LA POLITICA ESTERA DI BISSOLATI

    La preoccupazione centrale di tutti gli scritti e discorsi di Leonida Bissolati su La politica estera dell'Italia dal 1897 al 1920, è quella dei rapporti italo-austriaci di fronte al problema balcanico.

    Fino dalle prime manifestazioni del 1897, in occasione della rivolta di Creta e della guerra greco-turca, Bissolati afferma che l'Italia "ha tutto da guadagnare, nulla da perdere, nello sviluppo delle nazionalità balcaniche e nello smembramento dell'Impero ottomano"; che l'Italia deve aspirare in Oriente non alla "occupazione di qualche lembo di territorio", ma al "ripristino della sua potenza commerciale sopra le rive dell'Asia Minore, della penisola balcanica, del Mar Nero"; che per realizzare questa politica, deve sciogliersi arditamente dai nodi della Triplice Alleanza.

    Questo iniziale nucleo di idee, ereditato dalla tradizione democratica, si chiarisce durante il decennio successivo; si arricchisce di nuovi elementi più concreti; appare definitivamente elaborato nel gennaio del 1906, in occasione della vertenza franco-germanica per il Marocco.

    Sembrava imminente una guerra generale. Da un lato, la Francia, l'Inghilterra, la Russia; dall'altro, la Germania e l'Austria-Ungheria. La diplomazia italiana, impegnata dalle intese conchiuse nel 1902 con la Francia e con l'Inghilterra, rifiutava di lasciarsi trascinare dagli alleati in una guerra, in cui si sarebbe trovata contro non solo la Francia, ma anche l'Inghilterra, per affari estranei al trattato della Triplice. Se scoppiava la guerra, la Triplice cadeva nel nulla e la Germania non aveva più motivo di frenare l'Austria in eventuali tentativi contro gli Stati balcanici e contro l'Italia. Come premunirsi contro siffatta minaccia.





    Stringersi risolutamente alla Francia e all'Inghilterra - risponde Bissolati. Ma non abbandonarsi alla cieca: "l'amicizia coll'Inghilterra e la Francia sta bene; ma badiamo di non scuoscuotere d'una soggezione per cominciarne un'altra". E delinea il programma di un accordo fra l'Italia e gli Stati Balcanici, non solamente per resistere alle ambizioni austro-germaniche, ma anche per agire di fronte alla Duplice franco-russa come sistema autonomo, da pari a pari, non come vassalli impotenti ed importuni, paralizzati dalle reciproche diffidenze, imploranti protezione gli uni contro gli altri e tutti contro il nemico comune. "Quest'invito ad una stretta colleganza del nostro mese con gli Stati balcanici, erompente dalla situazione più ancora che dal proposito degli uomini, deve essere accolto dall'Italia, se essa vuole posare il piè fermo sul terreno, dove irresistibilmente è attirata dalla sua nuova politica estera".

    La guerra per questa volta fu evitata. E nella soddisfazione generale per lo scampato pericolo, anche la politica dei buoni rapporti italo-austriaci sembrò trionfare. Bissolati salutò con gioia le nuove speranze di pace. Ogni giorno, che la pace conquistava sulla guerra, dava tempo al movimento delle nazionalità slave per rafforzarsi nell'interno dell'Impero austriaco, limitandovi il predominio degli elementi tedesco-magiari; dava tempo agli Stati balcanici, sul confine meridionale dell'Impero, per consolidarsi; rendeva più pericoloso e temerario lo scatto aggressivo dell'Austria verso la penisola balcanica. "Gli Stati balcanici - dice Bissolati alla Camera nel dicembre del 1906 - hanno assunto una forza ed una autonomia, per cui le velleità espansionistiche austriache trovano in essi un'opposizione immediata; sono tramontati ormai i tempi, in cui l'Austria aveva in e Milano il suo servitore nella Serbia. Oggi la potenza degli Stati balcanici è tale che diplomaticamente, economicamente e militarmente, non è affatto una quantità trascurabile: il che io credo debba essere ricordato sempre dai diplomatici, che reggono le sorti del Ministero degli Esteri italiano".





    Quest'idea diventa sempre più netta, in tutte le vicissitudini della politica internazionale fra il 1906 ed il 1914. È oramai la direttiva costante della politica bissolatiana. E quando nell'estate del 1914 scoppia la guerra, Bissolati non deve fare nessun sforzo per adattare il proprio pensiero alla nuova realtà.

