INVENTARIO DI CULTURA

TILGHER

    Gli scrittori dei quali ho parlato fin qui sono a cavaliere tra due periodi, sono uomini, che hanno approfittato di un'esperienza precedente per rinnovarsi. Ma quali sono gli uomini nuovi e qual'è la loro fisionomia?

    Anche questi uomini nuovi, maturatisi nel periodo della guerra, risentono del caos, per dove sono passati, e sarebbe vano ricercare una fisionomia comune. Si può dire, molto all'ingrosso, che sono più o meno in contrapposto con le tendenze del periodo vociano; e si possono raggruppare in due categorie, una negativa, l'altra ricostruttiva. La prima ha come figure centrali Adriano Tilgher e Luigi Pirandello, l'altra è costituita quasi per intero dalle numerose e diverse tendenze verso un risveglio o un rinnovamento religioso.

    Durante la guerra un umorista che ebbe intuizioni acutissime, Ernesto Ragazzoni, aveva interpretato con questi versi lo sgomento che era nell'aria:

    Il cannone, Tamagno delle battaglie, abusa della sua voce, e fulmina - Oh dunque dai roveti ardenti più non parlano i Jeova ai profeti?
Non tentenna la terra a un guardo di Medusa? Un Mane, Techel, Phares è a tutte le pareti...

    Tutto lo spirito del dopo-guerra è intristito e conturbato da un'attesa mancata, da un profetismo deluso. Le giovani generazioni non riescono a convincersi come la guerra non abbia prodotto e non produrrà altro che questo mondo, che vediamo, e nel quale viviamo così stentatamente: esse sono ancora turbate per la enorme sproporzione tra l'entità materiale degli avvenimenti da poco trascorsi e difficili a dimenticare e la scarsità degli effetti risultanti da un fenomeno vasto, ma quasi infecondo, perché povero di valori spirituali.





    Da quel senso di delusione per un profetismo mancato si diparte il pensiero di Adriano Tilgher.

    Il Tilgher, come è noto, proviene dal circolo crociano, e del Croce è stato il più attento ed acuto seguace fino al discorso di Heidelberg. Di là ha preso le mosse per una speculazione filosofica più personale, che lo ha messo spesso in dissidio col maestro e lo ha allontanato da Hegel per avvicinarlo a Fichte (Il Pragmatismo trascendentale: 1914). Egli è stato sempre lontano e diffidente verso il gruppo della Voce.

    Questi, in brevissimi tratti, i suoi precedenti culturali. Ma gli avvenimenti susseguiti al fatale estate del 1914 hanno provocato nel Tilgher la vera reazione mentale, che doveva maturare il suo pensiero e costituire la sua personalità. Egli vide fin dai primi mesi che la guerra mondiale rimetteva sul tappeto non solo un certo numero di questioni diplomatiche, di questioni etniche, ecc., ma sopratutto i problemi che riguardavano il mondo interiore, poiché i principi che avevano governato la vita intellettuale e morale della seconda metà del secolo XIX erano messi a dura prova, e bisognava che fossero assoggettati ad una revisione ab imis. Profondamente disgustato dalla superficialità dimostrata dalla più gran parte della nostra cultura - sia quella accademica, sia quella che qualche anno prima si era proclamata rinnovatrice -, il Tilgher si chiuse dentro di sé ed affrontò da solo il problema in lunghi mesi di aspra, tormentosa meditazione. Agli anni di silenzio sono seguiti perciò anni fecondissimi, che hanno posto lo scrittore, quasi d'un balzo, ad uno dei posti più in vista della nostra cultura contemporanea.





