Il colpo di StatoOffriamo ai lettori un frammento del nuovo libro di Mario Missiroli Il colpo di Stato che pubblichiamo questa settimana nei Quaderni della Rivoluzione Liberale (lire 5). È un libro interamante nuovo, scritto con l'audacia e la profondità dei più celebri opuscoli del Risorgimento. ***
La conquista del potere da parte del Fascismo fu fin troppo facile. Al Fascismo il potere fu ceduto in poche ore, senza discussioni e senza la simulazione di una resistenza. I partiti conservatori, la borghesia danarosa, lo Stato Maggiore, le Destre, gli adoratori del capitale, avrebbero preferito un colpo di Stato con un Ministero di coalizione reazionaria con larga rappresentanza fascista. Un simile Ministero avrebbe scoperto la Corona anche agli occhi degli osservatori meno esperti: la soppressione delle libertà e l'umiliazione del Parlamento sarebbero ricadute su la Monarchia, presto o tardi chiamata a risponderne davanti ad una rinnovata coscienza liberale del Paese. Ciò non doveva avvenire. La Monarchia, che interviene sempre e decide nei momenti salienti della vita della Nazione, non ama scoprirsi. Chi vuole intendere la politica italiana non deve mai dimenticare che il fattore decisivo è sempre quello monarchico. Gli avvenimenti più importanti degli ultimi cinquant'anni riescono inintelliggibili e sfuggono ad ogni responsabilità se si prescinde dalla Corona. Come le giornate di maggio coprirono la Corona, così la marcia su Roma ha permesso alla Monarchia di effettuare il colpo di Stato declinandone la responsabilità ed assumendo, anzi, le apparenze di un intervento moderatore. Questo sistema, se vale a porre la Monarchia al riparo da opposizioni repubblicane, non è senza gravi inconvenienti: legittimando e favorendo ogni sorta di equivoci, espone il Paese a deleterie lotte intestine, che ne logorano la compagine e falsano il carattere di tutta quanta la vita politica. L'ideologia delle giornate di maggio, demagogica, universalistica, umanitaria, offuscò la chiara visione dei fini nazionali durante la guerra e prolungandosi dopo l'armistizio, esercitò una influenza nefasta nelle trattative della pace. Non diversamente per il colpo di Stato. Non si vollero chiamare le cose col loro vero nome e allo scopo di nascondere che si intendeva di inaugurare un nuovo periodo della politica italiana, crudamente conservatore, con la prevalenza dei ceti militari e padronali, agrari e industriali, contrassegnate dalla soppressione delle libertà e dalla mutilazione del Parlamento, si disse che una rivoluzione aveva vinto, subita dalla Monarchia, cui il Paese doveva non poca gratitudine per avere evitato lo spargimento di sangue cittadino. Si perpetuò quel dannosissimo equivoco, che è all'origine del movimento fascista: una politica spiccatamente reazionaria, che parla un linguaggio rivoluzionario. L'intransigenza di Mussolini di fronte ai partiti della Destra durante la marcia su Roma offrì alla Monarchia il modo di attuare il colpo di Stato avendo l'aria di cedere alla volontà popolare, allontanando, in pari tempo, da sé, la compromettente solidarietà con quegli uomini e quei partiti, notoriamente reazionari, che sono così invisi al popolo. La rivoluzione era nelle parole. Nei fatti, il Governo non esitò davanti a nessuna esigenza della reazione politica ed economica. Mentre nella politica estera continuò le direttive fissate da Giolitti, nella politica interna fece il deserto e in quella economica prevenne perfino i desideri dei ceti abbienti, delle classi interessate alla difesa quiritaria della proprietà. Se una politica di raccoglimento per tutti poteva essere giustificata con le necessità di una economia chiusa, che non consentiva i margini dell'anteguerra, nessuna scusa plausibile poteva invocare la politica economica del nuovo Governo, che, forte di una onnipotenza dittatoria, non osava colpire, ai fini del pareggio, la ricchezza terriera e nobiliare, inesauribile nelle risorse e al riparo dagli assalti del proletariato, rassegnato alle mortificazioni ed ai salari di una plebe dispersa. Si preferì sottoporre all'imposta i salari degli operai, mentre si perpetravamo quelle scandalose tariffe doganali, che levano barriere insuperabili contro la concorrenza estera ed aumentano il costo della vita: contemporaneamente si riducevano le paghe e si distruggevano i contratti di lavoro, si annullavano le guarentigie dei ceti medi contro l'esosità capitalistica e si aboliva l'imposta di successione, abolizione da nessuno invocata. Il Ministero del Lavoro era tolto di mezzo con un tratto di penna e il Consiglio superiore della produzione restava una promessa seducente non mantenuta. Le otto ore sono una conquista da riconquistare. L'abolizione della festa del primo maggio ha ferito a morte l'orgoglio dell'operaio italiano soprattutto nei confronti col proletariato straniero. Le umiliazioni che toccano l'anima sono indimenticabili. Politicamente, il Fascismo al governo si può definire un tentativo giolittiano: rozzo e violento e senza forme. Questa affermazione può parere paradossale, ma non deve stupire. Non mi riferisco alla mortificazione delle libertà ed agli arbitri polizieschi, che non possono durare a lungo, perché nemmeno il Governo ha interesse a perpetuarli. Le stesse iniquità dell'economia e del sistema finanziario sono riparabili e non valgono, da sole, a definire una fase politica. Quando affermo che il Fascismo al governo presenta i caratteri tipici del giolittismo, intendo che esso rientra in quel "sistema" monarchico-antiliberale-demagogico, che trovò in Giolitti un interprete ed un esecutore incomparabile. La coincidenza fondamentale del Fascismo col giolittismo è nella negazione della "logica" della guerra. Pur celebrando la guerra ed esaltando lo sforzo titanico dell'Esercito e del Paese, il Fascismo al potere nega la guerra nella sua logica dinamica. Audaci riforme politiche, partecipazione al potere delle grandi masse, controllo delle organizzazioni su la produzione, politica estera sottratta ai circoli di Corte e affidata al Parlamento: queste le conseguenza della guerra, queste e non altre le premesse di una politica veramente forte, capace di ispirarsi davvero alle speranze da essa suscitate. E invece! L'esperimento collaborazionista di Nitti fallì perché ebbe l'illusione di fare la politica della guerra prescindendo dalla vittoria e dai dati sentimentali ad essa inerenti; quello di Giolitti non conseguì diverso risultato, perché negò idealmente la guerra, preoccupato soltanto di rimediare i danni economici: il primo, tuttavia, giovò a fini di ordine e di polizia evitando, in un momento di semi anarchia europea, pericolosi sommovimenti, mentre il secondo, continuando l'opera finanziaria del primo, ma con maggiore audacia ed organicità, salvò le finanze dello Stata dalla rovina. Il Fascismo avrebbe dovuto operare la sintesi; ma come, se esso presenta tutti i caratteri dei periodi reazionari? Come le rivoluzioni, le reazioni seguono un ritmo eguale e sembrano ripetere un modello. La negazione della logica della guerra, respingendo le masse dallo Stato, doveva trascinare il Fascismo su il medesimo piano del giolittismo e della reazione monarchica. Senza l'adesione delle masse, senza la collaborazione del popolo, nessuna politica estera originale. La grande politica estera, la politica di espansione e di potenza, è un privilegio delle democrazie. Nella politica estera, il Fascismo o è l'esecutore testamentario di Giolitti o non ne fa. Di nuovo, c'è l'isolamento. E' nella politica interna, che più colpiscono le identità del Fascismo col giolittismo. A parte le provvidenze sociali di Giolitti, che i tempi magri non consentono e le licenze verbali, che Mussolini non saprebbe tollerare, il giolittismo, come si è visto, significava sopratutto paternalismo, negazione dei partiti e della politica, elisione del parlamento. Caposaldo anche se taciuto, del programma col quale Giolitti ritornò al governo, era la riforma elettorale. Mussolini ha eseguito il disegno di Giolitti mediante quella riforma elettorale, nella quale culmina la reazione legale. Quando si parla di reazione, si deve distinguere fra la reazione padronale e di classe e la reazione monarchica. La prima è quasi sempre transitoria e invisa ai governi, mentre la seconda è permanente: antiliberale nella sostanza, assume aspetti e atteggiamenti democratici sul terreno sociale. E' intuitivo che la prima è la negazione di quelle condizioni, che rendano possibile la seconda. Non é possibile negare le libertà politiche, le illusorie libertà, di cui si contentava il popolo italiano ed organizzare, contemporaneamente, la reazione padronale. La miseria è una pessima consigliera. Tutte le emancipazioni economiche furono animate da una volontà politica: la fame risveglia il senso della libertà e del diritto e contrappone l'uomo all'uomo. La reazione antiliberale e monarchica, quel sistema di benefizi e di licenze, che, sotto Giolitti, faceva dimenticare perfino la nozione della libertà, è possibile solo in quanto esistano, fra le classi, dei rapporti economici ispirati ad una relativa equità. Questa intuizione fu per Giolitti una regola. Non è improbabile che la reazione economica e padronale susciti un risveglio politico nelle stesse masse operaie e contadine e non è nemmeno improbabile che gli elementi democratici della società italiana, i ceti della media borghesia, gli scontenti e gli spostati, frazioni dello stesso Fascismo, possano dare vita, presto o tardi, ad un partito vivacemente democratico, che riprenda mutatis mutandis, il compito della vecchia democrazia cavallottiana. Nell'un caso come nell'altro, assisteremo ad una ripresa socialistica ed operaia favorita dallo stesso Mussolini, se ed in quanto vorrà essere un fedele ministro della Monarchia. Non vi è nulla di assurdo ad immaginare un Mussolini capo di un vasto partito del lavoro, che dissolva il Fascismo e riprenda, rinnovandola, la politica di Giolitti, monarchica ed antiliberale, con tendenze sociali. Un movimento operaio controllato ed il voto alle donne potranno essere gli strumenti della prossima politica monarchica se si avvertirà la formazione di una coscienza politica sul piano dei partiti organizzati. Riuscì facile distruggere il socialismo perché la sua fortuna era stata, in gran parte, una creazione artificiale e di comodo. Il giorno in cui, anziché costituire una remora contro la democrazia e il liberalismo - non si dimentichi che la vecchia democrazia fu ostilissima al sorgere del socialismo - il socialismo parve diventarne il propulsore, lo Stato se ne sbarazzò. La corporazione e la lotta per i salari: lo Stato monarchico non concede di più. La sua tolleranza ammette unicamente un partito socialista di limitate proporzioni, se intransigente; ma se equivale ai partiti dell'ordine,e ad essi può contrapporsi, deve essere collaborazionista senza condizioni. La pratica di governo non può uscire dal suo metodo e dal suo tipo. MARIO MISSIROLI
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