INVENTARIO DI CULTURA

V

    Se l'Einaudi, in correlazione delle sue dottrine economiche, si accosta all'utilitarismo moralistico della scuola inglese, Gaetano Salvemini, per certa rigidità intransigente, per certi impeti sdegnosi e per la irreducibilità dei propositi si avvicina alle tendenze del radicalismo puritano.

    Il Salvemini è passato pel socialismo e n'è uscito per una questione morale. I documenti di quel désenchantement - dal quale esula un qualsiasi caso personale e che perciò richiamano la riflessione dello studioso - sono consegnati negli scritti polemici raccolti recentemente nel volume Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano, e che si riferiscono a più di dieci anni di discussioni, polemiche e laboriosi ritorni su sé stesso (1902-1914).

    Il Salvemini era entrato nel movimento socialista come molti rappresentanti della media borghesia colta, negli anni torbidi che prepararono e seguirono Adua; per un impulso di ribellione, per una giovanile aspirazione di palingenesi, nell'ora in cui l'orizzonte pareva restingersi e l'aria era più greve. In quegli anni che Matteo Renato Imbriani rinfacciava ai governi d'Italia il lungo, spietato abbandono della Puglia, "assetata di acqua e di giustizia", quel giovane pugliese entusiasta ed austero per quanto chiuso nei suoi studi, aveva tuttavia presente nello spirito il desolato spettacolo delle plebi abbrutite che aveva lasciate nel suo paese nativo. Ma quando, attratto sempre più dai problemi politici, esamina da vicino il congegno delle organizzazioni operaie, e studia particolarmente il fenomeno corporativo dell'Alta Italia, un nuovo e diverso moto di ribellione sopravviene. Le masse operaie, solidamente inquadrate, coscienti lei propri diritti, che già si avvicinano al benessere, sono più distanti dalla diseredata plebe agricola del Mezzogiorno di quanto non lo sia la piccola borghesia di quei paesi. La delusione ne presenta la realtà in termini anche più crudelmente antitetici, ed oramai un completo affermarsi del regime sindacalista gli prospetta una nuova serie d'iniquità da parte delle oligarchie operaie (in concreto, per l'Italia, i potenti, egoistici sindacati del proletariato industriale dell'Italia settentrionale), che succederebbero in parte ed in parte si accorderebbero con l'alta borghesia plutocratica, per continuare a disporre, e a non far uscire dalla propria sfera d'azione il grosso nucleo della ricchezza nazionale; indifferenti non meno dei plutocrati borghesi del Nord, all'inedia fisica e morale del proletariato e di una gran parte della borghesia terriera dell'Italia meridionale.





    Invano gli uomini pratici gli prospettano i bisogni contingenti dell'organizzazione sindacale. Coi bilanci alla mano possono anche aver ragione; ma questa bandiera del socialismo, che sventola libera al vento nei tempi dell'umiltà, cade afflosciata davanti a una porta di cooperativa, come davanti a quella di osteria domenicale. Quest'uomo che è entrato con le braccia tese verso il socialismo, perché era promessa di liberazione agli umili, trova nel proletariato organizzato del Nord, che solo conta e dispone il segreto sprezzante fastidio dell'arrivato pel parente povero. Tutti i ragionamenti degli uomini pratici non potranno richiamare alla sua mente il sogno di giustizia dei primi anni di fede: egli che aveva studiata profondamente il fenomeno della lotta di classe nella Firenze comunale, rivede il "popolo grasso" nell'esercizio arrogante del potere, così come nel Medio evo, e sente nel suo spirito scaturire l'avversione irreducibile di un Michele Lando, di un difensore di plebe.

    Nel tempo che maturava questa nuova questione morale, il Salvemini si trovò ad affiancare il movimento della Voce che col suo rifiutar di pregiudiziali, colle sue buone intenzioni di scandagliare problemi ancora ignorati della vita italiana, lusingava lo spirito schietto, insofferente del Salvemini, ancora amareggiato dalle disillusioni della disciplina di un partito dagli schemi dottrinari irrigiditi. Ben presto, però, altre disillusioni si preparavano anche da quest'altra parte a uno spirito indipendente, sí, ma lucido, quadrato, nello scoprire il fondo di quell'apparente Repubblica di Platone della Voce, e che era in sostanza un bazar d'idee tenuto insieme non da vero interesse - che è critica e scelta, secondo principi -, ma da curiosità - fervorosa e meritoria, ma non più che curiosità. Lo studioso scaltrito nei lunghi lavori preparatori di erudizione subodorava in quell'aria di salotto il dilettantismo infecondo e confusionario e rimaneva dubbioso sulle sorti dell'impresa, quando un grave avvenimento politico, la guerra di Libia, richiamò il suo senso civico ad allontanarsi definitivamente dagli eclettismi dondoloni ed a prendere in pieno le proprie responsabilità politiche. Allora sorse l'Unità (1911).





    Il tentativo dell'Unità è stato una delle più nobili e più feconde opere che egli abbia compiute fino adesso. Anche perché questa volta ebbe la ventura di incontrarsi con un compagno di lavoro come Giustino Fortunato, uno dei rari e il più elevato, profetico, accorato ed inascoltato educatore del Parlamento italiano, a riguardo del quale è da deplorare solo questo: che lo spirito troppo aristocratico e riservato lo ha mantenuto in disparte dalle grandi correnti della cultura. Anche il Fortunato proveniva ed è rimasto fedele alle tradizioni degli studi sperimentali, e l'Unità ebbe soprattutto il valore di richiamo alla concretezza. Non potette però sfuggire neppur essa alla tendenza verso il tecnicismo nelle questioni politiche, che era imposto dalla voga che in quegli anni prendeva il sindacalismo, entrato soprattutto coi libri troppo semplicistici del Sorel.

    Le troppo larghe concessioni fatte al tecnicismo invadente furono in parte la causa dell'altra questione morale, che fece languire e poi chiuse la vita dell'Unità nei primi anni della guerra. Il Salvemini fu un eroe e un martire di quello che fu detto per ischerno il "rinunziatarismo", ed egli sopportò coraggiosamente scherni ed accuse sanguinose. Ma, a parte qualsiasi discussione specifica in materia politica, che qui sarebbe fuori luogo, il temperamento e tutti i precedenti del Salvemini dovevano portarlo a concepire la partecipazione dell'Italia alla guerra europea in opposizione ai calcoli utilitari, ed anzi come l'evento che avrebbe elevato moralmente l'Italia col dare ad essa, insieme con la vittoria, una grande missione di moderatrice nell'Europa orientale. Il Salvemini portava anche in questa occasione la sua generosa concezione di difensore degli umili; la vera grandezza dell'Italia, perché appoggiata a fattori morali e non a perituri calcoli diplomatici, egli la vedeva nella sua nuova missione di protettrice delle nuove piccole nazionalità che sarebbero sorte con la guerra; e metteva tutta la sua eloquenza e la sua attività pratica a riportare sulla tradizione mazziniana il paese, che anche questa volta rinnegò Mazzini per alcune goffe parafrasi di Macchiavelli.

    Ancora una volta il Salvemini si ritraeva per una questione morale. Oggi egli pare un silenzioso, lontano e imbronciato. Ma nell'ora della ripresa dalla presente depressione spirituale, la parola del Salvemini, comunque possa ammonire, sarà tra le prime e al primo posto tra i fattori di rieducazione nazionale.

MARIO VINCIGUERRA