LE BONIFICHE RAVENNATILa causa precipua delle secolari disavventure romagnole è lo straripamento del Reno, avvenuto parecchi secoli fa. "Senza andare a quando il mare, nella valle del Po, giungeva alle colline del Monferrato e dilagava nelle paludi della Lomellina, e neppure a quando il Quaternario era appena emerso, ma cominciando soltanto da quegli avvenimenti del quali, per quanto antichi, ne sono rimasti chiari gli indizi sui luoghi, ampio campo di osservazioni ancora rimane per lo studio delle trasformazioni idrografiche del Reno" come autorevolmente afferma Eugenio Perrone, estensore della Carta idrografica d'Italia pubblicata nel 1919 per conto del Ministero dell'Agricoltura, Industria e Commercio, il quale aggiunge che "il Reno era un tributario del Po e lo erano ugualmente i grossi affluenti di destra e del suo tronco in pianura; cioè l'Idice, il Sillaro, il Santerno e il Senio. Né in esso sboccavano altri torrenti all'est e neppure vi si versavano le acque della pianura emiliana, le quali in quei tempi stagnavano per mancanza dei necessari collettori. Neppure, forse accoglieva dopo uscito dai monti, la Samoggia, a sinistra, che ora vi confluisce, né probabilmente, la Savena, a destra, da non molto tempo immessa nell'Idice, la quale prima sboccava nella palude". Fu soltanto in seguito alle trasformazioni ideografiche avvenute in epoche antiche nella bassa pianura, che il Reno proseguì fino al mare in alveo proprio, usurpando però il letto abbandonato dal Po di Primaro, l'antico grande collettore della pianura padana, avviato in altra direzione, ed accogliendo i quattro corsi d'acqua suddetti, che da allora divennero suoi tributari e costituirono con esso un solo bacino sebbene le loro relazioni comincino soltanto dal rispettivo punto di confluenza. La disgrazia principale di questo fiume è costituita dal fatto che le sue acque essendo fangose sin dall'antichità ha avuto la tendenza di ostruire i proprii sbocchi, rendendo per tal modo impossibile il suo naturale sbocco nel Po, e inevitabile il riversarsi delle sue acque nelle basse campagne della valle Ferrarese e Bolognese. Ogni comunicazione col Po è stata interrotta allorché l'ultimo canale palustre che bagnava le adiacenze di Porotto, fu anch'esso ostruito, nell'anno 1310 circa con grave danno delle zone già ricordate, le quali rimasero per più di cento anni semi allagate o, comunque, in balia delle acque, finché con opere artificiali il Reno non fu di nuovo fatto sboccare nel Po presso Bondeno attraverso un canale che fu fatto passare all'ovest di Cento, e nel quale furono fatte confluire le acque del Panavo e del Formigine. Ma anche questa sistemazione fu transitoria, perché nel 1459 il fiume trovavasi di già condotto all'est di Cento ed avviato a spandersi in colmata nelle valli di S. Martino presso Ferrara, e vi perdurò fino a quando nel 1526, fu immesso nel Po di Ferrara; provvedimento quest'ultimo di perniciose effetto, perché da esse ebbe origine quell'interrimento, che procedendo rapidamente, costrinse ben presto a rimettere il Reno nella valle di San Martino. Fra il 1600 intanto ed il 1608 fu raddrizzato l'ultimo tronco di Po di Primaro, che era il solo ramo rimasto vivo, dei due nei quali dividevasi il Po di Ferrara presso la città di cui prendeva il nome, ed altre opere furono eseguite per restituire l'acqua a quest'ultimo fiume. Tutto però riuscì vano: il Po di Ferrara continuò ad essere asciutto ed abbandonato il Reno, rotti gli argini della colmata, inondò ancora le campagne fra Bologna e Ferrara: Gli anni fra il 1610 ed il 1750 trascorsero senza che nulla di importante si facesse per la sistemazione di quelle