    La sua produzione tutta intera puó dirsi dominata dal pensiero centrale che ispirò gli scritti della Crisi mondiale. Nel saggio su Michele de Unamuno, inseriti nell'altro volume Voci del tempo (pensato contemporaneamente alla Crisi mondiale) il Tilgher, dopo aver analizzato quella teoria del chisciottismo, di cui l'Unamuno si fece quasi il filosofo, trovava in questa "religione dell'azione per l'azione" - che è poi il significato intimo del chisciottismo - l'unica vera religione della borghesia avanti la guerra. La Crisi mondiale è lo sviluppo, la dimostrazione analitica di quella visione sintetica dei precedenti intellettuali del conflitto mondiale. Da una parte esso "è la logica conseguenza della politica praticata dai grandi Stati di Europa dal 1870 al 1914, politica fondata sulla diplomazia segreta, sull'equilibrio delle potenze, sulla pace armata"; d'altra parta la crisi che ha condotto alla guerra, che si è sviluppata maggiormente durante la guerra e prepara nuove conseguenze è la crisi non di questo o quel procedimento politico, non di questo o quel regime particolare, sibbene la crisi della civiltà capitalistica affermatasi nella seconda metà del secolo XIX come civiltà dell'attività assoluta (il chisciottismo). E siccome tale crisi è ancora in via di sviluppo, le conseguenze che trae lo scrittore sono quanto mai pessimistiche. In uno degli scritti più desolati del libro il Tilgher termina con l'affermare che comunque vadano a concludersi le lotte, di cui è oggi teatro l'Europa, la civiltà europea è condannata:

    Sembra suonata ormai l'ora del secondo Medio Evo di Europa, della ritornata barbarie del mondo. Ad essa succederà certo un nuovo e splendido Rinascimento, ma i nostri occhi mortali non ne vedranno l'aurora. (Finis Europæ).

    E qui s' intrecciano nel pensiero dello scrittore, in maniera altamente suggestiva, quei ricordi della decadenza della civiltà antica durante il periodo dell'"ellenismo ", che aveva studiato alcuni mesi prima nel preparare l'altra opera sui Filosofi antichi. Nel "Crepuscolo degli Dei", al quale anche oggi si assiste, egli ritrova certe forme caratteristiche di scetticismo e di dilettantismo fiorite in quei tempi, e gli torna nella mente la cupa predizione di Salviano di fronte alle rovine della civiltà romana: - Moritur et ridet!





    La somma di questo primo periodo di studi, che va dai Filosofi antichi alla Crisi mondiale (1919-1921) porta il Tilgher a rappresentarsi un parallelismo di civiltà in decadenza, che soccombono sotto una medesima condanna morale (l'accusa di orgoglio):

    Germogliate da intuizioni del mondo, da atteggiamenti sentimentali di fronte alla vita, da stati d'animo affatto opposti, la civiltà classica greco-romana e la civiltà borghese sono state rose alla radice da un medesima tarlo... Quel tarlo è il peccato di orgoglio... l'antichità classica spinse fino allo spasimo l'orgoglio della rinuncia ascetica e della libertà interiore. La civiltà borghese ha spinto fino alla frenesia un orgoglio opposto: l'orgoglio della volontà attiva e della potenza... Quella ha conosciuto e praticato il misticismo della calma; questa il misticismo dell'azione... La civiltà della saggezza orgogliosa e sprezzante fu distrutta dalla religione degli umili e dei poverelli, dalla follia della croce Altro fu il castigo inflitto alla civiltà della Potenza. Fatta troppo angusta la terra a contener due padroni, gli uomini si scagliarono gli uni contro gli altri in una lotta di vita e di morte. I tesori accumulati in due secoli di lavoro febbrile sono sperperati e distrutti. La torre che essi lanciavano verso il cielo, a testimonianza superba della loro volontà di dominio, si abbatte con immenso fragore, schiacciando i costruttori audaci.

    Lo scrittore sentiva allora soffiare sul suo capo una ventata apocalittica, che veniva dalle frontiere disputate della Russia, attraversando i nostri campi ancora sconvolti dal cannone e pingui più di cadaveri che di biade. Ma un' apocalissi presuppone un Messia e una grande rivoluzione presuppone uno spirito prometeico; il male specifico dell'ora, quello che metteva un'ombra sul sorriso del Ragazzoni, era questo silenzio di Jeova intorno all'uomo, che rasentava gli abissi del buio. La stesso Lenin, che, per un momento, aveva prodotto una pausa di trepidante attesa - come se da lui dovesse partire il motto del nuovo secolo -aveva già stancato gli ultimi aspettanti, e si dimostrava, si, un possente tattico della rivoluzione, ma non un suscitatore di nuovi mondi.