    Sente subito che la guerra fra il blocco austro-germanico e la Triplice Intesa è anche guerra fra l'Austria, che intende sottoporre al proprio controllo la penisola balcanica, e l'Italia che deve difendere la propria indipendenza dal pericolo di essere schiacciata verso Oriente da un vicino così formidabilmente rafforzato. Sente che la guerra, tenacemente deprecata per tanti anni è divenuta inevitabile per iniziativa altrui, sarà guerra di vita o di morte per l'Italia e per l'Austria: o si sfascia l'Austria, o si dissolve l'Italia. E predica l'alleanza fra l'Italia e gli Slavi dell'Austria e l'accordo diretto fra l'Italia e la Serbia per un compromesso su le terre miste dell'Adriatico. Questa politica accelererà lo sfacelo interno della Monarchia austriaca e faciliterà la vittoria. Inoltre prepara all'Italia una magnifica posizione di sicurezza e di larghissime possibilità di espansione economica nel dopoguerra. L'Italia non deve, per discutibili ragioni strategiche, incatenarsi a nuove non necessarie querele. Non deve distrarsi, per miraggio d'occupazioni territoriali nella penisola balcanica, da quello che è il suo problema vitale nel periodo storico presente: garantire libero lavoro ai suoi emigranti e libera circolazione alle sue merci in tutto il bacino del Mediterraneo.

    Queste idee non hanno avuto fortuna. Lo stesso trattato di Rapallo, in cui esse si sono realizzate, e più tardi gli accordi di Roma sono venuti dopo che si erano perduti sei anni in lotte avvelenatrici degli animi; sono stati accettati dai più, in Italia e in Jugoslavia, come un armistizio malaugurato in un'ora di sconfitta e di stanchezza, non nello spirito, con cui Bissolati lo aveva proposto: cioè come primo passo e condizione necessaria ad un'intima collaborazione generale.





    Leonida Bissolati era troppo fuori delle realtà per i nostri politici "realisti". Essi sí che hanno sempre visto chiaro! Prima della guerra dimostravano come quattro e quattro fanno otto, che ad una guerra fra Germania ed Inghilterra non si poteva"seriamente" pensare. Di intese con gli Stati balcanici non si dettero mai cura; ci aveva pensato ai suoi tempi Cavour, quando gli Stati balcanici erano assai più deboli; poi la tradizione si era perduta. Per l'ora della crisi, i nostri realisti aspettavano dal Governo austriaco un'amichevole "rettifica di frontiere", dopo la quale l'Italia avrebbe marciato a fianco degli Imperi centrali contro la Duplice franco-russa, rimanendo l'Inghilterra neutrale.

    Quando la guerra scoppiò, e l'Austria, di rettificar sul serio le frontiere non volle sentir parlare, e l'Inghilterra entrò in campo, allora i nostri realisti si volsero contro l'Austria. Ma con quel profondo senso delle realtà, di cui erano così orgogliosi e che li rendeva così pieni di commiserazione per le illusioni di Bissolati, si immaginarono di poter finire la guerra in pochi mesi, con un solo miliardo di lire preso a prestito in Inghilterra. E continuarono a sperare che la Casa d'Austria avrebbe ceduto per forza più di quanto non aveva voluto concedere per amore, dopo di che le nemiche di un giorno sarebbero ritornate le amiche di sempre. Niente, dunque, compromesso italo-slavo, ma compromesso italo-austriaco. Niente "politica delle nazionalità", ma lotta a coltello contro la unificazione diretta, preponendovi un Provveditore e un collegio arbitrale. Essa era un trait - d'union tra il sud-oriente ed il nord-occidente, slava.

    Così i nostri realisti erano portati ad urtarsi contro la politica della Francia e dell'Inghilterra, via via che l'andamento diplomatico e militare della guerra conduceva gli alleati verso il programma dello smembramento dell'Austria e quello dell'unificazione jugoslava. Entrando in guerra, avevano condannato a morte l'Austria; ma facendo la guerra agli slavi anzi che all'Austria, offrivano all'Austria il terreno per mobilitare contro l'Italia gli slavi e prolungare la guerra molto al di là del... miliardo. Finalmente l'intervento dell'America dette il tratto alla bilancia. E si arrivò al Congresso della pace. Nel quale la lotta diplomatica, rimasta latente durante la guerra, diventò aperta ad un tratto: Francia, Inghilterra, Stati Uniti, a favore degli slavi; e l'Italia, barricata nell'"Hotel Edouard VII", isolata dal mondo, a dir di no, mentre tutto il mondo diceva di si.

    E quando le difficoltà sfondavano gli occhi, la responsabilità non si dava a chi aveva condotto il paese in quel ginepraio, ma a chi aveva visto in tempo il pericolo e aveva inutilmente insistito perché fosse evitato.

G. SALVEMINI.