PROSPERITÀ E DECADENZA DELL'AGRICOLTURA TOSCANA

    Quando Roma con la forza delle armi debellava l'ultimo re etrusco e univa al suo dominio la regione Toscana, distruggeva una delle più meravigliose e raffinate civiltà antiche.

    Se Roma non avesse avuto la potenza d'assorbimento della civiltà che abbatteva nel suo sforzo di espansione, potrebbe sembrare colposo il destino che la portava al compimento della sua missione, poiché il popolo etrusco fu veramente grande nelle arti, nelle armi e nell'agricoltura.

    Che fosse stato grande nelle arti e nelle armi lo attestano i copiosi monumenti originali e freschi che ci ha tramandato e la lunga, tenace e spesso incerta guerra di offesa e di difesa sostenuta contro Roma.

    Che fosse stato grande nell'agricoltura, in senso relativo e assoluto, lo attesta l'alto grado delle opere di architettura, idrauliche e di bonifica dettate da una superiore sapienza ed esperienza.

    Mentre nei primi secoli della fondazione di Roma l'Italia settentrionale è sempre imbarbarita, e nella meridionale soltanto sulle coste si alimentano i centri di civiltà delle colonie greche, nell'Italia centrale, e particolarmente in Toscana, sussiste dunque, una profonda tradizione agricola.

    Gli studi che dovranno svelare ulteriormente la meravigliosa civiltà etrusca, diranno il grado e l'importanza di tale tradizione, che è la più antica d'Italia.

    Ci basta l'avere accennato al fatto storico, poiché può avere importanza straordinaria per chi crede nella lenta e successiva evoluzione delle diverse forme e sistemi di agricoltura; per chi ritiene che le forme attuali della proprietà fondiaria, dei contratti agrari, di sfruttamento, abbiano dei germi lontani che si sono andati via via elaborando attraverso lunghi periodi storici, non tanto per opera degli uomini, quanto per le fatalità economiche che sono il substrato della vita dei popoli.





    Il regime fondiario e agrario di Roma repubblicana, caratterizzato dalla piccola proprietà coltivatrice, si accordò magnificamente con l'ambiente agricolo naturale della Toscana, poiché ancora oggi questa regione non ha vaste pianure coltivabili se non a prezzo di bonifiche idrauliche ed agrarie, e sulle pendici dei poggi, ancora oggi, le modeste superfici coltivate sono intramezzate da boschi o da terreni sodivi: la Toscana è, infatti, la regione della piccola unità coltivatrice, in quanto la natura del terreno ed il suo rilievo, ha sempre posto al coltivatore toscano il limite, difficilmente superabile, della estensione dell'attuale podere, a seconda delle progressive fertilità, da 5 a 25 ettari.

    La piccola proprietà coltivatrice è stata la forza iniziale di espansione di Roma, il periodo d'oro dell'agricoltura romana e toscana.

    I rurali erano agricoltori ed anche soldati. Nulla mancava al fabbisogno alimentare di Roma.

    Il podere della piccola proprietà coltivatrice di Roma repubblicana aveva una estensione non superiore a 200 "jugeri" (50 ettari), ed era fornito di abitazione per il proprietario e per i pochi servi, e di ricoveri per il bestiame. La superficie era minore se esistevano colture arboree: viti ed olivi che richiedevano molta mano d'opera.

    In tempi più remoti il podere si riduceva a pochi ettari poiché si riteneva che bastassero due "jugeri" coltivati a grano per coltivatore. Cincinnato e Regolo possedettero soltanto sette "jugeri".

    Verosimilmente l'avvicendamento consisteva nel grano-riposo, salvo che non fosse fave, o veccie, o piselli-riposo.

    Il bestiame era costituito da buoi, pecore, maiali ed asini.

    I buoi, da un paio a due per podere, rappresentavano il mezzo per la lavorazione del terreno mediante l'aratro e per fare i trasporti delle derrate.





    Le pecore, in ragione di un capo ogni due ettari circa, avevano oltre la funzione agricola di utilizzare il pascolo delle stoppie dei cereali e quello spontaneo del podere, la funzione forse più importante di quella giuocata dai bovini, di essere le produttrici di carne e di latticini, e sopratutto, di materiale tessile. Infatti la lana era l'unica, se non esclusiva materia del tempo, mancando allora la produzione del cotone e della seta, non essendo che poco nota, o scarsamente coltivata, la canapa ed il lino.

    I maiali erano pure i produttori di carne ed erano tenuti generalmente al bosco.