pianure, sia per il continuo mutar di parere degli scienziati, sia pel contrasto dei paesi disseminati lungo la vallata, non tutti soggetti ad una dominazione politica, oppure volta a volta trascurati o favoriti secondo il variare delle convenienze politiche, dal Papa dopo che ai suoi dominii aveva uniti quelli degli Estensi. (Crediamo che da ciò derivi il campanilismo delle due maggiori città emiliane e degli altri centri romagnoli che sarebbe, probabilmente, e invidia di favoriti, e litigio di servi per gli avanzi della cucina). Solo dopo la prima metà del XVIII secolo fu stabilito di volgere le acque del Reno direttamente al mare, incanalandole nel Po di Primaro, al quale scopo fu scavato il Cavo Benedettino (1740), rettilineo per dieci chilometri e furono rettificati vani altri tratti del Primaro stesso. Non riuscendo d'altronde ancora completamente la sistemazione del fiume, fu ripreso il progetto di rivolgere il fiume nel Po e nel 1807 fu costruito il Cavo Napoleone, rettilineo lungo tredici chilometri, dalla Panfilia a Bondeno, per riunire il Reno al Panaro e condurli al Po, presso la Stellata. Disgraziatamente però quest'opera non ebbe compimento ed il Reno continuò ad andare al mare per mezzo dell'alveo del Po di Primaro, senza che nessun nuovo provvedimento si adottasse, tranne diverse opere atte a rendere più efficace la descritta sistemazione, e ad impedire gli interramenti. Fra tali opere sono da annoverarsi la rettificazione di varii tronchi del fiume, la deviazione della Savena, condotta a sboccare nell'Idice, vicino a Bologna, destinandone l'alveo abbandonato a raccoglitore delle acque della pianura bolognese, e la deviazione dei torrenti Centonana, Idice, Quaderna, Sillaro, Santerno, Senio ed altri minori, che furono condotti a sboccare nel Reno. Parallela a questa zona renana o valliva, è la zona litoranea estendentesi lungo la spiaggia adriatica da Ravenna a Cervia che accoglie gli alvei del Lamone, dei Fiumi Uniti (Ronco e Montone, del Savio, dell'Uso (Rubicone), e della Mareconia, arricchiti delle acque degli affluenti minori originari dell'Appennino tosco-romagnolo, nonché dei fossi di scolo della pianura emiliana. Nei riguardi delle bonifiche ci interessa solo di conoscere le vicende del Lamone e dei Fiumi Uniti e del loro sfociare nella pianura ravennate, poiché soli essi dei ricordati fiumi hanno dato luogo, unitamente al Reno, già ricordato, all'estendersi della valle mediante i loro deviamenti. Sin dal 1504 l'alveo del Lamone, il quale giungeva presso alle porte di Ravenna, fu fatto deviare presso Ravenna e condotto a sboccare nel Po di Primaro a Sant'Alberto restandovi per quasi cento anni finché poi nel 1599 fu di nuovo fatto deviare e condotto nelle valli di Ravenna, ma per non restarvi che pochi anni, giacché nel 1605 fu di nuovo ricondotto nel Po di Primaro, dal quale fu dopo due anni un'altra volta tolto e immesso nelle valli di Savarna, dalle quali sfociava nel mare per mezzo di un colatore. Ma anche questa sistemazione non doveva essere definitiva. Nel 1700 pur lasciandogli sempre attraversare le valli di Savarna ad occidente, a sud di Sant'Alberto gli fu aperto un alveo mediante il quale fu fatto sfociare nell'Adriatico attraverso il passo di Cortelazzo e la foce di Mele; finché nel 1839 in seguito della rotta alle Ammonite, fra Villanova e Mezzano, lungo circa 250 metri, non precipitò ancora una volta nelle valli di Sant'Egidio e di Savarna, ove fu fatto spagliare per iniziare così la colmata delle valli di Ravenna con una superficie di circa 8.000 ettari. Questo fu l'inizio vero e proprio della bonifica ravennate. La rotta non fu chiusa che fra il 1880 ed