I LAPSI

    Lapsi furono detti durante le persecuzioni cristiane dei primi secoli, quanti rinnegavano la fede. Di tal genere di credenti ne produsse in modo speciale la persecuzione di Decio, dopo la quale si presentò alla Chiesa Cristiana il problema arduo, a lungo dibattuto, della posizione di costoro di fronte alla Chiesa. Non è senza interesse oggi riparlare di quei lapsi mentre altri se ne preparano.

    La persecuzione di Decio infierì intorno al 250, sanguinosa, crudele: a Roma come nelle lontane provincie. Qui più che a Roma i costumi e la disciplina della Chiesa cominciavano a rilassarsi, non solo presso il popolo, ma anche presso il Clero; agli interessi ultra terreni si sostituivano quelli mondani; alla rigidità dei costumi, la mollezza; alla intransigenza di fronte al paganesimo, il traffico con gl'idolatri. Così avveniva in modo speciale in Africa ove la lunga pace aveva infiacchito i cristiani, divenuti insensibili alle frustate della cruda intransigenza di Tertulliano come alle recriminazioni pie di Cipriano. Sicché la reazione sollevata da Decio, autentico romano, fanatico restauratore delle tradizioni nazionali e della religione ufficiale, trova la cristianità debole talché essa oppone alla persecuzione un atteggiamento obbrobrioso: alle prime minacce, non dico di morte, ma di confisca, la maggioranza cede e corre ai ripari. L'editto imperiale ordinava che di ufficio e senza attendere denunzie individuali, i magistrati costringessero tutti senza eccezione, a sacrificare; gli apostati a Cartagine divennero subito folla che si riversò negli uffici dei magistrati reclamando il certificato di sacrifizio. I magistrati e tutti gli impiegati incaricati del rilascio di tali salvacondotti, o di tali tessere, furono in quei giorni addirittura sopraffatti dall'affluenza di cristiani che dopo aver fatti i sacrifizii, ne richiedevano regolare certifica ai fini della salvezza del patrimonio e della pelle. Così la maggioranza. Ma c'era la minoranza, l'élite, la quale mancava forse del buonsenso borghese, ma comprendeva che val meglio perdere tutto il mondo che l'anima propria e perciò non mancarono i martiri il cui sangue fu il nuovo semen christianorum.





    Quel che c'interessa particolarmente è il fenomeno determinato dalla persecuzione in seno alla Chiesa Cristiana. Tra i superstiti, la persecuzione creò due categorie: i confessores e i lapsi. Furon detti confessores coloro che, avendo apertamente confessato la loro fede subivano prigionia, torture, sevizie, e tutte le sottili arti di una persecuzione crudele, lunga, finemente organizzata alla scopo dichiarato di annientare il cristianesimo, ma i quali non suggellavano il lungo martirio con la morte, risparmiati o dal caso o dalla tregua. Lapsi invece, come abbiamo detto, furon chiamati i rinnegatori della fede. Questi ultimi erano di diversa specie, secondo la forma del rinnegamento espressa dalla stessa denominazione che li distingueva: c'erano i thurificati, quelli cioè che avevano reso onore alle deità pagane, bruciando l'incenso dinanzi ai loro simulacri; c'erano i sacrificatores, quelli cioè che avevano offerto dei sacrifizi; i traditores, i quali avevano consegnato alle autorità le Sacre Scritture o che, peggio, avevano denunziato i fratelli di fede. E infine la sottospecie borghese del lapsi, i libellatici, i quali con atto doppiamente ipocrita rinnegavano la fede e non sacrificavano ma compravano l'atto falso (libello) che certificasse l'adempimento dell'abiura. Si può dire che la facevano in barba alla Chiesa ed agli dei falsi e bugiardi - forse meno di loro - contemporaneamente.





    Cessate le persecuzioni, tutta questa folla di pavidi, di accomodantisti, di affaristi, mista a pochi sinceri uomini di fede caduti in un momento di debolezza, accorse alle porte del tempio abbandonato, chiedendo di rientrare. La Chiesa si trovò dinanzi ad un problema urgente arduo improbo: accoglierli e temperare la rigidità dei costumi e delle osservanze che erano stati per due secoli la sua forza e la sua salvezza, oppure respingerli e orbarsi di una schiera non indifferente di credenti, tanto più necessaria, quanto più estenuata essa usciva dalle persecuzioni. Si formarono così due partiti: il primo che faceva capo a Navaziano, sostenne la tesi rigorista: nessuna conciliazione fra la Chiesa e i disertori; la parola d'ordine fu: anatema perpetuo agli idolatri; il secondo, a capo del quale era il pio e forte Vescovo Cipriano sostenne la tesi conciliatorista: riammissione dei disertori a condizione di un verace pentimento dopo lunga penitenza. E che le penitenze inflitte non fossero indifferenti, lo si può constatare da un solo esempio: il Concilio di Arcira imponeva due o tre anni di penitenza a quelli che avevano avuto il torto di assistere solamente a dei festini idolatri. Fra i due partiti si accese la lotta alla quale ardentemente parteciparono clero e laicato delle Chiese d'Occidente. La tesi rigorista però andò perdendo terreno, sempre più, anzitutto perché non era sorretta da personalità che si imponessero per serietà di vita. Novaziano per il primo non aveva dato prova di eroismo straordinario. E poi, ragione più forte, la lotta era impostata su motivi personali più che ideali, onde si spiega il determinarsi di una situazione paradossale, per la quale una figura austera, Cipriano, sta a capo dei conciliatoristi, ed una molto discutibile, Novaziano, a capo dei rigoristi. Il conciliatorista pio, Cipriano, dopo alcuni anni affronta serenamente e dignitosamente il martirio. "I santissimi imperatori ti ordinano di compiere le cerimonie" ingiunge il proconsole, ed egli: "Non lo farò mai!". E dopo qualche ora affronta la morte semplicemente, senza grandi gesti. Degnamente.





