INVENTARIO DI CULTURA

Panzini

    Il Panzini, più femminile, dal pensiero più che meditativo, ma anche più disciplinato, fino alla scaltrezza e, purtroppo, fino al manierato - vero crepuscolare, infine - non giunge mai alle angosce tormentose di una tempesta interiore. Già il titolo del suo diario psicologico - che è anch'esso, nella parte più interessante, un diario di vigilia - indica a sufficienza ciò che lo separa dal Serra. Da un Esame di coscienza passiamo ad un Diario sentimentale dal maggio 1915 al novembre 1918. Diario sentimentale in quel giorni e su quei giorni fa pensare alla Malinconia di Pindemonte cantata a mezza voce in un "a parte", in un angolo del palcoscenico, mentre sul proscenio si appresta la tragedia eschilea.

    È naturale che in un'atmosfera come quella creata alquanto artificialmente dal Panzini le inquietudini dell'anima trovino a portata di mano elementi di consolazione, e prima che da altre cose da un certo ironico compatimento per gli altri e per sé stesso, che attutisce anche i rimbombi della tragedia circostante. Il Pazini si trova alla stazione al momento che parte uno dei primi treni, che portano ufficiali verso il confine, e un tenente del genio, che era stato suo discepolo, gli grida dal finestrino:

     - Vedrà che belle cose faremo! E lui, tornando indietro, rimugina tra sé: "Ma che strane parole quel giovane ufficiale del genio: - Vedrà che belle cose faremo!".

    Sarebbe difficile comprendere il motivo della meraviglia del Panzini, se non ci si riportasse al continuo trasferimento che egli fa o tenta di fare dei valori normali della vita, per cui la zona del meraviglioso é allargata in maniera artificiosa e lo scrittore finisce per trovarsi di fronte alla vita nell'aspetto preciso di uno spettatore miope, che, a teatro, abbia improvvisamente smarriti gli occhiali.





    È pur vero però che alcuni istanti di più lucida introspezione lo portano a sentirsi in una condizione d'inferiorità e ad immalinconirsi d'un tratto: "Ah, io ho presso di me - esclama a un certo momento - questa scarna, macera, gelida ironia, che m'apre gli uomini e le cose e non mi fa vedere se non ciò ch'è più tristo e più vano!". S'inganna però lo scrittore nel credere sia che la sua ironia apra uomini e cose, sia che essa gli faccia vedere solamente il più tristo e il più vano. Non c'è niente di assoluto nella vita quale appare al Panzini: è una vita troppo frammentaria, non aperta, ma spiata da una fessura, e non comporta superlativi. Ma un momentaneo senso di disinganno e un moto di repulsione da quel continuo gioco cerebrale di deformazioni umoristiche delle proporzioni reali delle cose, spinge una volta tanto al superlativo fuori posto; e quel sentimento e quel movimento, se sono in quel punto una debolezza rispetto allo stile dell'artista, fanno intravedere qualche cosa, che comincia a staccarsi dal "crepuscolarismo".

Ferrero e Labriola

    I flebili lamenti dei crepuscolari nelle ore cattive sono voci di poca consistenza, e si possono raccogliere - in sede di storia della cultura - in quanto sono le prime manifestazioni inconsce di reazione ad una letteratura di moda, che poi gli stessi crepuscolari, nel complesso della loro opera, contribuivano ad ingrossare. Ma una più seria e cosciente reazione si determinava, o per dir meglio riprendeva forza da parte non di poeti e letterati in istanti di turbamento, ma per opera cosciente e riflessiva di studiosi che nel periodo "vociano" apparivano come attardati e irrimediabilmente condannati pel loro persistente attaccamento ai metodi delle scienze positive.

    È un fenomeno non raro nella storia del pensiero quello di scrittori, che si potrebbe dire che saltino una generazione o una zona culturale, ritrovandosi in quella seguente, molto più a loro agio e come rinnovati sia nella esperienza propria sia nella generale considerazione. Avvenne così in Italia che, passata la prima ondata antipositivista, alcuni dei migliori e più giovani campioni, che aveva nutrito la scuola positiva, si trovarono ancora in piedi, al loro posto; ma perché, facendo tesoro delle esperienze acquistate durante la lotta, avevano saputo gettare parecchia suppellettile scadente di casa propria e avevano cercato di apprendere quale era la suppellettile utile di casa altrui.





    Il pubblico apprezzò il loro spirito giovanile e si riaccostò ad essi con rinnovato interesse, anche per effetto delle prime disillusioni dell'idealismo "vociano", che si sbandava. La guerra e il dopo guerra hanno fatto rivolgere ancora più gli occhi su questi studiosi, che, liberi da molte pregiudiziali di schemi teoretici, appaiono più adatti a quel paziente lavoro di ortopedia, a cui bisogna oggigiorno assoggettare molte idee fracassate dal consenso metodico.

