione dei prodotti frutticoli di Massa Lombarda e di Cesena, e vaste cantine (Lugo), a cui ha fatto seguito l'incremento dell'industria zootecnica specialmente concentrata nelle città di Lugo, Faenza e Russi.

    Inutile dire che tale sviluppo si è manifestato contemporaneamente allo sviluppo dei mezzi di trasporto di cui si è largamente servito: essendo la Romagna, come è noto, una delle regioni più esportatrici di prodotti agricoli in Italia.

    E' altrettanto facile capire che la ricchezza di chi veniva perciò a beneficare doveva creare fatti nuovi, e nuove condizioni nei rapporti sociali ed economici della regione, atti a trasformarla profondamente.

LA LOTTA PER LE MACCHINE

    Le categorie che più beneficarono di questa nuova ricchezza furono i braccianti organizzati ed i mezzadri.

    "Da semplici imprenditori di lavoro quali erano in principio, le cooperative operaie, mediante la capitalizzazione dovuta al risparmio degli associati e dagli utili loro procurati dalla perizia tecnica dei dirigenti divennero enti industriali proprietari e dei mezzi di produzione e della materia da lavoro.

    Il sapere che nel 1920 nella sola provincia di Ravenna ha Federazione socialista delle cooperative coltivava ettari 8.054,98 di terreno del quale più della metà gli apparteneva, dà un'idea della importanza industriale e finanziaria assunta dal movimento cooperativo in Romagna, nella considerazione del quale bisogna non dimenticare il Consorzio Autonomo delle cooperative, il quale, quantunque apparentemente ispirato ad altri concetti dai suoi dirigenti repubblicani, col peso dei suoi organizzati e dei 6.347,28 ettari da lui coltivati (dei quali, anche questi, buona parte di diretta proprietà consorziale), volente o nolente corroborava l'azione delle cooperative socialiste ai cui concetti di classe ed ai cui metodi di lotta era costretto di uniformarsi.





    L'altra categoria di lavoratori che beneficò del nuovo stato di cose e della ricchezza che ad esso conseguì, è stata quella dei mezzadri.

    Parchi e risparmiatori per natura, e sobri perché lontani dalle città, i mezzadri romagnoli, dapprima ostili per un naturale senso di diffidenza e per ignoranza, all'introduzione dei mezzi di lavoro meccanici, della concimazione fosfatica e della razionale rotazione delle colture patrocinata, come abbiam visto, dalle cooperative (e dal prof. Adolfo Bellucci della cattedra ambulante d'agricoltura di Ravenna che della rinascita agricola romagnola è un apostolo); allorché si accorsero della loro utilità furono solleciti nella accettazione e nella applicazione.

    Il trasformarsi, d'altronde, della proprietà li aiutò oltremodo nell'effettuazione del loro più caro desiderio consistente nell'acquisto della terra. Il mezzadro romagnolo nella maggior parte dei casi ha conseguito il suo scopo attraverso l'affittanza e la mezzadria, e mediante i suoi sforzi tenaci, la sua accortezza e i suoi risparmi.

    Se si pensa che sin dal 1911 dieci sui sedici milioni depositati presso la Cassa di Risparmio di Ravenna appartenevano a coloni ravennati, e se si tien presente che press'a poco così avveniva in tutte le altre città romagnole (che, come abbiamo visto, non hanno nessuna importante industria la quale non dipenda dalla produzione agricola), comprenderemo facilmente l'importanza dell'elemento colonico nella vita romagnola, la quale da un giorno all'altro, può essere gravemente minacciata di fallimento se i contadini ritirano i loro depositi presso gli istituti di credito cittadini, oppure ridotta alla fame se si rifiutano di portare in città i loro prodotti.

    Questo era lo stato delle cose prima della guerra. Ora bisogna aggiungere che forse più del 20 % dei mezzadri romagnoli sono diventati proprietari, come ha già dimostrato il Bellucci, il quale, seguendo dati statistici precisi, ha scritto che nella sola provincia di Ravenna nel sessennio 1915-1920 sono stati venduti dagli antichi proprietari ai contadini la bellezza di 2455 fondi!





    Delineate così le due categorie nuove della agricoltura romagnola, ci riuscirà più agevole considerare la lotta per le trebbiatrici combattuta nel 1908-10 tra le cooperative da una parte ed i mezzadri dall'altra.

    La questione ebbe allora una grande risonanza anche fuori della regione, perché elementi passionali estranei la deformarono, ingrandendola. La lotta fra i gialli e i rossi fu considerata, o dal lato politico, quale una lotta fra repubblicani e socialisti, oppure dal solo lato tecnico-giuridico, quale una elegante questione di competenza degli istrumenti di lavoro.

    Entrambe le considerazioni non esaurirono la verità, che è diversa.

    Né l'ordine emanato nel luglio 1908 dalla socialista Camera del Lavoro di Ravenna alle Camere dipendenti, perché nel lavoro di trebbiatura venisse abolito lo "scambio delle opere" (era l'usanza patriarcale del reciproco aiuto fra contadini nelle opere straordinarie, e vigeva specialmente nel Faentino), né il monopolio delle macchine rivendicato per loro dai braccianti furono le cause principali del sanguinoso e lungo dissidio di quegli anni; ma la necessità di combattere coi residui della agricoltura patriarcale, l'istituzione stessa della mezzadria, vagamente, ma profondamente sentita dagli inconsapevoli rivoluzionari di allora, quale il principale baluardo della conservazione sociale, e quale il maggior ostacolo all'affermarsi dell'esigenza industiale nell'agricoltura.

