LA LOTTA DI CLASSE
NELLA VALLE PADANA
Le vicende della lotta agraria in Emilia si collegano strettamente, per indissolubile nesso storico, a quelle del partito socialista in questa regione. La presente situazione emiliana è l'inevitabile conseguenza della crisi socialista. La nostra regione fu la prima ad aderire al movimento socialista: è naturale che sia stata la prima a risentire gli effetti della crisi, alla quale quello ha soggiaciuto.
Come si verificò una tale connessione e come fu possibile una così fortunata ascensione del socialismo?
Il movimento socialista emiliano non è mai stato, e non è un movimento seriamente, efficacemente socialista, ma un movimento piccolo borghese, che si svolge ai margini dell'economia borghese, rodendo i bordi della grande proprietà terriera: un misto di politica e di economia, di cooperativismo e di protezionismo, di rivoluzionarismo da parata e di affarismo. Da questo movimento, che non ha nulla, assolutamente di rivoluzionario, sorgono lentamente classi nuove, nuovi ceti dirigenti, che diffondono il capitale e il senso, lo spirito, il desiderio della proprietà; spunta una nuova piccola borghesia rurale, contadina, minuta, taccagna, laboriosa, avida, sordida ed avara, che opporrà, domani, in un prossimo domani, alla massa famelica del bracciantato socialista una resistenza ben più salda di quella che non riuscì ad opporre la vecchia borghesia terriera, organizzatasi su un terreno di esclusiva resistenza. Compito specifico del socialismo nella nostra Regione fu quello di dare vita ad una nuova piccola borghesia, che tende ogni giorno più ad emanciparsi dalla tutela degli antichi ceti dirigenti.
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Lo svolgimento di questo fenomeno storico però si è fatalmente dovuto aggirare intorno ad un dato fisso, fondamentale in queste regioni, costituito dal fattore demografico.
Nella nostra provincia esiste effettivamente un eccesso di popolazione. Per un po' di tempo alcuni economisti ne hanno dubitato ed io pure (e confesso il mio errore), ne parlai come di una speculazione socialista. Ma anche gli increduli hanno dovuto ammettere tale fenomeno in tutta la sua gravità. Una recente inchiesta agraria lo accetta come una premessa fuori discussione.
Il nostro proletariato agricolo non può emigrare e domanda alla terra su la quale abita e vive i mezzi della sussistenza. Per quanto scarso sia il numero delle giornate lavorative, il bracciante, l'avventizio, che costituisce il grosso del proletariato agricolo, deve trarre da esse il modo di vivere durante l'intera annata. Di qui la necessità di istituire i turni di lavoro, di abolire lo scambio d'opere, la resistenza all'introduzione delle macchine e gli alti salari.
E' noto che la disoccupazione nella valle padana colpisce sopratutto lo sterminato esercito dei braccianti, che lavorano, ordinariamente, una media di 250 giorni all'anno. Questa enorme massa, attraverso dolorosissimi esperimenti, attraverso lotte asprissime è riuscita, in un periodo di vent'anni, ad inquadrarsi in leghe di resistenza saldissime, le quali, attraverso gli uffici di collocamento, distribuiscono la mano d'opera ai datori di lavoro. L'iscrizione alle leghe segnò il primo passo nella lotta di redenzione di quel disgraziato proletariato rurale; il secondo passo fu segnato dall'istituzione degli uffici di collocamento, indispensabili per regolare i turni di lavoro in misura equa fra gli associati, in modo da evitare dolorose sperequazioni, la peggiore delle sperequazioni: quella fra chi lavora e mangia e chi sta a guardare e patisce la fame. Non passò molto tempo, che il turno di lavoro si palesò insufficiente, o, per dire meglio, si avvertì la necessità di perfezionarlo con qualche nuova provvidenza.
Fu a questo punto che si iniziò la memorabile lotta per l'abolizione dello scambio d'opere fra coloni, conclusasi col trionfo dei braccianti, che ottenevano la estensione del loro mercato per un ulteriore collocamento di mano d'opera disoccupata. E ciò non bastò: nella necessità di aprire sempre nuovi sbocchi alla mano d'opera, la organizzazione cercò di inquadrare nelle proprie file quei lavoratori - i così detti "obbligati" del Ferrarese, ad es. - che potevano essere riguardati come dei privilegiati, in quanto godevano di una dimora fissa e di un canone annuo ugualmente fisso. Così si concludeva la prima fase della lotta, veramente titanica, combattuta dal proletariato rurale della valle padana contro la disoccupazione, contro la prepotenza padronale, contro la pellagra, contro la fame.