    La scioglimento drammatico, che il Tilgher si aspettava in quel tempo, mancava, o almeno si frantumava in mille vani conati per fare violenza ai fati, per tagliare il nodo delle contraddizioni, nelle quali un'aberrante visione della vita aveva ingolfata la società. E' possibile che questa si trascini tra le soffocanti alternative delle sue contraddizioni?





    Il propositi di rispondere a questo quesito caratterizza il secondo periodo dell'attività del Tilgher, che si è aperto con l'opuscolo sui Relativisti contemporanei (1922), che ebbe tanta fortuna, oltre che pel suo merito intrinseco anche perché rivelava a molti uno stato di spirito diffuso. Il Tilgher riprende il filo delle sue meditazioni sulle origini spirituali della crisi europea; ma invece di insistere sulle analogie storiche riguardanti la fase ultima della crisi, incomincia a risalire la corrente, per determinare meglio le prime origini e lo sviluppo del male. Nel fare questo è portato a trascurare come secondarie le analogie con la crisi dell'antichità classica, ed a mettere in rilievo, invece, l'inconciliabile dualismo tra il pensiero statico, geometrico dell'antichità e quello dinamico, algebrico, spinto verso una x (Progresso) dell'epoca moderna (V. La visione greca della vita).

    Dalla netta determinazione di quest'antitesi si diparte la nuova speculazione del Tilgher. Il nuovo indirizzo di pensiero, implicito già nella lotta del cristianesimo contro l'ideale di saggezza classica, a mano a mano che ci avviciniamo al secolo XIX finisce per contrapporsi allo stesso cristianesimo ed a porsi come sapienza assoluta, come filosofia e religione dell'azione, che è diventata la vera dottrina e l'unica fede della civiltà capitalistica. Essa è passata per due periodi: quella dello storicismo (da Herder a Hegel), il quale riusciva a trovare, nel riformismo, un equilibrio tra le esigenze del passato, della tradizione e la indefinita spinta in avanti dell'intelletto, completamente libero, verso l'avvenire, cioè verso il movimento incessante, la rivoluzione. Ma quell'incerto equilibrio si è rotto il giorno in cui Schopenhauer rovesciò i termini del problema filosofico posto dall'idealismo postkantiano, sicché mentre questo aveva risolto l'esistenza nella conoscenza, Schopenhauer risolse la conoscenza nella vita, aprendo la porta al volontarismo irrazionalista, al misticismo ateo dell'azione - come il Tilgher lo definisce in un punto.





    Tutte le dottrine della fine del scolo XIX e dei primi anni del ventesimo, sotto maschere più a meno differenti, sono individui della stessa famiglia e portano nel sangue il male ereditario. Il Tilgher toglie brutalmente la maschera. Hans Vaihinger è figliuolo spirituale di Nietzsche; lui e lo Spengler spianano la via alle conclusioni relativiste portate nel campo fisico-matematico dall'Einstein. Dalla stessa linea discendono il bergsonismo e l'attualismo gentiliano:

    Nell'immensa varietà delle loro manifestazioni, tutti questi fenomeni spirituali germinano da una medesima radice, traducono... una medesima intuizione del mondo e della vita, per la quale lo spirito si rifiuta di ammettere una verità, una giustizia, una bontà, in una parola un ordine teoretico o pratico di valori che abbia esistenza in sé... L'uomo non ha più bisogno di cercare il centro della circonferenza del mondo, per contemplare di là l'unità di tutte le cose; egli stesso è questo centro, e, spostandosi, il centro si sposta con lui. All'immenso fiume del divenire universale l'uomo si rifiuta di assegnare un'origine ed una foce, di tracciare argini e ponti: con delizia lo vede sommergere ogni termine permanente ed immobile, con ebbrezza si abbandona al suo incessante fluire, al suo interminato mareggiare.