    La lotta per le macchine fu dunque una lotta fra due sistemi di produzione e di scambio, e fra due diverse epoche e condizioni della vita civile della regione; e dalla fisica differenza da noi in principio accennata fra la bassa Romagna dalle larghe estensioni coltivate a prato artificiale da vasta massa di uomini e frazionata in grandi lotti e la Romagna piana e del colle coltivata a vite ed a grano da un numero limitato di uomini e frazionata in piccoli lotti spesse volte direttamente posseduti dai coltivatori, riceve piena luce e giustificazione, quasi quale una fatalità.





    Detto questo ci sembra di dover solo per la cronaca aggiungere che il distacco avvenuto nel 1910 dei repubblicani dalla vecchia Camera del lavoro di Ravenna e dalla Federazione, e la costituzione della nuova Camera del lavoro e del Consorzio Autonomo delle Cooperative, sarebbe appena un atto di onestà e di consapevolezza, se non fosse la riaffermazione del carattere industrialistico delle cooperative ed il necessario riconoscimento del principio liberale e liberista che con esso necessariamente viene ad essere postulato.

    Soltanto a titolo di lode si deve ricordare che durante la guerra il governo largamente si valse della Federazione delle Cooperative per la preparazione civile l'approvvigionamento e la distribuzione dei viveri, in omaggio alla sua perfetta organizzazione ed alla stima goduta nella popolazione; e non ad altro titolo che di biasimo si deve ugualmente ricordare la distruzione della sua sede centrale (Ex-Hotel Byron) avvenuta durante le feste dantesche del 1921 da parte del migliaio e più di squadristi fascisti che da Ferrara Italo Balbo condusse a Ravenna a piedi, senza che il Governo di allora presieduto dall'on. Giolitti (che in altri tempi fu largo di favori con le cooperative) intervenisse in sua difesa: che era poi difesa della proprietà privata e dell'incolumità dei cittadini.

    Così al modo stesso che il passaggio ai Sindacati nazionali fascisti avvenuto nel marzo del 1922 del Consorzio delle Cooperative (pseudo-repubblicano), con tutto il suo stato maggiore capitanato dal Bondi, non viene da noi ricordato che quale riconferma della da noi asserita corresponsione d'amorosi sensi fra repubblicani e fascisti; per un identico motivo non ricorderemmo il passaggio agli stessi Sindacati fascisti della Federazione delle Cooperative, se tale passaggio non ci offrisse ugualmente l'occasione per riconfermare quanto abbiamo scritto sulla illegale presa di possesso d'un organismo certamente capitalizzato quale la Federazione, da parte di un gruppo di piccoli borghesi disoccupati, nei riguardi dei quali noi altro non possiamo dire che si sono annidati nelle "comode" poltrone degli "sfruttatori socialisti" in numero esageratamente grande e con paghe non mai nel passato corrisposte agli organizzatori "sfruttatori" i quali, noi pensiamo, qualche merito devono pure avere avuto se dal nulla hanno loro potuto procurare la presente babilonia.





    Ma di ciò, dell'opera cioè compiuta dai fascisti in due anni di occupazione non dobbiamo (né lo potremmo) per ora parlare per un doveroso riguardo al rag. Pietro Cagnoni, commissario governativo della Federazione delle Cooperative dal novembre 1922, la cui annunziata relazione con curiosità aspettiamo.

    Quel che possiamo dire a mo' di conclusione è che in due anni di dominazione il Governo fascista ha stanziato in bilancio delle Cooperative per lavori di bonifica la non indifferente somma di 22 milioni (convenzione Carnazza, 15 luglio 1923), di cui 4 e mezzo versati nel febbraio 1924 (alla vigilia delle elezioni politiche), senza contare i milioni stanziati per la prosecuzione dei Bacini montani, eseguiti sotto l'egida di un privato Consorzio residente a Faenza e composto nella sua totalità di elementi massonici e repubblicani, entusiasticamente quanto segretamente, appoggiati dagli agrari e dai fascisti del luogo e della provincia, a definitiva riconferma dell'asserito connubio repubblico-massonico-fascista, ed a parziale chiarimento di un retroscena amministrativo faentino, e d'una interna bega culminata nell'allontanamento dal P. N. F, di elementi direttivi baronciniani, non troppo entusiasti, sembra, e dei lavori e del Consorzio.

ARMANDO CAVALLI.

POSTILLA

    Nell'attesa della relazione Cagnoni, teniamo pertanto presenti i seguenti dati, da servircene quale dimostrazione della forza e dei meriti delle Cooperative ravennati, nonché quali eventuali termini di paragone.

    Nel maggio 1922 le organizzazioni cooperative e sindacali dipendenti dalla Federazione delle cooperative della provincia di Ravenna, inquadravano 27.199 soci. Otto milioni di lire erano effettivamente in cassa: versate dagli operai associati, i quali in pro della Federazione avevano rinunciato a ritirare gli utili loro spettanti quali cooperatori.

    La Federazione possedeva in proprio terre, immobili, derrate ed utensili da lavoro in grande quantità: i soli mezzi di aratura meccanica, a vapore o ad energia, attingevano la capacità di arare cinquanta ettari di terreno al giorno. Più di diecimila ettari di terreno, come abbiamo già detto erano coltivati dalle Cooperative.

    In poco più di dieci anni di lavoro le Cooperative agricole erano riuscite a mettere in valore tremila ettari di improduttivo, ed altri duemila circa dovevano seguire la stessa sorte allorché i fascisti presero possesso del potente organismo, nell'intento di valersene come di un serbatoio di ricchezza, di potenza e di voti; questi ultimi spillati con successive "elargizioni" di lavori, da farsi in prosecuzione di quelli in corso all'epoca dell'occupazione (nov. 1922).

a. c.