Chiusasi questa prima fase della lotta per la sua lenta redenzione, il bracciantato, assillato da un permanente bisogno di estendere il proprio raggio d'azione, si interessa direttamente alle sorti della produzione. Si allea coi mezzadri, ai quali aveva già limitato le loro funzioni mercè l'abolizione dello scambio d'opere. Si allea coi mezzadri e li inquadra nel proprio esercito, si da creare un esercito unico e formidabile. Interviene come parte in causa nella stipulazione dei patti colonici, che regolano i rapporti fra colono e proprietario (o affittuario) ed interviene con il fermo proposito di obbligare il colono ad intensificare la produzione mediante una serie di clausole, che mirano, sostanzialmente, a questi tre fini ben determinati: 1) addossare al proprietario, anziché al colono, la maggior parte delle spese per l'impiego dei capitali circolanti; 2) assegnare una parte dei lavori ordinari, che, di solito, gravavano sui i coloni (o come spesa o come vera e propria fatica) ai braccianti, accollando ai proprietari l'onere dei relativi salari; 3) rinnovare radicalmente il patto di mezzadria, attuando, nella distribuzione dei prodotti, non il criterio meramente aritmetico della divisione in due parti uguali, ma l'altro, di gran lunga più razionale, secondo il quale la divisione dei prodotti varia a seconda della quantità di lavoro e di capitale rispettivamente impiegati nella creazione dei prodotti medesimi.
Concludendo, non è possibile rendersi conto dell'intricato complesso di fenomeni sociali di questa regione, ove non si tenga presente un fatto fondamentale, su cui un acuto economista, il prof. Gustavo del Vecchio, ha richiamato già l'attenzione: che, cioè, la terra emiliana, lungi dall'essere, come quasi sempre altrove, un fattore di produzione statico, sistemato in tutti i suoi elementi (scoli, strade, piantagioni, ecc.), è invece tuttora oggetto di progressiva e costante trasformazione. Si è passati, così, dalle culture erbacee a quelle del riso, a quelle dei cereali via via fino alle intense culture industriali (canapa, bietola). La popolazione richiesta per questa immane opera di trasformazione non può avere i caratteri di stabilità offerta generalmente alla popolazione agricola; ma presenta, invece, tutto il carattere del proletariato industriale, perché analoghe ne sono le origini demografiche e la condizione economica.
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Il prezzo, quasi proibitivo, della mano d'opera, produsse una contrazione del suo consumo: proprietari, piccoli affittuari, mezzadri, ridussero al minimo il consumo della mano d'opera per lavori che finivano, in molti casi, per essere fine a se stessi. Tutta la nostra agricoltura ne soffrì e la tecnica agraria subì un arresto, rimediato in parte dalla rara abilità dei nostri agricoltori. Per un po' di tempo intervenne lo Stato mediante la concessione di lavori pubblici, largiti nei mesi invernali, sotto la pressione delle dimostrazioni e dei tumulti. Senonchè questo rimedio si verificò, in parecchi casi, peggiore del male. Questi lavori, per quanto concessi nei mesi della maggiore miseria, non erano eseguibili, in gran parte, che nella primavera e nell' estate, quando, cioè, si iniziavamo i normali lavori dei campi. Si assisteva, pertanto, a questo curioso paradosso: che la sovrabbondanza dei lavori in corso (i pubblici ed i privati sommati insieme) creava una vera e propria rarefazione della mano d'opera, che favoriva le pretese di alti salari. I lavori pubblici, escogitati a fine caritativo e di ordine pubblico, costituivano il fondo di guerra delle organizzazioni nella lotta contro la proprietà terriera! Si venne creando, negli anni precedenti alla guerra, una economia artificiale, che viveva di favori cooperativi e di appannaggi governativi, in cambio ed in funzione di servizi politici. Fu, quello, il periodo aureo del riformismo, contrassegnato dall'alleanza tacita fra il cooperativismo socialista, la bonifica e le grandi imprese dell'industrialismo agricolo protetto.
