POLEMICA CONTRO I COMPLICIChi prenda a considerare l'odierna situazione politica italiana con l'animo appassionato e interessato dell'italiano, non con l'indifferenza data dall'obiettività dello straniero, prova un senso di pena, una sofferenza acuta che si tramuta in un incomposto desiderio di demolizione, di negazione senza limiti di tutto ciò che è nel nostro mondo politico, nella volontà di allontanarsi da tutto il passato, di cominciare comunque una vita nuova. Il fascismo ci costringe ad una lotta vana. Non un passo innanzi. Essa si risolve in sostanza ad una riconquista di ciò che già raggiungemmo senza uno sforzo cosciente di masse e che la nostra poltroneria ci ha fatto perdere; ma a tale fatica il fascismo ci costringe in una atmosfera di stagnante mediocrità e la sua volgare retorica è il solo segno precipuo dell'attività nazionale. Né i suoi avversari sembra possano assurgere all'unico piano sul quale dovrebbero dare (non accettare) battaglia. E parliamo di battaglia visto che siam ridotti, in mancanza di più nobili bersagli, a inforcar il caval d'Orlando per rovesciare un movimento che un popolo veramente moderno avrebbe liquidato con un motto di spirito, come si caccia con un gesto annoiato un moscerino molesto. Essi non sanno, cristallizzati dall'abitudine inveterata del calcolo elettorale considerato come meta e non come mezzo, costituire un Governo dell'Italia di fronte al Governo ufficiale, essi non sanno porre il problema nei suoi termini più semplici e più veri, affermando senza ambiguità la volontà di assumere il potere e la responsabilità della restaurazione liberale. Il partito che vi si accingesse rischierebbe forse le sue fortune immediate, assicurandosi un più lontano avvenire. Ma non son queste accettabili prospettive per un partito italiano. D'altronde, si dice, il fascismo ha la forza armata. Cessate dallo sperare nella sua trasformazione, ponetevi allo sbaraglio di una lotta che lo neghi interamente e veramente, la sua forza si dissolverà per incanto. Ma bisogna volere. Ed è possibile tutto ciò? Lo abbiamo per un momento sperato invano. Manca in Italia la materia per una lotta politica di stile; non vi sono cittadini ma fioriscono lazzaroni e stenterelli desiderosi di un padrone. Ma bisognerà pur farli questi italiani, bisognerà pur dare una tempra alle loro animule cortigiane scagliandoli in una lotta per un'idea vicina o lontana; una lotta combattuta con cuore saldo, non mercato di ogni dignità per l'acquisto della quiete, sogno di un popolo di mezzemaniche. Gli italiani hanno espresso nel fascismo quanto di più italiano potessero dare, e oggi a due anni dalla pseudo-rivoluzione, dopo due anni di proclamate audacie dei pochi contro i molti della qualità contro la quantità, dell'idea contro la materia, a due anni dalla fondazione dell'Italia dinamica e imperiale, sono di fronte ancora all'eterno problema della loro insufficienza politica. Manca a noi quella maturità di pensiero, quella severa disciplina intima nascente dallo sforzo perenne della personale elevazione che la Riforma ha dato ai popoli del Nord. E' dubbio però che in Italia sia possibile un movimento protestante come in generale un movimento a base profondamente religiosa. Lo stesso cattolicismo vi è così equivoco, formale, esteriore che ben difficilmente può darci i presupposti necessari per una riforma spirituale delle masse ben lontane dall'idea cristiana. Solo la lotta politica dunque potrà scuoterci dalla nostra miseria e darci un pensiero originale; la lotta politica col suo necessario fondamento di interessi materiali. Il fascismo avrebbe potuto storicamente valere a ciò, qualora fosse stato conseguente a sé stesso, avesse avuto una chiara coscienza dei suoi fini di reazione, si fosse fatto vero e duro assertore dei diritti della sua rivoluzione negativa, negando ogni libertà e instaurando quella dittatura che è la sua costante aspirazione, forse appunto perché esso si sente incapace d'attuarla. E la compressione di ogni libertà, senza compromessi e senza patteggiamenti, avrebbe forse destata negli italiani una scintilla di rinnovamento, avrebbe con una incontenibile rivolta dato ad essi il gusto della lotta per un'idea. Oggi Mussolini dice che gli italiani gli chiedono strade e non libertà, acquedotti e non libertà... e ha ragione. Quanti infatti di noi sanno volere la libertà? Il fascismo patteggia, si destreggia, fa la voce grossa ma contratta con quelli ch'esso, senza convinzione, definisce vinti e che sono i vincitori di fatto; governa con la forza di tutti i deboli - la lusinga, la menzogna, l'accomodantismo - e resta perché il Paese accetta lusinga menzogna e accomodantismo; e non se ne va perché i suoi più fieri nemici non lo vogliono e non lo possono sostituire, perché in esso si rispecchiano fedelmente. E' mancata la rivoluzione, bisogna dunque fare la rivoluzione. E qui dobbiamo intenderci e per intenderci dire cosa pensiamo sia una rivoluzione. O consideriamo semplicisticamente il fatto insurrezionale traverso il quale si impone un'idea qualsivoglia, ed allora dovremmo concludere che o si è rivoluzionari o si è liberali; non v'è