il 1890, dopo che furono colmate e date alla coltura intensiva le terre al nord ed all'ovest di Ravenna e quelle di Camerlona, Montagnola e delle Torri, ripristinando, arginandolo, un tratto dell'alveo abbandonato nel 1839, fino cioè poco oltre il villaggio Le Torri, presso Cà Bastogi, aprendovi ad est, ad angolo retto, un drizzagno lungo poco più di due chilometri, per condurre le acque a spagliare nella estrema parte settentrionale nelle valli di Savarna e continuare la colmata attualmente in via di completamento. Infine in questi ultimi anni è stato sistemato l'ultimo tronco del suo nuovo alveo, nel quale si raccolgono le acque di colmata, ripristinando l'antico alveo del Lamone che passava presso Casa Baronia che fu abbandonato in conseguenza delle colmate. Meno c'è da dire sui fiumi Montone e Ronco che si congiungono ad un chilometro e mezzo a sud di Ravenna, per dirigersi uniti in un solo alveo nel mare Adriatico a dieci chilometri e mezzo di distanza dalla loro confluenza. Anticamente questi due fiumi non erano uniti ed avevano le loro foci separate le quali sboccavano nel lungo golfo che occupava la valle padana-emiliana-romagnola, prima che si cambiasse e si trasformasse nell'odierna vasta pianura. Il comune alveo detto poi dei Fiumi Uniti fu aperto nel 1736 da Papa Clemente II (il quale fece inoltre costruire il canale-porto chiamato poi Corsini in omaggio a lui), per liberare Ravenna dai pericoli delle inondazioni cui era soggetta. Dagli altri fiumi (il Savio, il Rubicone, la Marecchia) che bagnano la pianura forlivese sino a Rimini, non è necessario parlare, poiché la zona in cui svolge il loro corso è sana ed il loro sbocco nell'Adriatico avviene in circostanze comuni e naturali senza dar luogo che raramente ad inconvenienti degni di nota. Abbiamo voluto osservare da vicino lo scheletro orografico-idrografico della regione Emiliana-Romagnola e seguire il corso dei fiumi che la bagnano; poiché una esatta cognizione geografica è la base prima della conoscenza dei suoi problemi. Il sapere che in Romagna ha la forma di un anfiteatro nei suoi contrafforti appenninici che dalle colline dell'Appennino tosco-romagnolo sino a quelle dell'Appennino bolognese la recingono a guisa di balcone dall'alto del quale è possibile osservare la immensa pianura romagnola vera e propria ed emiliana, la quale, attraverso l'agro ferrarese e rodigino, va a digradare nella Laguna veneta, facilita la comprensione di quanto si verrà esponendo, poiché chiarisce come dalla diversità planimetrica e morfologica del terreno sia derivata la diversità delle colture e dei contratti agricoli, che com'è facile capire, non possono essere le stesse e gli stessi nella pianura bassa, nella pianura vera e propria, e nella collina. La vasta estensione detta pianura bassa bonificata non può essere coltivata allo stesso modo, collo stesso sistema e collo stesso personale della pianure e della collina, ed ecco con ciò spiegata la diversità delle colture e dei contratti, e la necessità di usare diverso personale, che sarà numerariamente maggiore dove più vasta è l'estensione da coltivare (e si veda in ciò la necessità della diretta conduzione collettiva-cooperativa e della susseguente conduzione a terzeria), oppure assumerà il carattere della conduzione a mezzadria individuale, o famigliare, dove minore sarà l'estensione da coltivare (in collina cioè e nella pianura), dove il terreno frazionato in piccoli lotti richiede minor numero di braccia. Ritornando dunque alle bonifiche abbiamo visto che esse cominciano appena nel secolo scorso colla bonifica a colmata delle valli ravennati, allagate dal Lamone (1889); non potendosi