    Gli asini servivano per i piccoli trasporti, come ora.

    Il bestiame trovava, infine, nei pascoli comuni di proprietà dello Stato, il fabbisogno alimentare integratore.

    Però il bestiame veniva tenuto in appositi ricoveri, e durante l'inverno veniva governato specialmente con fogliame di pioppo e d'olmo.

    La lettiera veniva pure usata.

    Il letame veniva peraltro raccolto, conservato con molta cura e del pari accuratamente impiegato.

    La produzione del grano, del vino e dell'olio non era inferiore a quella odierna.

    L'organizzazione di Roma repubblicana è, dunque, la medesima, se non migliore, dei tempi presenti.

    Chi vuole sapere di più legga il capitolo X delle Cose rustiche di Marco Porcio Catone.

    C'è da restare meravigliati e sbalorditi; non a torto molti ritengono Roma maestra d'agricoltura. Certo è la grande madre della nostra agricoltura!

    La organizzazione agricola della Toscana era tale da potere in seguito, durante l'Impero, in parte sopperire ai bisogni alimentari dell'Urbe, accresciuti dalle turbe dei parassiti e degli oziosi che vivevano sui margini della accresciuta ricchezza dovuta alle guerre vittoriose e delle distribuzioni gratuite o semigratuite di grano di olio.





    Sotto Augusto il decadimento dell'agricoltura italiana ormai era iniziato per quella complessa crisi sociale, militare e tributaria che doveva dissolvere Roma sotto la pressione dei barbari. La terra sotto le mura di Roma veniva abbandonata a pascolo, ed il deserto si faceva laddove il terreno era stato fertile e produttivo, in conseguenza delle forze negative combinate del latifondo e della schiavitù.

    Augusto con uno sforzo grandioso crea le Colonie agricole in vari punti dell'Impero, inviandovi i reduci delle guerre ed i cittadini romani ai quali concede gratuitamente la terra. Sorge così tra le varie città che ancora restano, Siena.

    Un gruppo di uomini che meravigliano per la loro genialità e la profondità del sapere: Catone, Varrone, Columella, Plinio, e con insuperabile potenza Virgilio, avevano già denunciato, disperatamente, ma invano, il pericolo. Si sente infatti, attraverso al loro linguaggio, la sensazione che la fine della coltivazione dei cereali, l'estendersi del pascolo e delle brughiere, l'abbandono del bestiame in mani servili, non è soltanto la fine dello splendore dell'agricoltura, ma la lenta agonia di Roma.

    Quando venne l'urto fatale tra civiltà e barbarie, l'Impero cadeva straziato per molti secoli dalle atrocità delle invasioni, e fu, forse, fortuna della Toscana l'essere tagliata fuori dalle grandi linee di comunicazioni, se poteva essere in parte risparmiata.

    Mentre i barbari che si erano impadroniti dell'Italia abbandonavano in parte le loro tradizioni ed in parte assumevano quelle romane, sulla scena dell'Italia e della Toscana sorgono tre forze nuove alimentate da altrettanti diversi sentimenti: il monachesimo, il feudalesimo e le città libere.

    Sui rottami di tanti secoli tragici il mondo italiano cerca di ricomporsi e di vivere.

    Il monachesimo sorge contemporaneamente in Francia, in Inghilterra ed in Italia: qui per opera di Benedetto da Norcia.

    Il benedettismo raccoglie le scarse tradizioni agricole rimaste; s'impone, assieme alla propria regola, una regola agricola: 7 ore al giorno di lavoro, compreso il lavoro della terra, e vivere con i soli prodotti della terra: la potenza e la attrazione religiosa di quel tempo era tale che il benedettismo si irradiava per ogni dove con l'efficacia e risultati più grandi di quelli che non abbiano dato le Colonie di Augusto.





    Montecassino, Bobbio, Nonantola, Farfa, Vallombrosa, Camaldoli, Certosa, ecc., furono oltre che i depositari delle reliquie della civiltà romana, i vivai di buoni agricoltori. Quando la terra sopravanza, e lo era regolarmente perché i possessi erano imponenti per le concessioni regie, diffondono largamente l'enfiteusi: il livello è generalmente in natura: grano, vino, lana, polli, ova, da portarsi al Convento.

    Il livellario è, pertanto, un coltivatore quasi libero: è almeno libero nell'esercizio dell'agricoltura e nel commercio dei suoi prodotti.

