La funzione economica Irpina
nelle vicende del trapasso unitario
La provincia di Avellino, anteriormente al '60 (Principato Ultra) aveva un'estensione più notevole e di versa da quella che poi ebbe, colla formazione dello Stato unitario. La ragione principale è da ricercarsi in ciò: che, inesistendo al '60 una provincia di Benevento (ma solo un ducato ecclesiastico, di superficie ben limitata), nella regolamentazione interprovinciale che seguì il mutamento politico, l'Irpinia fu una di quelle regioni che concorsero alla costituzione della nascente provincia beneventana; e ciò mentre i territori ad essa aggiunti in virtù del rimaneggiamento amministrativo, di ben poco la compensarono, quantitativamente. Così che in definitiva ne risultava una conformazione provinciale ben più ristretta, in rispetto a quella del precedente regime politico.
Ma non è nell'appariscente fatto amministrativo, il significato più notevole del trapasso. Questo, invece, è da cogliersi nel crollo di una fiorente economia di scambi, senza dubbio la più notevole, fra quelle di tutte le terre del reame borbonico.
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L'isolamento del Napoletano, dal resto della vita italiana, si manifestava in maniera clamorosa, sul terreno economico, col trionfo delle tariffazioni protettive. Non essendo nel nostro tema, una critica della politica commerciale borbonica vogliamo notarne soltanto le conseguenze più importanti.
Ogni ostacolo allo scambio - è risaputo -spinge ad un equilibrio produttivo interno, non naturale ma ben preciso. Nel Napoletano, poi, si verificò questo fatto: un polarizzarsi degli scambi, tra Napoli e le Puglie, nel mentre le altre terre del Reame vivevan di vita beatamente municipale.
Le Puglie e Napoli vantavano economie complementari. Perciò i due flussi notevoli e compensativi di scambi non potevano non rendere lieta la terra che ad essi faceva da intermediatrice: l'Irpinia. E la rotabile transmarina, che tra Baiano e Bovino si svolgeva sul territorio del Principato Ultra, assommava, monopolisticamente, tutto il traffico tra le pianure pugliesi e Napoli la Capitale.
L'Irpinia, perciò, viveva per prima cosa di un'economia a cui essa, intimamente, era estranea. E sì che erano insigni i vantaggi dell'intermediazione!
Basta pensare alla funzione a cui soddisfacevano certi affollati terranei immani - le "taverne" - che ora sono meri e squallidi sopravanzi archeologici, per immaginare tutto il bene che l'Irpinia dovesse direttamente ritrarre da quel rigurgito obbligato di uomini e di bestie.
Avellino era allora l'anticamera di Napoli, giusta la significativa espressione del De Cesare. Intere economie cittadine erano sorte e si ravvivavano a causa e per il giovamento che l'esercizio della funzione ospitale portava seco.
Questo, abbiamo detto, direttamente. Ma se è difficile dire con esattezza dei vantaggi indiretti prodotti dal traffico interregionale, ciò nonostante son da reputarsi notevoli.
Non si saprebbe concepire "provocazione" economica di diverso genere, per spiegarsi come mai l'Irpinia, "costituzionalmente inidonea, pur mostrava manifestazioni elaboratrici varie e consistenti, ad es. l'industria molitoria e delle paste, che di poi perdette, per... non più riacquistare.
L'insignificante (economicamente) rudero che è oggi la Dogana di Avellino, a quale causa, se non a quella, dovette la rinomanza che ebbe, nel mercato delle granaglie, così che essa arditamente anticipò le moderne istituzioni borsistiche delle merci?
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Il '60 significava molte cose per l'Irpinia, sul terreno economico.
L'avvenimento unitario nel mentre portò con sé più ampi e diversi indirizzi di politica commerciale, all'interno poneva a fronte economie tanto varie e diveramente evolute, spingendo a nuove tendenze di traffici, così che il trapasso politico originò, a breve scadenza, l'illanguidirsi dell'economia di scambi tra Napoli e le Puglie, e poi lo storno definitivo di essa dalla rotabile tradizionale quando un'altra linea (ferroviaria) su diverso itinerario congiunse il Tirreno all'Adriatico.
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Molto sì è parlato e si parla di una linea ferroviaria che, unendo Napoli ed Avellino con la Puglia, riconferisca all'Irpinia il primato antico o, per lo meno, la porti a vivere una vita economica più intensa di quella che presentemente non sia, facendosi notare che con essa sarebbero ancora soddisfatte preoccupazioni di indole politico-militare.
Ma quanti sanno che il pensiero di una linea ferroviaria attraversante l'Irpinia già sorrise a Ferdinando II, quando inaugurò la tratta (domestica) Napoli-Portici; fatto, questo, che per una volta tanto, mise il Mezzogiorno borbonico, all'avanguardia del rinnovamento?
Ferdinando II in quell'occasione si augurò che, proseguita la costruzione insino a Castellamare e Nocera, potesse vederla indirizzata per Avellino al lido del mare Adriatico.
Deve qui ricordarsi come col '60 già era fallito un tentativo che in seguito avrebbe assicurato all'Irpinia, se realizzato, la bramata continuità dell'intermediazione negli scambi.
L'ing. Melisurgo, che si guadagnò tutta la gamma di giudizi che è compresa tra il "basso avventuriero" e lo "spirito veggente", ideò la costruzione di una linea ferroviaria che riattaccandosi a Sarno alla tratta che portava a Napoli doveva, con un sistema di gallerie, condurre ad Avellino e di qua in Puglia.
Il progetto fallì per circostanze varie; con esso fallì pure il più proprio tentativo per riserbare all'Irpinia i vantaggi che ad essa parevano connaturati.
Lodevole il proposito di quanti attualmente sostengono la bontà della costruzione della nuova linea. Per ispirito di "realtà" è fatto, però, obbligo di avvertire quanto sia difficile vederla realizzata, per non ingenerare equivoci e acri risentimenti, laddove, con opera metodica ed incessante, è per ora da reputarsi fortunati se si ottengono soddisfazioni ben più modeste ma sinora inappagate.
G. DELLA CORTE
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