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    Ci sono, si sa, situazioni storiche che si ripetono se non nei medesimi termini, in termini simili e variano solo per la peculiarità delle istituzioni e degli uomini nei confronti dei quali esse tornano a determinarsi. Onde, in veste diversa e per una fede diversa, i lapsi si ripresentano oggi come ieri, e domani come oggi, affollantisi ora dinanzi all'autorità costituita, ora dinanzi alla nuova forza oppositrice, in cerca di libelli o di tessere, di accomodamenti o di indulgenze. Si potrebbero sviluppare sottili paralleli tra lapsi di ieri e di oggi. E non sarebbe senza interesse constatare quanta copia non casuale di particolari rende simili queste figure, distanziate dal tempo, ma vicine nello spirito. Basta pensare alle sottospecie dei thurificati che dinanzi all'autorità la quale, puta caso, fa la faccia feroce, bruciano incenso per salvare gl'interessi e la pelle; dei sacrificati che offrono in olocausto un passato dignitoso ed un'idea pur di sfuggire, che so io, ad un siluramento; dei traditori che consegnano l'anima propria e quella dei compagni di fede, per un posticino al sicuro; ed infine degl'innumerevoli libellatici che la fanno in barba ai Governi ed alle opposizioni, trafficando con false credenziali acquistate in moneta costante o in cambiali - è lo stesso - e che accontentano tutti ma salvano, per esempio, il patrimonio.

    Ora, quel che importa è questo: dinanzi alle defezioni innumerevoli dai partiti, dinanzi alla folla di incensatori, di sacrificatori, di traditori dell'idea e degli uomini, di libellatici forniti di tessere accettate o comprate, dinanzi alla folla di questi uomini che accorre a picchiare alla porta dell'Opposizione, dinanzi a tutti i Massimo Rocca e alle Leghe italiche melodrammatiche, sentirà essa la necessità di porsi il problema che si pose, alla metà del terzo secolo, la Chiesa? Sentirà almeno ogni partito il problema: accettare o respingere? Rigorista o conciliatorista? Quale partito lo sentirà? La risposta non c'importa per la serietà e per la salvezza del partito ma per la serietà e la salvezza della coscienza nazionale. Poiché, in ultima analisi, il problema é lo stesso problema morale che investe in pieno la vita politica nostra: accomodantismo, trasformismo, compromessismo, disonestà o serietà, intransigenza, chiarezza, onestà? Si dice: i partiti hanno bisogno di masse. Quando però la Chiesa cominciò a pensare così, iniziò la discesa della parabola fino a buttarsi fra le braccia di Costantino.





    Né il problema politico di oggi è di natura diversa dal problema di fede che si affacciò alla decadenza romana: investe come quello le basi della vita politica stessa. In morale o si è intransigenti o si è probabilisti. O si è Calvinisti e Kantiani o si é Layolani e Gesuiti. Pensate un momento a tanti santoni liberali e frammassoni che dopo aver abiurato partecipando a tutte le sagre (festini idolatri) con coccarde e distintivi, tornano a chieder asilo tra le file già abbandonate, e ditemi se dinanzi a questo spettacolo non s'impone il problema prima che politico, morale.

    Perciò sulle linee della serietà, della intransigenza, della chiarezza, in una parola della onestà, ci sembra che la rivoluzione ideale della Nazione debba procedere. Occorre che di questi valori morali non s'improvvisino interpetri né demagoghi né falsi profeti colle liste nere di proscrizione in tasca, ma uomini capaci nello stesso tempo: di conciliazione coll'uomo ma di assoluta intransigenza con la coscienza. Come Cipriano, che temperato e conciliatorista con gli altri, diventa intransigente con la propria coscienza, dinanzi al bivio: o la fede o la morte. Uomini in cui il profondo senso di umanità non sia sentimentalismo e la inflessibilità cominci ad esercitarsi dalla propria coscienza.

    Noi abbiamo incominciano a dubitare vedendo che dall'Aventino non si rifiuta la benevolenza agli Avvalorati di Livorno e ai convegni di Zoagli.

T. R. CASTIGLIONE