L'Accademia degli Avvalorati

    Livorno, città accademica.

    L'ultimogenita delle città italiane, ormai non più viva di traffici, che da quasi un secolo non si accresce sensibilmente, ordinata e moderna secondo un pretto tipo settecentesco, può fregiarsi del nome di un'Accademia come di una patente di nobiltà. La pianta quadra delle vie, con il logico canale intorno, l'incastramento delle darsene e i quartieri ben delineati, impressa su una carta dalla grana robusta, dai caratteri erti e i singolari 7 del millesimo, sarebbe una contraffazione se non ci fosse, in un bel cartoccio a destra, un sigillo accademico e un motto sottile. Tanto più che non mai Accademia dovette essere così connaturata, contemporanea con la città, tutte e due di stampo leopoldino. Poiché mancava, con la vita urbana, la tradizione letteraria, a Livorno non ci fu congresso di nobili e d'abati, post-arcadici e cicalatori, capaci di buone rime ma disattenti ai nuovi ardimenti dell'intelletto.





    Troppo gusto li governava. Se no, gli Avvalorati ci avrebbero lasciati echi di grandi manifestazioni, di autoesaltazioni mirabolanti. Poteva esserci, in quella città creata, una fiera perpetua dell'illusionismo; ma invece gli asciutti e onesti intellettuali non si fidavano delle proprie opere, non le proclamavano al mondo; essi, che poi assurgeranno al grado d'interpreti di bisogni e di realtà future, non si stimavano altro che seguaci del buon senso; e per ciò tenevan l'animo desto, e avevan volontà più d'imperare che d'insegnare, non erano mai stanchi, non cercavano riposo e quiete in teoriche assolute, ma il divario eclettico, la rapidità delle opinioni, l'ingegno semplice, la secchezza e la buona articolazione del discorso facevano l'interesse della loro vita e li mantenevano sani. Si può immaginare che il conte Algarotti giungesse spesso dalla vicina Pisa, a dare e a chiedere novelle; e, nella compagnia amabile, fra quella gente fatta accorta dal commercio e dai contatti col mondo intero, forse come alla corte di Potsdam, sfavillasse il suo spirito. Algarottus sed non omnis - dice l'epitaffio di Federico; il meglio, più che negli scritti, rimase nella memoria dei conversatori finché durava; di questa i buoni sensisti erano paghi, e non materializzavano nemmeno il proprio orgoglio.

    Oggi l'Accademia è un teatro, nel teatro s'è riunito un congresso e gli Avvalorati vi si mostrarono parenti assai lontani di quelli primi, ch'erano eleganti ed arguti. Eppure, chi avesse voluto, poteva rintracciare nel concreto riformismo di Leopoldo il fondamento, la prima occasione delle idee liberali e anche un monito, poiché se manca la volontà di nuovi esperimenti e un radicale coraggio nei governanti, le più diffuse e le più ovvie teorie pigliano la forma nebulosa del mito e sprigionano le forze meno educate. L'assennata moderatezza dei toscani, che li distinse nel Risorgimento, era frutto di quel politicissimo estremismo granducale.





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    Nel ripensare allo svolgimento e ai resultati del congresso del partito liberale, ci si attaca per forza a questa forma di retorica conservatrice. Non che i congressisti ne abbiano data esplicita occasione, poiché caddero invece tutti in forme di retorica demagogica. Ma ormai è risaputo che da noi la demagogia è l'appannaggio dei conservatori.

    Quando si é detto conservatori si è detto però pochino. I parlamentari di destra hanno coscienza d'essere conservatori, e questo è un grana merito che produce molti vantaggi. La loro condotta, in massima rettilinea, la forma dignitosa del pensiero che vi corrisponde, la capacità di accumulare esperienze e quindi di ammonire con animo diritto e con un certo disinteresse, poiché anche l'accadimento personale si fa per loro, e senza secondi fini, teoria, costituiscono moralmente il meglio della nostra vita politica; e, non c'è che dire, le loro parole, e più l'accento con cui le pronunziano, ammaestrano. Se non che, siccome si riconoscono senza forza e non preparati, o troppo pregiudicati, per crearsela, sono in continuo stato di tensione e di paura; vindici delle patite sconfitte e inascoltate cassandre di futuri guai. Il pathos dei loro discorsi è tutto lì; gli sforzi della loro memoria vanno sempre alle umiliazioni, e sembra a loro un segno di grande nobiltà - quando è invece segno della loro inabilità - d'essere stati calpestati, e miracolo inobliabile il riacquistar credito e influenza. Tentano di munirsi, o coll'adoperare un linguaggio retorico da pseudo-liberali (ma ora non attacca) o col rifugiarsi nostalgicamente nell'ambito d'una difesa, a cui altri danno poi il carattere della violenza. Violenti non sono; ("io filofascista - diceva l'on. Codacci-Pisanelli, all'ingresso del teatro, e mentre s'allontanava il canto di "Giovinezza" - vorrei esser il primo a sacrificare il mio petto") ma dopo una lunga carriera, troppo poco gloriosa perché poco furba, per ottenere un meritato riposo, si danno prigionieri ai falsi violenti.