    Durante il monachesimo se non sorgono, certo assurgono a nuova e maggiore importanza, i mercati e sopratutto le fiere annuali di derrate e di bestiame.

    Le fiere ricorrono presso località, stabilite ordinariamente per la festa patronale e durano parecchi giorni. Sono avvenimenti grandiosi perché raccolgono migliaia di capi e migliaia di persone. Per pochi giorni si improvvisano dei paesi che poi scompaiono.

    Essi segnano una ripresa commerciale notevole anche coi paesi più lontani, ed attivo scambio di bestiame e di derrate di ogni genere.

    Il feudalismo sorto in seguito all'ordinamento politico di Carlo Magno creava un nuovo ordinamento che manteneva ancora la schiavitù della gleba. I rurali che vivevano nel dominio del Castello dovevano lavorare per alcuni giorni della settimana nell'esclusivo interesse del feudatario, e dargli altresì prestazioni durante la caccia, la pesca ed i lavori straordinari della fienazione, della mietitura e boschivi. Lo splendore talora eccessivo dei feudatari che solevano avere una vita lunga, e certo costosa, non sempre doveva potersi sostenere a lungo: il tornaconto consigliava di alleggerire il numero dei servi costosi ed inutili: forse il sentimento religioso contribuì a questo nuovo avvenimento. Così il verso il 1100, Matilde di Canossa lascia per testamento che molti servi sieno emancipati. Il conte Alberto di Bergamo emancipa servi e loro dona terreni da coltivare. Ma tale movimento doveva essere portato a buon fine dai Comuni italiani.

    Le città italiane del contado risorte a vita verso il 1200 colla progressiva conquista della propria autorità ed all'arbitrio dei faudatarii laici ed ecclesiastici, danno il definitivo tracollo alla servitù della gleba. Nei servi angariati, nel senso vero della parola del feudatario, essi trovano i naturali alleati per abbattere la potenza e per intensificare le proprie industrie e commerci. E' l'ora della libertà, ma è l'ora, altresì, di una febbre di commerci e di ricchezze.





    Carlo Cattaneo dice esattamente, affermando che l'agricoltura nel medio evo uscì dalle città.

    Pertanto nel 1199 il Comune di Verona repartisce 4000 campi e Pistoia nel 1205 decreta la emancipazione dei servi della gleba. Più tardi li seguono Vercelli, Bologna e Firenze.

    L'agricoltura risorge attraverso ad una nuova visione industriale: Bergamo, Brescia e Milano cominciano l'escavazione di canali irrigatori; Cremona e Mantova innalzano gli argini al Po (1150-1200).

    Nella valle del Po nasce la praticoltura artificiale e con essa l'allevamento del bestiame da latte e l'industria casearia.

    Nell'Italia centrale, e specialmente in Toscana, i rurali liberi assurgono alla condizione di veri coloni mezzadri col diritto alla metà del frutto delle loro fatiche ed alla libertà personale, aventi personalità giuridica e costituiti in eguaglianza legale di fronte al proprietario, col quale firmavano contratti di mezzeria per un lasso di tempo variante a seconda degli accordi stabiliti dalla parte contrattuale.

    L'esposizione può procedere quindi nel campo della documentazione che il Casabianca ha portato con dei documenti di eccezionale importanza che riguardano il periodo dal 1224 al 1300.

    Ormai il podere si ricostruisce nelle forme tecniche del podere di Roma repubblicana; la casa, la stalla, la stabulazione del bestiame, lo avvicendamento, salvo che nella forma contrattuale non sia più perfetta.

    Il salto può sembrare enorme ed improvviso quando si pensi che il colono raggiunge contemporaneamente la libertà giuridica e, se ha volontà e la fortuna, la possibilità di diventare esso stesso proprietario col proprio risparmio. Nasce pertanto la proprietà privata legittimata dal risparmio, cioè moralmente e giuridicamente perfetta.

    Sopra questi avvenimenti passano sette secoli di grandi straordinarie vicende sociali e politiche; invasioni militari, la scoperta dell'America, guerre fratricide, dominazioni straniere ed infine l'unità politica dell'Italia nei suoi confini naturali, ma sostanzialmente l'assetto rurale fondiario ed agrario resta il medesimo: la media proprietà condotta a salariati liberi o a colonia, la piccola proprietà coltivatrice, il latifondo.





    Vi è un punto che non può sembrare chiaro nello sviluppo del processo storico della proprietà fondiaria, ed è la diversa ampiezza ed il diverso grado di progresso al quale è pervenuta la proprietà fondiaria delle diverse regioni italiane.