La borghesia terriera - mi riferisco ai grandi capitani ed estendo lo sguardo a tutta la valle padana - con una audacia singolare anticipò e, forse, anticipò troppo, il rinnovamento della nostra agricoltura, nella fretta di accaparrarsi gli aiuti dello Stato e forzò le possibilità "economiche" della produzione, sconquassando il ritmo lento e normale del lavoro in rapporto alla popolazione. L'organizzazione operaia si costituì in sindacato della mano d'opera e beneficiò sotto forma di alti salari, di una situazione anormale, che lo Stato contribuiva a creare perseguendo fini di ordine pubblico. Il socialismo, di fronte alla pletora umana, non poté resistere alla tentazione di farsi il protettore di tutti gli interessi medii e proletari: dei contadini, dei braccianti, dei piccoli proprietari. Condizione sine qua non per realizzare un simile programma fu la creazione del trust della mano d'opera, che doveva funzionare in condizioni di assoluto monopolio, sotto pena di veder crollare l'impalcatura economica, su la quale si regge tutto il socialismo padano.
Di fronte a quella situazione anormale e certo pericolosa gli economisti liberisti gettavano il grido d'allarme, ma non sapevano proporre che due rimedi: l'emigrazione (tesi Einaudi), e l'appoderamento, la creazione artificiale della piccola proprietà (tesi Flora). Entrambe le tesi sono destituite di fondamento.
La disoccupazione nella valle padana non è costante in tutti i mesi dell'anno; ma - per i caratteri dell'agricoltura e per il clima -, è stagionale. Dal maggio fino a tutto settembre tutta la mano d'opera disponibile trova occupazione: è necessaria. Di qui ha origine l'avventiziato agricolo, perché l'economia dell'azienda non comporta che vi si fissi sopra, per tutto l'anno, una quantità di mano d'opera, la quale serve solo per alcuni mesi dell'anno. In queste condizioni se l'eccesso di mano d'opera, che si agita nei mesi invernali, emigrasse, che cosa avverrebbe? Creato un certo equilibrio nei mesi d'inverno, si determinerebbe uno squilibrio gravissimo nei mesi di estate. La mano d'opera rarefatta ecciterebbe le domande e terrebbe alto il prezzo del lavoro. Istituire la concorrenza nel mercato del lavoro chiamando i krumiri? Illusioni! A parte il fatto che i krumiri, anche quando lavorano a prezzi di concorrenza, costano il doppio e, talvolta, il triplo della mano d'opera locale (spese di viaggi, di alloggi, indennità, ecc.), non è chi ignori i gravi problemi di ordine pubblico, cui danno luogo questi rimedi, suggeriti dalla astratta logica liberista. E allora? Emigrazione interna? Guai a parlarne col senatore Einaudi.
Che l'emigrazione nella pianura padana non possa costituire un serio rimedio, è riconosciuto, oramai, da tutti gli osservatori spassionati delle vicende agrarie di quella regione. Nella relazione presentata alla Commissione parlamentare per l'accertamento dei fatti avvenuti in Bologna nel 1920, il Presidente dell'Agraria, conte Filippo Cavazza, scriveva: "Tanto la disoccupazione come la mancanza di mano d'opera derivano da due cause di fatto. Prima la irregolare e diversa distribuzione della popolazione agricola, le cui densità locali non sono, oggi, più in relazione con le condizioni dell'agricoltura tanto modificata negli ultimi venti anni; secondo, le condizioni specifiche del lavoro agricolo, il quale per ragioni ovvie (climatiche e culturali), richiede, in certi periodi dell'anno, un grandissimo numero di braccia, mentre, in altri, non può offrire lavoro che ad un numero molto più limitato. Negli anni in cui si svolgevano intensi lavori di bonifica delle singole tenute e nuovi impianti e sistemazioni, vi era, naturalmente, un maggiore e più continuo assorbimento della mano d'opera, mentre si avvera, oggi, che nei comuni, dove è estesissima la mezzadria ad intensiva coltura, pure essendo grandemente aumentata la produzione, si è inasprita la piaga della disoccupazione. Nei comuni, invece, in cui si trovano terreni da poco bonificati e in gran parte coltivati a risaia o ad erbai, si verifica una grandissima oscillazione di richiesta di mano d'opera, e, cioè, disoccupazione invernale e mancanza di mano d'opera estiva". Naturalmente, la responsabilità delle ripercussioni sociali di tali anomalie demografiche e tecniche, è tutta dei socialisti!
