L'organizzazione dell'esercitoNel suo volume Tre anni di vita militare italiana (ed. Mondadori, Milano) il colonnello Gatti osserva e lamenta anzitutto che, nei tentativi di riorganizzazione del nostro esercito, mancò finora l'unità e la continuità di una idea informatrice. Non per nulla dalla fine della guerra ad oggi si sono succeduti 12 Ministri della Guerra ossia: Zupelli (21 marzo '18 - 17 gennaio '19), Caviglia ('18 gennaio - 22 giugno 1919), Albricci (23 giugno 1919 - 13 marzo 1920), Bonomi (14 marzo - 21 maggio 1920), Rodinò (22 maggio - 15 giugno 1920), Bonomi (16 giugno 1920 - 2 aprile 1921), Rodinò (2 aprile - 4 luglio 1921), Gasparotto (5 luglio 1921 - 26 febbraio 1922), Lanza di Scalea (26 febbraio - 1° agosto 1922), Soleri (1° agosto - 31 ottobre 1922), Diaz (31 ottobre 1922 - 29 aprile 1924) Di Giorgio (29 aprile 1924...). La critica del colonnello Gatti si appunta sopratutto sulla attività dei ministri Bonomi e Gasparotto. A dir la verità mi sembra che l'Autore sia troppo severo con l'on. Bonomi. E' vero che questo ministro credette possibile ridurre la ferma a otto mesi in omaggio al mito della Nazione armata e che con la creazione del Consiglio dell'Esercito e abbassando l'autorità del Capo di Stato Maggiore aprì un periodo di crisi nell'alto comando dell'esercito, ma non bisogna dimenticare che l'ordinamento Bonomi fu, dopo tutto, l'unico che il nostro esercito abbia avuto e che ancor oggi conservi. La riduzione dei Comandi di Corpo d'Armata da 12 a 10 (nel '19 si era anche pensato di portarlo a 15) la riduzione dell'arma di cavalleria da 150 a 48 squadroni, l'adozione del principio della inscindibilità e organicità della divisione, la riorganizzazione dell'artiglieria con la creazione di 14 reggimenti d'artiglieria pesante campale e la trasformazione dei reggimenti d'artiglieria da campagna in reggimenti d'artiglieria divisionale costituiti da gruppi di obici, di cannoni da 75 e di cannoni someggiati, costituiscono un non disprezzabile complesso di utili provvedimenti. Del tutto giuste mi sembrano invece le critiche rivolte alla attività dell'on. Gasparotto. Questo ministro era animato dalla miglior buona e fattiva attività, ma però di eccessivo ottimismo e di democratica faciloneria. L'on. Gasparotto fu il più fervido credente della Nazione Armata intesa sopratutto come organizzazione rivolta alla educazione fisico-patriottico-morale del popolo. Il pensiero animatore dell'on. Gasparotto è espresso da queste sue parole (relazione del bilancio della guerra, maggio 1919, pag. 320): "Il problema militare va studiato indipendentemente dalla possibilità di una nuova guerra coll'animo rivolto alla pace, allo scopo cioè di rinvigorire la razza ed educarne disciplinarmente le energie. E con ciò si risolverà, indipendentemente dalle ipotesi delle guerre, il problema della difesa nazionale. Perché la nostra esperienza recente ci persuade che, una volta assicurato il vigore alla razza e l'affetto delle masse al Paese, il problema della difesa nazionale è per tre quarti risolto." Partendo da queste premesse l'on. Gasparotto aveva escogitato di separare l'esercito in due distinti organismi: l'esercito permanente e la organizzazione dei centri di reclutamento e di mobilitazione. "Spetterebbe all'organizzazione dei centri di mobilitazione provvedere essenzialmente alla preparazione delle unità di mobilitazione e dei relativi servizi, allo studio e alla predisposizione della difesa costiera e della difesa aerea, al reclutamento degli iscritti, al contributo e all'indirizzo da darsi all'istruzione premilitare, alle scuole allievi ufficiali e allievi sottufficiali di complemento ed in genere alla preparazione dei quadri in congedo, infine all'organizzazione della mobilitazione industriale, mentre compiti essenziali delle unità normalmente in