    Le figure rappresentative di questo gruppo mi paiono quattro - due che provengono dagli studi storici, due da quelli economici: - il Ferrero e il Salvemini, l'Einaudi e il Labriola. Quantunque molto distanti per temperamento, per studi, per opinioni, il Ferrero e il Labriola hanno in comune un istinto chiarificatore, talvolta semplificatore, che li ha spinti a misurarsi coraggiosamente con le antinomie e i paradossi risultanti da un tempo di crisi e di rivolgimento di valori. Naturalmente la loro risposta è quella del due più due fanno quattro, l'appello ai principi fondamentali della logica tradizionale. La morale degli scritti dettati loro dagli ultimi eventi potrebbe riassumersi così: - Il mondo, che agli inesperti ed ai sognatori può parere sapiente di infinite soluzioni ai casi della vita, ne possiede invece un numero circoscritto e che non può essere aumentato, variato o combinato a capriccio. Qualsiasi accozzamento artificiale, arbitrario degli elementi, che costituiscono il terreno comune, su cui ci muoviamo, o qualsiasi illusoria attesa di soluzioni miracolose è pagato a caro prezzo con dolori e disastri materiali e morali. L'Europa del dopo-guerra si trova a mal partito per essersi abbandonata a simili giochi azzardosi di combinazioni arbitrarie (trattato di Versailles) o di caccia al Messia (bolscevismo, fascismo, conati dittatoriali, ecc.). I nuovi regimi, le nuove istituzioni non si fabbricano come giocattoli. Essi spuntano lentamente dalla terra, sapientemente seminata e faticosamente lavorata. Anche il regime socialista - ammonisce il Labriola interpretando Marx per uso di molti suoi amici socialisti - non potrà sfuggire a questa legge storica e non potrà cominciare a fiorire, se non quando il massimo sviluppo e rassodamento delle istituzioni borghesi - cioè della democrazia - offrirà il fondamento necessario per sollevare un nuovo edificio economico di tanta mole.





    Il Ferrero, che non crede o non crede più in Marx, non trascura il fattore economico della crisi - che vede però più che come problema di produzione, alla maniera marxista, come fenomeno di distribuzione, in rapporto all'altro problema della sovrapopolazione d'Europa. - ma in un primo piano pone un problema, prettamente politico. Gli avvenimenti degli ultimi anni hanno messo in pericolo lo stesso principio di legittimità. Bisogna cominciare con riconoscere qual'esso sia, nel nostro secolo, e poi rinsaldarlo, poiché fuori di esso non c'è che anarchia e barbarie.

    Ormai in Europa, anche nei paesi in cui la monarchia vige ancora, un governo non è considerato legittimo, se non può affermare, d'accordo almeno con una convenzione di verità, di esprimere la volontà della nazione... Al di fuori di quel po' che resta dell'antico ordinamento monarchico, la sola fonte di autorità legittima è oggi il suffragio universale, organo della supposta autorità del popolo. Escluso il governo rappresentativo, non c'è più per l'Europa se non la dittatura di Lenin, poco importa se vestita di rosso o di bianco.

    Senonché, se ciò è vero, è pur vero che la sfiducia, il malcontento, la paura della democrazia hanno una ragione. Fino al 1914 tutta l'Europa, esclusa la Svizzera e la Francia, era governata da una combinazione ingegnosa di due principi di autorità - il monarchico e il democratico, - per cui i due principi si puntellavano a vicenda. La volontà popolare si appoggiava alla tradizione dinastica e la tradizione dinastica alla volontà popolare. Il terremoto del 1914 ha spezzato uno degli archi e l'altro sospeso in aria minaccia di cadere... L'inquietudine oscura che travaglia le giovani repubbliche e le ultime monarchie superstiti, che s'insinua anche nelle repubbliche più antiche, nasce dal presentimento vago di questo pericolo... L'Europa entra oramai in una fase nuova della sua storia, quella in cui, sciolta per sempre nei suoi elementi la ingegnosa combinazione del principio monarchico e del democratico; impossibile il ritorno al puro principio monarchico, i popoli del vecchio mondo dovranno fare della sovranità popolare una realtà viva... Al punto in cui sono giunte le cose, l'Europa si trova innanzi a questo dilemma: o cadere in balia della forza e delle sue dittature precarie o riuscire a fondare degli Stati forti e operosi sulla finzione della sovranità popolare.





    Il Ferrero offre uno dei migliori e più rispettabili esempi del potere educativo degli studi sperimentali, col preparare la mente a una continua revisione, alla luce dei fatti che si susseguono. Via via che egli ha meditato sugli avvenimenti che precipitano ha bandito come pernicioso il facile ottimismo dei primi anni (Europa giovane; Militarismo) intorno alla pace e ai destini dell'umanità. D'altra parte non si dà alla folle disperazione o al fantasticare soluzioni catastrofiche. La catastrofe bisogna evitarla, non correrci incontro: ciò è nella natura degli uomini normali, in forza dell'istinto di conservazione. Il positivista ha sempre un po' del medico, per affinità intellettiva. Il Ferrero vede il caso molto grave, ma resta presso il letto dell'ammalato, con viso severo, ma con dentro un'infinita pietà. Ed ecco una delle più acute diagnosi dei nostri tempi:

    Il male di cui soffrono tutti gli Stati d'Europa è appunto questo, che nessuno sa precisamente quello che vuole. In tutti i partiti, in tutte le classi, in tutte le scuole, in tutte le istituzioni, in tutti gli Stati, quasi direi in tutte le coscienze, ad eccezione di pochissime, cozzano dottrine, aspirazioni, interessi contraddittori. Che cosa vogliamo? E' un mistero, che non possiamo mai chiarire con noi stessi, perché vogliamo sempre l'opposto di ciò che vogliamo. Noi vogliamo la pace e la guerra, la potenza e la giustizia, la tirannide e la libertà, la parsimonia e lo spreco, l'equilibrio del bilancio e il disavanzo, la sicurezza e l'avventura. Nessuna civiltà e nessuna epoca furono mai più contraddittorie con sé medesime... Nelle condizioni presenti l'aspirazione alla dittatura, oggi così diffusa tra gl'ignoranti e tra i colti, è una forma romantica dello scoraggiamento.

    In genere, il pensiero che fa appello al buon senso ed ai principi della logica tradizionale è un pensiero "a circolo chiuso", vale a dire che non ammette scarti. Una linea x, che si slanci fuori dalla periferia tracciata, è destinata a cadere pesantemente al suolo, subito dopo. In questo senso il pensiero della riscossa positivista, e più particolarmente di Guglielmo Ferrero, può dirsi classico, e può dirsi l'unica seria reazione classica all'anarchia intellettuale che è sotto la presente crisi sociale.





Einaudi

    La mentalità del Ferrero e del Labriola è sopratutto di sperimentatori, quella del Salvemini e dell'Einaudi di moralisti. Potrà parere strano considerare come moralista uno scrittore di economia politica di grande serietà come l'Einaudi, che si guarda bene dall'entrare in altri campi di studi con fare dilettantesco. Ma appunto l'economia non è per lui un ferro del mestiere, ma una dottrina di vita, cioè, in sostanza, la norma morale e la fede, nella quale lo studioso desidera ferventemente di richiamare la società, che devia dietro false immagini di benessere. Da questa fede sincera e profonda deriva quel carattere sermocinativo della sua prosa. L'Einaudi è un meraviglioso propagandista, un missionario di principi classici del liberismo economico; un propagandista, che rifugge dai pistolotti e dalle perorazioni, ma che s'insinua con sapienza anche stilistica nell'animo del lettore. Pochi scrittori della sua materia sanno, come lui, proiettare luce insieme sulla scena e dietro le quinte durante una di quelle grandi féeries dell'alta finanza, nelle quali pare che non ci sia gamba di ballerina che non sia ben tornita. E invece, quanta stoppa!

    Meglio gli stinchi che la stoppa, pensa l'Einaudi; meglio la nuda e scarna realtà della vita economica che le superstrutture della vita politica, che si addossano alla vita economica, nell'illusione, magari in buona fede, di puntellarla o irrobustirla, e invece la soffocano e l'anemizzano. Prendete il suo recente libro Le lotte del lavoro. Sono articoli scritti nel corso di oltre un ventennio, dal 1897 al 1919, eppure perfettamente in armonia l'uno con l'altro, rami che si dipartono dallo stesso tronco di una dottrina interamente compenetrata dallo scrittore. I risultati di questa lunga esperienza sono riassunti nella prefazione che è una nuova e più categorica professione di fede liberista: l'equilibrio economico non s'impone dall'esterno, ma si stabilisce come risultato di una lotta; non si raggiunge dai politici, ma dai tecnici, ed attraverso la lotta. E sapete come s'intitola la prefazione,? "La bellezza della lotta". Proprio così: questo rigido studioso, scrittore incisivo, ma asciutto, nel raccogliere nella memoria la sua attività di molti anni e nel riassumere le idee che l'hanno guidata non sfugge ad un movimento lirico, che gli fa vedere la bellezza di quella che è la necessità storica della lotta. Bellezza, che per l'Einaudi non ha un significato estatico, sibbene morale: bellezza significa qui elemento di affermazione del carattere, di elevazione umana.





    Avviene in tal modo - almeno come conseguenza implicita - che mentre i principi economici astratti, nei quali crede l'Einaudi, gli fanno separare il mondo in due emisferi, quello della economia e quello della politica, in due emisferi impenetrabili - che è un'utopia, perché l'homo æconomicus è un'astrazione, un'ipotesi scientifica - ; la fede stessa che pervade lo scrittore circa il valore etico della lotta economica lo porta a ristabilire i rapporti tra l'uomo economico e l'uomo politico, col sottinteso però che siano rovesciati i valori correnti, e, cioè che l'uomo economico puro - e quindi più educato e più moralmente forte - influenzi in modo benefico l'uomo politico.

    Questo pensiero non è enunciato e resta indistinto negli scritti dell'Einaudi, ma discende direttamente dalla sua fede nella bellezza della lotta economica, in contrasto con la diffidenza verso i "politicanti".

MARIO VINCIGUERRA