Non più fondato è il rimedio escogitato dai fautori dell'appoderamento. Il loro motto è questo: abbasso l'avventiziato! Viva la piccola proprietà! Teorie... Appoderare! E dove? In molte zone, intanto, l'appoderamento è impossibile per la mancanza della bonifica idraulica. Come si potrebbe appoderare, ad esempio, nelle valli di Crevalcore, di Molinella, nella zona di Comacchio? E poi, quanto costa, oggi, un podere? Un podere di dieci o dodici ettari (4 o 5 mila lire l'ettaro), costa 50 mila lire. E i fabbricati (abitazione, stalla, aja, pozzo, fienile, ecc...)? Sessantamila lire. E i lavori di sistemazione (strade interne, fossi, nuove piantagioni, siepi, ecc...)? Diecimila lire. Tirate le somme, non meno di 120 mila lire, di cui almeno 70 mila, in danaro contante. Immaginate un proprietario di una azienda di 120 ettari, desideroso di impiantare 12 poderi. Questo proprietario immaginario investirebbe un valore di circa un milione e mezzo e avrebbe bisogno di circa 900 mila lire in contanti. Dove li trova? E chi può garantire che quella stessa azienda varrà, in caso di vendita, almeno quel milione e mezzo, che è costata? E chi può assicurare che l'azienda, nella nuova organizzazione, pagherà un conveniente interesse al capitale investito e che dovrà essere ancora investito col bestiame, le macchine, gli attrezzi e le altre scorte? Per ogni podere bisogna aggiungere, alle 120 mila lire del valore terreno e fabbricati, almeno altre 30 mila lire di capitale fisso e circolante: in tutto 150 mila lire. Al sei per cento si ha un rendimento di 9.000 lire. E' proprio sicuro che ci si possa arrivare?
Ammettiamo, per amore di discussione, che tutta la pianura padana sia appoderata. Sarebbe risolta, con questo la questione sociale, che la tormenta? Nemmeno per sogno. Appoderata tutta la valle padana, bisognerebbe cacciar via tutta una popolazione, che, in conseguenza dell'appoderamento, verrebbe a trovarsi in permanenza disoccupata. E' noto che il piccolo coltivatore non chiama mano d'opera estranea, per un istintivo e secolare odio verso l'avventizio e per non ridurre di un solo centesimo i propri redditi.
Ciò vale per l'aspetto sociale della questione. Per l'aspetto tecnico, l'appoderamento non offre nessun vantaggio economico. Si pensa ai mezzi di coltivazione che la moderna tecnica agraria presenta come già applicabili ed a quelli che ha in esperimento con probabilità di successo per portare la terra a più alto rendimento (macchine complesse e costose, industrie specializzate, ecc...) e ci si domanda come in un piccolo podere quei mezzi sarebbero tecnicamente applicabili!
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Ma come mai i socialisti, nelle ultime lotte agrarie, si sono battuti con tanto accanimento per i contadini? che cosa hanno a che vedere i contadini, i ricchi, gli esosi contadini coi bracciantato, col proletariato rurale?
I socialisti hanno preso a cuore le sorti dei contadini per due ragioni: prima di tutto hanno voluto evitare che i contadini, mediante i risparmi e gli arricchimenti accumulati prima, durante e dopo la guerra, acquistassero le terre, rafforzando quella piccola proprietà esosa, che tende all'affamamento dell'avventiziato ed all'inasprimento della disoccupazione; in secondo luogo, hanno temuto che il distacco dei contadini dal resto del proletariato agricolo potesse compromettere quel monopolio della mano d'opera, che è, diciamolo francamente, una condizione essenziale per la distribuzione del lavoro in misura equa o, per lo meno, proporzionata. Non si può negare un tentativo di ordine in questa distribuzione della mano d'opera: l'unico tentativo di ordine possibile.
Come sempre avviene nella storia e nei movimenti sociali, i risultati sono in contraddizione con le premesse, coi motivi, che originarono una azione. La legge che il James chiama della eterogenia dei fini, trova, anche qui, una riprova palmare. L'organizzazione socialista non solo ha risolto il problema tremendo dei rapporti fra la popolazione e il mercato del lavoro, ma ha contribuito a creare una nuova piccola borghesia agraria, che non ha più nulla di comune col resto della popolazione agricola, col bracciantato e con quel socialismo, che l'ha messa al mondo. La recente lotta agraria fu condotta dai socialisti con una disciplina inaudita ed un rigore senza precedenti all'unico scopo di evitare che si spezzasse in due l'esercitò socialista: che i contadini andassero per conto proprio, isolando il resto della massa. Di qui il carattere intransigente della lotta, che doveva più che tutelare gli interessi di una classe, salvare l'unità di un esercito minacciato dalla defezione.