efficenza in tempo di pace, ossia dell'esercito permanente dovrebbe essere l'addestramento degli ufficiali e delle truppe, i servizi territoriali militari, le ricognizioni, gli studi delle zone di frontiera, gli apprestamenti difensivi". Dunque compito dei centri di mobilitazione doveva essere quello di rappresentare in tempo di pace il primo schema della Nazione Armata e in tempo di guerra di preparare la leva in massa ossia la Nazione in armi. L'esercito propriamente detto doveva invece provvedere alla istruzione delle reclute e costituire, in caso di guerra, lo scudo e la lancia della Patria, nel primo periodo delle ostilità, mentre ancora si svolge la mobilitazione generale. Si può dire che il libro del colonnello Gatti contiene la completa confutazione delle idee dell'on. Gasparotto. L'on. Gasparotto crede alla Nazione Armata e vuole democratizzare l'esercito, scinde in due l'organizzazione militare e per quanto si riferisce alla preparazione, da una decisa prevalenza al fattore pedagogico, politico, morale sul fattore tecnico-meccanico. Invece il colonnello Gatti vuol dimostrare che: gerarchia, disciplina e unità di comando e di organizzazione costituiscono l'unico possibile fondamento di un esercito; che nella guerra "la macchina" ha almeno la stessa importanza dell'uomo, e di conseguenza che la preparazione tecnica e meccanica dell'esercito e del paese non merita certamente minor cura della preparazione morale degli uomini; che la "Nazione Armata" per quanto in astratto "sia fino ad oggi il miglior ordinamento di difesa nazionale", non può essere oggi attuato in Italia e come la Nazione Armata che da molti è concepita come un alleggerimento delle fatiche della preparazione militare da concedere democraticamente al popolo, comporti in realtà un aggravamento e una diffusione di responsabilità e di fatiche a cui possono sottoporsi soltanto i popoli molto progrediti ed animati da un forte spirito militare. Per quanto incompetente, mi sembra che la tesi del col. Gatti sia assolutamente giusta. Se la "Nazione Armata" è una cosa seria rasenta il panmilitarismo altrimenti è una commedia. E' probabile che, data l'indole del nostro popolo, la "Nazione Armata" diventerebbe in Italia una pericolosa commedia; commedia perché è assai probabile che la istruzione militare si ridurrebbe a delle passeggiate domenicali fuori porta; pericolosa poiché verrebbe facilitato l'armamento delle fazioni. Siamo sinceri. L'ultimo tentativo abbastanza serio nel senso della "Nazione Armata" è stato fatto dal fascismo e ne è venuta fuori la Milizia Nazionale! Si può anzi dire che il dolce frutto della Milizia Nazionale rappresenta la nemesi, il castigo della stupida ostilità all'esercito dei partiti sovversivi e dalla demagogica faciloneria con la quale la democrazia ha trattato i problemi militari. La pace universale è il più nobile ideale politico e perciò, come limite, si può ed é giusto aspirare alla abolizione di tutti gli eserciti, ma fino a tanto che le guerre saranno possibili e perciò ogni nazione dovrà mantenere un esercito, è assurdo voler democratizzate l'esercito. Democratizzare l'esercito, ossia togliere all'esercito l'assoluta unità e la salda gerarchia è un'assurda contraddizione. Equivale a voler laicizzare il clero. Togliete l'unità e la gerarchia ad un esercito e renderete nulla la sua efficienza bellica ed infettere di incompetenza militare tutte le altre branche dello Stato. In questo dopo guerra abbiamo ben conosciuto i fasti dei militari diplomatici e dei militari politici! Ora vogliamo anche vedere i militari maestri! Ma se i militari sono usciti dal campo della loro competenza non è certo soltanto per loro colpa. Gli antimilitaristi e molti democratici sono i maggiori responsabili di questa calamità. Non è stato il democratico ed ora fascista Gasparotto