    La conclusione è stata la solita con cui sono umiliati i filosofi troppo orgogliosi. Questa dottrina che presumeva di aggiogare la vita è stata trascinata a furia dalla vita come Mazzeppa legato alla coda del cavallo indomato, poiché trovatasi, per ironia del destino, a faccia a faccia con fatti di una elementare, brutale semplicità (dall'assassinio di Serajevo alla marcia su Roma, per es.) e che pure sconvolgevano tutto un ordine di cose, quei sapienti non hanno saputo far di meglio che mettersi in salvo dietro il fatto compiuto, giustificandolo a posteriori con lenocini dialettici, che avrebbero lasciato perlesso un sofista.





    Questa rovesciamento di valori non sfugge all'occhio acuto del Tilgher, e quindi, sotto un'altro forma, si ripresenta la medesima domanda angosciosa che si era affacciata in Crisi mondiale: - Quale la soluzione? Allora, come abbiamo visto, una risposta veniva dalla stessa impostazione del parallelismo con la rovina della civiltà antica; ma ora egli cerca una soluzione, che risponda più direttamente all'analisi più approfondita del male nei suoi sintomi specifici. Ciò spiega la sua presente cautela di fronte al delicato problema. Perché, infine, è un problema che implica anche un esame di coscienza.

    Una soluzione radicale può essere proposta immantinenti, poniamo, da uno scrittore della Civiltà cattolica; ma il Tilgher resta idealista e immanentista e non se la sente né di rispondere al richiamo, che gli fece qualche anno fa il cattolico Giuliotti nell'Ora di Barabba, né di considerare la possibilità di una soluzione di equilibrio o di compromesso, che ci riparti ad uno stato di spiriti affine a quello del "periodo storicistico". Il suo temperamento assoluto, tagliente, intransigente non gli permette di tenersi calmo in posizioni di equilibrio e lo porta risolutamente di qua a di là. Ed allora bisogna che la crisi trovi nella sua stessa dialettica gli elementi, che o porteranno ad una liberazione e ad una rielaborazione della dottrina, oppure porteranno alla sua decadenza definitiva.

    Il Tilgher fino a questo momento (cioè fino alla pubblicazione di Ricognizioni: 1924) oscilla tra le due conclusioni; cosa che lo porta a sperare e a temere che si manifestino gli ultimi segni della decadenza. Nel saggio sul Vaihinger ha finanche uno scatto di ottimismo, augurandosi che l'irrazionalismo e il volontarismo possano essere un'arma ancora valida per distruggere gli ultimi resti dello storicismo per preparare una nuova cultura (irrazionalismo e volontarismo integrale?):

    Il dubbio scettico è l'arma con cui l'irrazionalismo e il volontarismo, romanticismo dell'avvenire, insorgono contro lo storicismo del passato, e tentano di demolirlo. Il dubbio di oggi prepara la fede intransigente di domani. Attraverso il dubbio alla fede, attraverso la negazione all'affermazione, attraverso il no al si.





    Ottimismo passeggero, sul quale lo scrittore non ritorna. Ritorna invece negli altri scritti dei Relativisti, e con maggiore esattezza storica, sul concetto che volontarismo e irrazionalismo non sono che un'ultima evoluzione (o degenerazione?) dello storicismo della prima metà del secolo XIX. Quale sarà allora lo sbocco della crisi? Talvolta a lui pare - e si augura - che questa crisi sia l'ultima posizione logica, a cui doveva portare la dialettica dello storicismo; ultimo atto di una rivoluzione di pensiero, che, di necessità, prepara una nuova era. Il pensiero del Tilgher ritrova quindi il primitivo equilibrio tra crisi politica e crisi di cultura:

    Al disopra e contro le intenzioni dei suoi stessi corifei il relativismo contemporaneo è essenzialmente rivoluzionario... Dissolvendo il mito della storia unilineare, indefinitamente capitalizzan tesi, il relativismo dissolve l'etica nata da quel mito... E' l'azione per l'azione, l'azione fine a sé stessa, in tutta l'infinità, ma anche in tutto il vuoto della sua natura. E poiché un'azione senza un contenuto qualsiasi è un assurdo ed un contenuto positivo qui è impossibile, così all'azione non rimane che proporsene uno negativo: il rovesciamento dell'ordine di cose esistente... Nel regno delle idee esso è l'ultimo atto, per ora, della crisi mondiale.