    Si trova, infatti, che mentre all'inizio dell'evo moderno nell'Italia settentrionale si andava formando una media, e soltanto eccezionalmente la grande proprietà che applicava nei modi migliori le tradizioni tecniche di Roma antica, via via che si scende in Toscana e nell'Italia meridionale si trova che si è consolidata la grande proprietà, e, particolarmente, nel Mezzogiorno, il latifondo. Conseguentemente i simboli estremi di queste due agricolture, con punti di riferimento intermedii per la Toscana, sono la vacca da latte nel settentrione e la pecora transumante nell'Italia meridionale.

    Non è a dire che all'inizio dell'evo moderno e nei secoli successivi la buona tecnica agricola non fosse conosciuta ed anche propagandata.

    La scoperta della stampa e la sua rapida applicazione, la rinascita degli studi diffusero intorno al 1500 i georgici di Roma, ed assieme ad essi lavori di altissimo valore del Mattioli, dell'Alamanni, del Vettori, del Soderini, del Davanzati.

    Vi è stata, insomma, una ripresa poderosa, ma che raggiunge risultati diversi: positivi nel nord, incerti in Toscana e negativi nel sud.

    I tecnici attribuiscono tale diverso grado di progresso agricolo al diverso fattore fisico, e particolarmente al diverso grado di piovosità: nella valle del Po piovono 800 mm., in Toscana 600-700; nel sud 400-500, in questo ultimo con una sfavorevole distribuzione.

    Certamente questo è vero, ma non è tutto. Gli stessi tecnici trascurano che la stessa piovosità nei suoi benefici effetti è alterata dalla maggiore evaporazione particolarmente per opera del calore e dei venti scendendo dal Po alla Sicilia; e mi sembra che trascurino che via via che i terreni si allontanano dal quaternario della Valle del Po, diventano meccanicamente e chimicamente più difettosi: valgono per tutti le crete ed i mattajoni toscani chimicamente buoni ma meccanicamente irriducibili, o quasi.

    Ma si trascura altresì un fatto storico che ha operato singolarmente, e che ancora oggi non è riuscito ad ammaestrare, ed è il sorgere e l'affermarsi nell'Alta Italia, e particolarmente in Toscana, delle prime correnti capitalistiche coll'affermarsi dei liberi Comuni.





    Se sulla fine dell'evo medio Venezia, Brescia, Bologna e singolarmente Firenze, furono centro di sapere classico e agrario, furono altresì centro di numerosi commerci ricchi e fortunati. Le nuove aristocrazie che sorgevano coi guadagni delle mercature, se si affermavano col fasto delle belle arti, seppero abilmente impiegare il loro denaro nell'esercizio dell'agricoltura. Se alcuni secoli prima i Comuni armati avevano portato l'agricoltura nelle campagne, ora ve la riportano con la forza, del pari potente, del denaro.

    Il fenomeno non doveva avvenire a caso dopo la scoperta dell'America e delle Indie che spostavano il centro dell'attività marittima dal Mediterraneo all'Oceano, dall'Europa alle colonie d'oltremare. Se la potenza marittima passava alla Spagna, al Portogallo, all'Inghilterra, l'economia italiana poteva ancora salvarsi, in parte, portanto il risparmio alla terra.

    Così la valle del Po poté salvarsi e vivere, la Toscana rinsaldarsi, mentre l'Italia meridionale continuava la sua agonia economica per opera di un semplice fenomeno di impecuniosità che ancora oggi la caratterizza.

    Il periodo che si inizia nel 1814 con la restaurazione di Ferdinando III ad oggi, per quanto storicamente breve, deve essere esaminato partitamente: e cioè avanti e dopo l'annessione della Toscana al Regno d'Italia.

    Ferdinando III e Leopoldo II preceduti dalla tradizione legislativa ed amministrativa del loro veramente sommo avo Leopoldo, trovarono in condizioni relativamente felici l'agricoltura toscana.

    La rivoluzione francese e le guerre napoleoniche avevano avute in misura minore che nelle altre regioni italiane le loro ripercussioni economicamente dannose, mentre la politica agraria aveva delle profonde e chiare direttive segnate dal sommo luminoso leopoldino; la libertà economica, il contratto puro di mezzadria, e le opere statali di bonifiche idrauliche e agrarie della Maremma.

    I fili della politica erano tenuti nelle mani dell'aristocrazia che era contemporaneamente la proprietaria terriera non assenteista, la quale aveva delle idee e della cultura non indifferenti.