che da ministro ha proclamato che: il problema militare va studiato indipendente dalla possibilità di una nuova guerra con l'animo rivolto alla pace? Poveri militari! E' stato detto loro: non occupatevi della guerra, ma della pace, ed essi non si sono più occupati di esercito e di armi, ma di diplomazia, di politica e di pedagogia! Combattendo l'unità e la disciplina dell'esercito si favorisce il sorgere delle squadre e delle care milizie, deridendo "la chiusa e rigida casta militare" si inducono gli ufficiali ad uscire dal campo della loro competenza e si crea una classe di pericolosi spostati. L'esperienza di questi anni di dopo guerra e sapratutto di fascismo dovrebbe insegnare ai partiti democratici a trattare con maggior prudenza il problema dell'esercito. Il problema militare va studiato esclusivamente in relazione ad una nuova guerra e, se non con l'animo, con la mente rivolta alla guerra. Una saggia politica democratica deve tendere a restringere il più possibile il campo di competenza dell'esercito, perciò i militari siano esclusi dalla diplomazia, dalla politica e dalla scuola, ma nel loro campo, ossia nella preparazione tecnica e morale del paese in vista della eventualità della guerra la "casta militare" sia aiutata, rispettata ed ubbidita. E non si dimentichi mai che, se i problemi militari non sono problemi di metafisica idealista a cui non possono attendere che sublimi genii, riguardano tuttavia questioni assai complesse che richiedono uno studio attento ed assiduo e sopratutto si ricordi sempre che la vita militare nel suo duplice aspetto di preparazione tecnica e di attività pratica, impone,o dovrebbe imporre a chi la affronta l'offerta ed anche il sacrificio di tutta la propria attività. E' illusorio credere che per mantenere un esercito sia sufficente che tutti i cittadini gli dedichino un breve periodo della loro attività; questo può ed anzi deve bastare per i più, ma è indispensabile che alcuni cittadini dedichino all'esercito tutta la loro vita. La premessa necessaria per la riorganizzazione del nostro esercito consiste nel mito della democratizzazione dell'esercito e nel saper ritornare a sani principii di unità e di disciplina. Un ministro, responsabile politico, e un capo di Stato Maggiore "Comandante dei soldati" reggono una unica organizzazione militare, il mito della Nazione Armata ceda il passo ad una concreta ed agile istruzione premilitare lasciata alla iniziativa privata e locale, ma controllata dallo Stato (a questo scopo avrebbe potuto servire la Milizia Nazionale se non fosse tanto infettata di politica); si pensi a fornire l'esercito di moderne "macchine" e a preparare l'industria nazionale alla eventualità di una guerra poiché "il paese più forte industrialmente è oggi indipendentemente da ogni altra considerazione, il più forte anche militarmente". Questi sono i massimi concetti egregiamente esposti e spiegati dal colonnello Gatti nel suo ultimo libro. Di molte altre questioni generali e particolari tratta il volume del Gatti, ma, accennandovi, prolungherei troppo il mio scritto. Tuttavia voglio soffermarmi su due importanti constatazioni che mi sembra derivino logicamente da quanto è scritto nel libro "Tre anni di vita militare italiana". Il colonnello Gatti espone con impressionante chiarezza ed efficacia gli straordinari progressi tecnici delle macchine da guerra. La micidiale potenza dei cannoni, ma sopratutto degli aeroplani, dei gas velenosi e dei carri d'assalto è ormai terribile e tende a trasformare profondamente tattica e strategia, in una parola, tutta l'arte della guerra. La preparazione militare implica oggi nuovi problemi sopratutto di carattere industriale e di riflesso politici. Anche senza giungere alle esagerazioni chi dichiara che uno Stato per prepararsi ad una guerra deve raggiungere