possibilità di equivoco; si tratta di due posizioni antitetiche ed inavvicinabili. Ammesso che un'idea possa essere affermata e fatta prevalere mediante una serie di atti di violenza, noi veniamo a giustificare uno sviluppo ciclico di rivoluzioni successive nelle quali nulla ci assicura debba sempre prevalere il principio più utile. Il che evidentemente è in contrasto con l'idea liberale la quale tende, è vero, ad una interpretazione storicistica della vita sociale; per cui anche il fatto violento occasionale e le aspirazioni che lo hanno determinato sono una realtà che non può essere ripudiata, ma aspira a impostare una gara di principii perché si affermino quelli che valgono meglio, sin tanto però che tale miglior valore sia effettivo, cioè sia in grado di resistere per sua intrinseca virtù alla pressione dei principii avversi, dando vita ad un equilibrio continuamente rinnovato e rinnovabile. Se consideriamo al contrario la rivoluzione come fatto in perenne sviluppo, come svolgimento continuo spirituale e materiale della società allora sarà facile concludere che non si può essere liberali senza essere rivoluzionari, che si é rivoluzionari soltanto a patto di essere liberali, a patto cioè di saper cogliere la relatività di tutte le tendenze che determinano la risultante politica dello Stato, di saper interpretare, senza nessuna svalutare e senza nessuna sopravalutare, le diverse correnti che convogliano interessi, pensiero e aspirazioni delle classi, per potenziarle con un'opera d'avanguardia. Non potendosi negare che di fronte ad una forza bruta che impone una violazione della legge, possa una forza bruta svilupparsi nell'intento di ristabilire l'autorità della legge stessa liberamente formata, il pensiero liberale non vede in tale violenza la manifestazione vera e conclusiva del fatto rivoluzione, ma l'episodio occasionale che deve riaprire il ciclo rivoluzionario dalla violenza precedentemente in atto compresso ed impedito. Ripudiato così il concetto di rivoluzione nel senso volgare che lo restringe nei termini fallaci ed episodici di un violento rovesciamento, che non è né può essere per sé stesso forza costruttiva, occorre pur trovare un assetto nel quale il processo rivoluzionario si possa sviluppare, secondo il corso ininterrotto che lo caratterizza, sotto gli impulsi della volontà delle classi. Grande travaglio dei popoli moderni è precisamente quello di adeguare i loro istituti politici a questo compito. Il sistema parlamentare, il suffragio universale, la proporzionale, la divisione dei poteri, ecc., non sono che manifestazioni tipiche di questo sforzo e vane quando non siano sorrette da un pensiero liberale di negazione della violenza. Perché la violenza non può essere posta in atto che da chi si crede depositario della verità, mentre il liberalismo è ricerca inesausta della verità, è revisione di valori, è vaglio, confronto, gara di forze, e perciò appunto dubbio. Ma intendiamoci, noi rivendichiamo la funzione del parlamento, il rispetto dello statuto, l'onestà delle elezioni in quanto a tali istituti risponda nel paese un'atmosfera politica adeguata alla loro storia e significazione, in quanto essi non siano fatti e idee fuori del controllo della pubblica opinione pronta, desta e allenata alla battaglia; dei cittadini consci dei loro diritti civici e dei loro doveri politici, capaci di difendersi, non disposti a chinare il capo e la schiena dinanzi ad una minaccia o ad una frode alla legge comune, ma fermi nelle loro organizzazioni di partito, intransigenti e leali, gelosi custodi della loro autonomia economica e della loro libertà. Ecco perché diffidiamo di una liquidazione del fascismo operata dagli oppositori dell'ultima ora, difensori, è vero, ma solo oggi dell'autorità del parlamento e dello statuto, ma del parlamento giolittiano e dello statuto del 1848, che sono ancora il parlamento di Mussolini e lo statuto del fiancheggiatore Salandra. Nella battaglia contro il fascismo noi non vediamo che un episodio preparatorio di quella lotta di classi e di partiti che è l'atmosfera costante nella quale si crea e vive lo Stato moderno. Liquidare il fascismo con la sua faziosità da medio evo di maniera, con le sue fisime illuministiche e paternalistiche e la sua impotente retorica imperialistica - assisa sull'asservimento delle coscienze della stirpe dei dominatori - non è per noi che la soluzione di un problema preliminare: la preparazione dell'arena nella quale dovranno scendere ad armi pari i campioni di ogni idea che abbiano il coraggio di misurarsi. Domani continueremo la nostra esaltazione di tutti i miti e a coloro che paghi forse di aver sbarazzato il Paese dall'attuale materia da codice penale, continueranno la tradizione fascista nel campo politico, dichiareremo la nostra lotta contro tutte le limitazioni della libertà e della autonomia degli sforzi delle classi e degli individui, affinché gli istituti che reggono le moderne democrazie siano anche in Italia mezzo di vita e di elevazione, non strumento per la perpetuazione della nostra avvilente incapacità politica. RICCARDO BAUER.
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