Si dovrebbe, allora, parlare di un conflitto fra due borghesie? Precisamente. La lotta che si svolge sotto i nostri occhi, non è una lotta, fra borghesia e proletariato, ma fra due piccole e medie borghesie: quella vecchia e quella nuova. In questo aspetto del problema non è difficile scorgere il lato reazionario.
Come, contro chi si forma questa nuova borghesia? E come resiste e come le si oppone la vecchia?
Esaminato nella sua complessità, il fenomeno emiliano si potrebbe definire un fenomeno di capitalismo operaio, piuttosto che un momento della rivolta contadina.
Mi spiego. Secondo una concezione volgare, borghese è il capitalista in genere e proletario colui che non dispone di capitali. Niente di meno esatto, perché anche il proletario è un capitalista, essendo portatore di un certo capitale personale, che non è per nulla meno importante degli altri capitali impiegati nella produzione. Storicamente, i portatori delle diverse categorie di capitali, si presentano in modo diverso. La lotta di classe è, effettivamente, lotta fra queste diverse categorie di portatori di capitali: portatori di capitali immobiliari, di capitali mobiliari, di capitali personali.
La democrazia ci ha fatto assistere al lento decadere della prevalenza assoluta dei portatori di capitali immobiliari di fronte si portatori di capitali mobiliari e personali. Nell'Emilia, ad esempio, i lavoratori della terra, hanno costituito delle Leghe di resistenza e delle Cooperative, le quali sono riuscite a sindacare la mano d'opera per il rialzo dei salari. I conservatori del bel tempo che fu, si dolgono di queste trasformazioni e si industriano a dare al loro malcontento una platina liberale e liberista. Ma hanno torto. I principii liberali, che essi invocano, se possono giovare a fare la critica del movimento operaio e socialista, servono anche a combattere quel sistema di privilegi, del quale la borghesia terriera beneficia e del quale non saprebbe e non vorrebbe fare a meno.
In nome del vecchio liberalismo i reazionarii (e ce ne sono ancora!) pretenderebbero che, essendosi i lavoratori trustati, lo Stato, lungi dal favorire il trust della mano d'opera, obbligasse i lavoratori ad un regime di libera concorrenza. Ma non è evidente che lo Stato non può impedire l'azione dei Sindacati dei lavoratori e non può riservare tutti i privilegi ai portatori dei capitali immobiliari e mobiliari, essendosi trovato nella necessità di riservarne anche ai lavoratori organizzati?
Con questo non voglio negare che i prezzi della mano d'opera si formino, in Emilia, in condizione di monopolio e che codesti prezzi siano più alti dei prezzi che si avrebbero in regime di libera concorrenza; dico soltanto che lo Stato non può impedire la costituzione dei Sindacati dei lavoratori, mentre avrebbe potuto togliere, in passato, alla borghesia terriera, la protezione, che determina il rialzo dei prezzi delle derrate ed avrebbe potuto negare il suo intervento nelle opere di bonifica, largamente sussidiate: quelle opere di bonifica, fatte, per sette decimi, col pubblico denaro, che hanno decuplicato il valore delle terre degli agrari della valle padana. I quali protestano, ora, contro il monopolio della mano d'opera e gli alti salari, in nome del liberismo! Commedianti!
La verità è questa: l'economia della valle padana è una economia "anormale"; anormale perché fondata tutta quanta su un sistema di protezionismo. Vogliamo fare piazza pulita? E perché no? Ma da chi si incomincia? Dal lavoro o dal capitale? Il senatore Einaudi ricorda certamente che le prime agitazioni, i primi tumulti delle folle campagnole al grido "pane e lavoro" furono organizzate e sobillate dagli agrarii, da quegli agrarii che valorizzavano i loro terreni privati mercè i famosi lavori pubblici largiti per lenire la disoccupazione. Vecchie storie, ma non ancora dimenticabili.
MARIO MISSIROLI.
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