la chimerica "indipendenza economica", ossia industriale od agricola del paese, è sicuro che il problema del rifornimento delle materie prime e dello sviluppo delle industrie diventa importantissimo anche rispetto alla preparazione militare di una nazione. Ma se la guerra moderna impone agli Stati nuove preoccupazioni è sperabile che li liberi o almeno li sollevi dai pesi inerenti ai vecchi metodi di guerra. Se stormi di aeroplani sorvolando a quattromila metri i confini di una nazione potranno bombardarne i centri vitali ed asfissiare intere città, se cannoni a lunghissima gittata potranno colpire da cento chilometri il loro bersaglio sarà opportuno predisporre una buona difesa anti-aerea, costruire molti aeroplani e preparare l'industria nazionale alla costruzione di molti proiettili per formidabili cannoni, ma sarà meno indispensabile agitarsi per la conquista di una catena di montagne alta quattrocento metri o di un fiume largo cinquanta. Insomma mi pare che i nuovi metodi di guerra condannino quella politica del metro quadrato, della "quota" e dello scoglio che i nostri nazionalisti hanno sempre invocato per "ragioni strategiche", anche a costo di grandi sacrifici e di gravi pericoli. Mi ricordo che nell'epoca della fissazione adriatica un alto generale a proposito del famoso M. Nevoso disse questo felice paradosso: "M. Nevoso più, M. Nevoso meno, faccio alzare un "draken" e vedo meglio!". La configurazione del terreno della zona di frontiera conserva sempre la sua importanza, ma ormai è assurdo credere che la sicurezza militare di un paese dipenda dal possesso della "quota" e che valga la pena di annettersi centinaia di migliaia di allogeni pur di conquistare la catena K! L'altra constatazione riguarda i risultati della politica militare dell'on. Mussolini. E' noto che secondo i profeti dell'era nuova uno dei grandi meriti del fascismo consisterebbe nell'aver sollevato l'esercito dal baratro nel quale era caduto quando in Italia regnavano le tenebre dell'"antinazione". Ora il colonnello Gatti che in questo libro si mostra assai benevolo verso il fascismo e l'on. Mussolini dichiara (pag. 250) che "nella realtà il disegno di riordinamento dell'esercito nel gennaio del 1923 fu l'antico ordinamento provvisorio del 1919, appena ritoccato" e che "il Ministero Diaz fu quindi anch'esso, come i precedenti, Ministero d'attesa piuttosto che di fatti", perché "l'intelaiatura dell'esercito restò quella di prima (10 Corpi d'Armata e 30 Divisioni; troppe secondo Gatti), la costituzione del suo Comando press'a poco; e continuò il contrasto fra bilanci ed organico, che fu una delle maggiori cause del misero stato dell'esercito nel 1914 e nel 1919 ". Dunque, sia pure nel pieno fulgore della luce fascista, per quanto riguarda l'esercito le cose sono su per giù come quando regnavano le tenebre dell'antinazione. E il colonnello Gatti spiega questo fatto con le seguenti parole: "Il presidente Mussolini è uomo che sa che cosa significhi la forza di un paese - probabilmente sa meglio che cosa significhi la forza di un partito - e come sia necessaria alle sue manifestazioni di vita. Si deve pensare, di fronte a questa stasi che il presidente non abbia giudicato ancora venuto il momento di interessarsi dell'esercito. Mussolini, uomo politico, è simile al Principe di Casa Savoia che quel carciofo dell'Italia mangiava foglia a foglia; e l'assetto dell'Italia egli si è proposto di farlo - si vede chiaramente - a foglia a foglia. Fino a quando non ne ha ben masticata una (!) non comincia l'altra, "I1 momento dell'esercito, a tutt'oggi non è ancora venuto: verrà". Verrà! Ma quali sono le vere capacità masticatorie dell'on. Mussolini? Fino ad ora l'esercito ha sentito il morso della Milizia Nazionale! NOVELLO PAPAFAVA.
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