    Mai Stato italiano ha avuto una politica così chiara ed una classe dirigente consapevole come durante il regime granducale.





    Gli è che non doveva essere difficile governare una regione di 24 milioni di chilometri quadrati ed 1 milione e mezzo di persone, con territorio, quindi, relativamente vasto, che offriva tutto il fabbisogno alimentare: il grano, l'olio, il vino, prodotti del bestiame a mezzo dell'agricoltura bene organizzata dal sistema colonico; e che aveva, in più, gli svariati prodotti minerari che può richiedere un paese industriale moderno, ed un'industria ed un commercio di tessuti, il migliore del tempo!

    La Toscana aveva, pertanto, nel periodo che va dal 1814 al 1859 un suo "sistema economico", un sistema certo modesto che non può competere con quello che si sarebbe creato nella valle del Po dopo il 1859 con i trafori alpini, l'energia idraulica e l'irrigazione, il sorgere di una classe superiore a quello dell'Italia meridionale per la semplice ragione che... non ne ha alcuno, avendolo perduto quando si spegnevano i suoi rapporti con i paesi delle coste africane ed asiatiche del Mediterraneo...

    Io spiego, naturalmente non giustifico, il gesto dei contadini di Gajole che per quanto dipendenti di Bettino Ricasoli, ruppero le urne durante la votazione per l'annessione. Il colono toscano che bada più all'economia che alla politica, comprendeva e valutava che la fine del Granducato era la fine della prosperità economica, era la fine della prosperità dell'agricoltura.

    L'annessione al regno d'Italia è stato, dunque, un nobile errore della aristocrazia e della borghesia toscana.

    Da quel tempo l'agricoltura toscana ha vissuto dei ricordi di avvenimenti passati, e dei bei nomi storici. Si potrebbero riempire delle pagine intere di tanti nomi cari e simpatici, ma le cose non mutano affatto.

    E' chiaro che quando il dominio della cosa pubblica passava da Firenze a Roma, la proprietà terriera perdeva le fila della cosa pubblica, e buon per lei se ancora per qualche decennio ha potuto dare qualche suo uomo a servizio della monarchia. Da Roma è venuto regolarmente un sistema fiscale, dei provvedimenti agricoli generali e speciali, generalmente in antitesi con gli interessi fondiari ed agrari della Toscana, cosicché i redditi non miglioreranno mentre i bisogni si accresceranno.





    Nell'ultimo ventennio la proprietà terriera, sempre in mano alle vecchie famiglie, era sfiduciata e rispondeva sí, ma a parole, ai richiami del progresso agricolo.

    Il fenomeno saliente dell'epoca era, appunto, il costante incremento dei debiti ipotecari.

    La proprietà era sempre più afflitta dal fenomeno della impecuniosità, da quel carattere fenomeno spiccatamente meridionale, dovuto alla imponenza del capitale fondiario e la modestia o l'assenza del circolante, e dal grave fenomeno dell'alto conto dei miglioramenti e trasformazioni agricole nei confronti nel basso valore commerciale della terra in piena produzione.

    La proprietà terriera alla vigilia del 1914, ossia allo scadere di un secolo dell'inizio del periodo della sua maggiore prosperità, in parte vivacchiava ed in parte andava alla deriva.

    Nessuna formula sbocciava dalla crisi: non la vendita, non l'affitto, non l'industrializzazione.

    Scoppiava, invece, la guerra mondiale.

    Parve per un momento che l'agricoltura s'inabissasse, poi si riprese poiché tutti si sentirono arricchiti, poi si sentì piegare sotto la preoccupazione della rivoluzione proletaria.

    Venne, invece, il Fascismo.

ALBERTO OLIVA.
Nota. - Il presente articolo ha la sola pretesa di essere uno schema di uno studio storico economico dell'agricoltura toscana. Esso riassunse, in parte, un capitolo di un lavoro inedito dell'A.: Problemi di economia agraria, tratto specialmente dalle seguenti pubblicazioni:
ROSA - Storia dell'agricoltura;
VILLARI - Le invasioni barbariche in Italia.
ROSSI - Le istituzioni di beneficenza dell'antica Roma;
ULPIANI - Le georgiche;
ZOBI - Manuale storico;
ARIAS - La questione meridionale;
CATONE - Delle cose rustiche;
CASABIANCA - La mezzadria in Toscana, in alcuni documenti medievali;
AZIMONTI - Il mezzogiorno agrario qual è.