    Congressisti di destra, cioè seguaci dei parlamentari, non c'erano, che tutt'altro è lo spirito di Luigi Valli. In lui c'è quasi un ardore mistico, e allora è inutile tentare di rappresentarlo. Gli altri si possono raggruppare in un indistinto centro, che sarebbe l'anima del partito liberale nella essenza più schietta, prima che sia manipolata dai sagaci dirigenti e politici. I liberali del Risorgimento furon anche detti moderati - ha rammentato il prof. Luigi Rossi. E i moderati non sono gente degna del nome di conservatori, in quanto non vanno più in su della politica dell'istinto. Uomini sentimentalmente puri, onesti fino, forse, alla grettezza, non educati al giuoco delle idee, quasi tutti avvocati, e se no con una mentalità peggio che avvocatesca, se gli si toglie l'impiego di classe dirigente son ridotti alla disperazione spirituale, poiché non conoscono altro campo per l'orgoglio e per il desiderio dell'immortalità. La libertà, per essi, è la libertà di ottenere le cariche a cui erano avvezzi. Per ciò si ripeteva continuamente, e con sdegno sempre maggiore, l'accenno alle Amministrazioni comunali detenute dai commissari fascisti; scorno e offesa più sensibile che non le minacce e gl'insulti dei bolscevichi all'istituto della proprietà.

    A sinistra c'è Giolitti e, compatta, la provincia di Cuneo tutta piena di persone furbe. Il gran luogotenente Soleri, dominatore dell'Assemblea, un Giolitti che sa la retorica, non sappiamo nella capacità amministrativa, ma certo nella tattica parlamentare, con proprii mezzi, si è dimostrato esimio allievo. Il congresso ha parlato, urlato, deliberato sempre per Giolitti, ma invece ha acclamato continuamente Salandra; forma acuta di vendetta che forse il genio di Giolitti non saprebbe inventare. L'allegro modo con cui fu trattato Mussolini e il fascismo da tutta l'assemblea, esclusi i parlamentari di destra, sarebbe stata la più abietta tra le frequenti rivolte degli schiavi, senza la preveggenza del vecchio uomo che procurò, con la rinuncia al listone, la salvezza delle sue forze per il futuro. Quando Soleri ebbe detto: "Venni alla Camera dopo aspra lotta" nell'assemblea si poté respirare. Il peso dell'ignominia era tolto.





    L'abilità della sinistra, la buona fede della desta: non si può trovar altro nel congresso. Son le sole prove di vitalità d'una classe dirigente, la quale non sa decisamente orientarsi verso il conservatorismo per quell'ultima debolezza e quella dolorosa sfiducia di sé che l'obbliga a ripararsi, a appoggiarsi, a sottintendere e a dissimulare quando tratta dei suoi problemi essenziali. Le parole la regolano, e per esse vivono i suoi timori e le sue esaltazioni. Il difetto delle sue capacità analitiche non le permette di capire che la difesa della libertà in questo memento è opera conservatrice, un'opera precisa e realistica che oggi compete ai migliori cittadini, col valore e colla forza imperativa che ebbe, quando la si praticava, la tanto conclamata ragion di Stato. Non si tratta di un'esigenza personale, non la può compiere chi vuole; colui che la persegue non si procaccia un favore, ma si fa giudice e restauratore del bene di tutti. In questo momento, in questa lotta, non siamo assetati di libertà individuale, ma di un valore sociale dal quale la libertà discende. Altri, e noi stessi ma con altri compiti, quando l'autorità sarà ristabilita saremo gli assertori della libertà.





    Su questo punto varrebbe forse la pena di richiamare l'attenzione dei liberali più giovani. E' insomma un problema di cultura. Proprio essi dovrebbero saper distinguere, e non empirsi la bocca di rivendicazioni che, se non sono capite e quasi costrette in forme di pensiero preciso, serviranno assai bene come mezzo di lusinga per tutti i sagaci tirannelli mascherati. Essere oggi giovani liberali non importa nulla, ma esser giovani informati, e diffidare del proprio sentimento come del primo tranello di faciloneria in cui si possa incappare. Anche i fascisti sono giovani, e prigionieri di sé stessi, magari delle proprie qualità. L'insurrezione giovanile non ha mai ragione, se prima i giovani non si son fatti vecchi maturandosi collo studio.

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    Diremo che le Accademie non servono a nulla? Tale giudizio che sembra logico non è di certo buono per l'Italia. Come il sapere fu sapere accademico, la politica da noi non può sfuggire a queste forme. Il roteare a vuoto intorno a concetti ovvii sembra cosa inutile e dannosa. Ma forse per il nostro spirito non c'è forma ovvia, se non è allargata e ripetuta fino quasi a pigliare un tono lirico. Credo che è giusto ed opportuno il desiderio che così non seguiti ad essere, e l'opporsi violentemente alla legittimità di quelle forme; ma di valore e d'eco certo ne devono ancora aver parecchio. Quello che avviene e conta oggi, può pure rappresentarsi, per i bisogni della nostra immaginazione, come realtà superata.

    E siccome al congresso di Livorno risponde un'azione di governo che non è certo una forma di realtà superiore, tacciono i propositi critici e si attende l'opera delle forze in contrasto che non crediamo punto disparate, né disuguali. Le deliberazioni di Livorno hanno valore, non per la vita italiana, ma per le risposte di Mussolini e per le possibili ripercussioni immediate, che non tutte saranno inutili né senza importanza.

UMBERTO MORRA DI LAVRIANO