    Né questo è da deprecare; si può anzi indovinare nel Tilgher - in questo momento del suo pensiero - l'idea che, venuta meno la speranza di una rinnovazione europea attraverso una grande rivoluzione politica, sia da affrettare il processo di dissolvimento della cultura irrazionalistica, affinché s'inizi il rinnovamento da una rivoluzione filosofica, culturale, dalla quale rifiorirebbero i valori essenziali della vita:

    L'atto con cui il pensiero acquista coscienze della sua assoluta relatività non è forse l'atto stesso con cui, insieme e in un colpo solo, attraverso la negazione, ma per ciò stesso attraverso la posizione del pensiero, l'Assoluto rifolgora e balena allo spirito? Se ciò è vero, dall'estremo relativismo e soggettivismo rinasce, come Fenice dalle ceneri, l'Assoluto, termine ultimo al quale il pensiero infaticabilmente aspira e nel quale soltanto, soddisfatto, riposa.





    Ma non sempre il Tilgher si acquieta in questi trapassi dialettici. Lo studio dello Spengler, con la sua ipotesi del progresso circoscritto nell'ambito di ciascuna civiltà ed incomunicabile dall'una all'altra, lo colpisce profondamente, e guardando la nostra civiltà in decadimento al lume di questi pensieri è preso da bui presentimenti e da scoraggiamento, sulla possibilità di una soluzione. E pur ribattendo ad alcune critiche, che muoveva il Ferrero ai suoi Relativismi, in una Lettera aperta a G. Ferrero (gennaio 1923) egli non può nascondere al contraddittore ed a sé stesso il suo angoscioso stato d'animo:

    Ella crede che si possa tornare indietro. Io credo invece che si andrà avanti, sempre più avanti, e con ritmo tanta più accelerato quanto più netta e precisa è la coscienza che lo stato d'animo, che è alla base della civiltà capitalistica, va assumendo di sé, fino a che questo si sia consumato ed esaurito per intero. Deriva da questa persuasione profonda quello che Ella chiamò il mio vagabondare sulle rive del lago senza risolvermi mai a traversarlo ed a scampare sull'altra riva. Gli è che, per me, quello che a Lei pare lago, è un oceano in tempesta, tempesta che si va facendo sempre più alta e tremenda, ed io non vedo riva a cui riparare né zattera su cui avventurarmi.

    Sia pure per altri motivi; ma qualche cosa di vero c'era nella osservazione del Ferrero. Se il Tilgher avesse oggi in seno la convinzione di un Colombo, senza bisogno di vedere terra, avrebbe, già fatto tanto da trovare la sua caravella e si arrischierebbe in mare malgrado i cavalloni. Il fatto è che egli non può portare la sua critica fino a rinnegare una dottrina, che ha nutrito in parte anche lui; ed egli è logico troppo acuto per non avvertire che tutte le strade che si dipartono dalle premesse di quella filosofia portano alla fine alle forche caudine. Perciò io penso che con più precisione abbia detto di sé stesso il Tilgher, in Crisi mondiale:

    Io che scrivo appartengo alla generazione dell'esodo, che, lasciato dietro a sé l'Egitto, terra di prosperità, ma anche di oppressione, marcia penosamente attraverso il deserto, avvolta tutto intorno dal nembo oscuro e tonante della storia in divenire, e per guidarsi nel tremendo cammino non ha che la colonna di fumo e di fuoco che procede innanzi a lei, conducendola verso una ignota terra promessa, di cui solo i suoi figli contempleranno le rive.

MARIO VINCIGUERRA