i lavori di irrigazione e di arginatura compiuti nei precedenti secoli dai Papi e dai Signori di Ferrara, considerarsi lavori veri e proprii di bonifica, ma lavori di preparazione alla bonifica. Non va perciò passato sotto silenzio quanto da Clemente XII, da Benedetto XIV, da Pio VI e VII è stato fatto per la sistemazione idrografica dell'Emilia e della Romagna; poiché a questi papi la nostra regione deve molto del suo sviluppo e della sua ricchezza, accresciuta nel secolo XVIII in grazia ai canali di irrigazione di viabilità, i quali molto servirono all'incremento e perfezionamento dell'agricoltura, nonché alla crezione di molti opifici, quali molini, filatoi, tintorie, fabbriche di laterizi, di ceramiche, carrozzerie, ecc., i cui prodotti venivano per l'appunto trasportati mediante questi canali, che resi navigabili servirono oltre che ad allacciare i piccoli centri quali Faenza, Lugo, Forlì Cesena, ecc., alla città capoluogo di Legazione, Ravenna, al determinarsi di una nuova classe dirigente, la borghese, che nell'agricoltura e nei traffici trovava la ricchezza e la sua ragione di essere. La rinascita architettonica civile delle città romagnole che a quell'epoca su vasta scala avvenne, è la dimostrazione evidente di quanto asseriamo, nonché la prima affermazione di quella borghesia urbana (ghibellina) la quale diede soldati alla causa napoleonica e cospiratori al risorgimento nazionale; quanto la rinascita della architettura ecclesiastica è la dimostrazione della illuministica razionalità del sistema catastale e tributario del governo papale, conseguenza e causa dell'accresciuta ricchezza; quanto il diffondersi della piccola proprietà agraria e del frazionamento delle terre, furono la causa e la dimostrazione del sorgere, parallela alla classe aristocratica in decadenza, una nuova borghesia rurale guelfa, per intero soggetta agli ecclesiastici, dai quali riceveva ispirazione ed idee. Anche questa parte della nuova classe borghese dovrà poi avere grande parte negli avvenimenti storici posteriori, di fronte ai quali prenderà ognora posizione coll'improntare il suo intervento a sentimenti di diffidenza e di conservazione. Col solo fissare i termini di codesta distinzione è chiarito l'antefatto di quanto s'è svolto sotto ai nostri occhi appena dieci anni fa, allorché i braccianti incontrarono la tenace resistenza dei coloni e degli affittuari nella lotta per le macchine. Il lavoro di bonifica vera e propria è cominciato solo nel secolo scorso, e precisamente dopo il 1840; intendendo per lavoro di bonifica quanto si fa per la riattivazione di un terreno reso incoltivabile dalle acque. Con questo, però, non si vuol dire che tale lavoro non sia stato compiuto anche nei secoli precedenti; giacché basterebbe l'esempio di quanto ha fatto (purtroppo inutilmente!) per la zona renana il card. Boncompagni-Ludovisi nel secolo XVIII per conto di Papa Pio VI Braschi; la cui bonifica, però, come abbiamo detto, non fu che indiretta, e contingente, presto spandendosi le acque di bel nuovo nelle campagne bolognesi comprese fra il Sillaro ed il Reno a causa della troppa lunga e debole arginatura. Le bonifiche ravennati hanno dunque una storia breve; ciò che fa vedere come meritoria, sollecita sia stata l'opera degli uomini, al tempo stesso che fa intuire quanto forte sia stata la spesa sostenuta dai Governi per la redenzione di questa plaga. Né a noi, né forse ad altri, sarà dato mai di farne il computo. Certo, a giudicando da quanto è avvenuto in questi ultimi tempi, deve essere ingentissima. Nel prossimo numero: Le cooperative ravennati ARMANDO CAVALLI
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