IL FASCISMO ANNACQUATO

    È troppo facile liquidare i movimenti politici dei reduci, con la solita osservazione che i meriti del combattente non sono titoli validi a dimostrare capacità politiche, e sono tutt'al più mezzo per la costituzione di privilegi.

    Il politico pratico risponde che, dato il notorio analfabetismo politico italiano, il problema consiste appunto nel trovare i moti sentimentali capaci di guidare le masse verso la vita politica, e verso una determinata politica; poniamo, verso la sana democrazia.

    È appunto su questo terreno, che occorre non solo negare alla esaltazione della gloriosa guerra ogni valore di fermento attivo; ma riconoscere in essa il più perfetto dei sonniferi politici.

    È infatti evidente che il fascino sentimentale della guerra combattuta e vinta tutto si racchiude nella potenza di un radioso ricordo, e nella contemplazione di gesta passate; mentre, da che gli uomini vivono in società, non sembra abbiano trovato sprone all'azione, se non nella speranza di beni futuri.

    La premessa del politico pratico è quindi del tutto irreale.

    Vi è un modo soltanto di considerare la guerra, che può incitare e muovere gli spiriti: il ritenerla un punto di partenza, semplice prima tappa di una via faticosa; creatrice di doveri e di responsabilità, non di diritti, segno di vita e non prova di perfezione.

    Ma soltanto pochi isolati moralisti malinconici, possono sentire stimoli di tal genere. Per la massa la guerra passata, smarrito il ricordo del terrore delle stragi e dei tormenti, diventa una opera perfetta, in sé chiusa risolutiva e conclusiva di un periodo storico. Porta Pia e Vittorio Veneto sono, per essi, ugualmente, gli ultimi atti grandiosi di un dramma e lieto fine. Così la guerra diventa, nelle memorie, fonte di nobili sentimenti e di commossa contemplazione; se non lo diventa, si annebbia e sparisce dai ricordi.

    L'illusione di Salvemini e del Rinnovamento consistette precisamente nel comunicare alle masse dei combattenti un senso preciso aderente alle necessità reali, dei doveri imposti dalla guerra combattuta; di avere dimenticato che il senso di civismo, che dalla lotta comune può nascere, permane e dà frutti soltanto se ogni ricordo militare si dilegua.





    Eppure una attività rumorosa sorge dagli stati d'animo ben coltivati dei trinceristi: la attività dei discorsi, delle sagre, delle autoesaltazioni, delle scomuniche ai miscredenti, e sopratutto degli accaparramenti affannosi di posti, di cariche e di onori. Se la guerra è il coronamento di un'opera, dopo di essa non sono più tollerati i sacrifici, ma unicamente permessi i canti, i discorsi, le pensioni e le elargizioni. La politica non è più una serie di azioni, ma una sequela di rivendicazioni.

    I capi si disavvezzano alla trattazione delle questioni della vita pubblica (dato che si siano mai avvezzati) bastando loro tenere alto il diapason del sentimento con una serie continua di esplosioni di entusiasmo a ripetizione; e si abituano a considerare uno scoppio di applausi alla fine dei cerimoniali come la prova provata che la patria è, per l'ennesima volta, salva.

    Da questa attività febbrile rimangono fuori, fra i reduci, le classi che meno la guerra compresero e forse più subirono; esse assistono a questi fuochi d'artificio con l'indifferenza sospettosa ed acre di chi è presente ad una gioia, cui non partecipa. Il culto della vittoria diventa un monopolio di classi determinate e ristrette, mentre si forma e si approfondisce l'abisso fra i patrioti e gli antipatrioti, ossia fra quelli che ne parlano, e quelli che non ne parlano.

    Soltanto uomini risoluti, pronti a tutto, cinici decisi a ricercare in ogni modo la buona ventura, possono condurre a qualche positivo risultato simili scoppi di passione, approfittando del turbamento che segue ogni guerra, della altrui debolezza e della propria pratica di violenza.

    Occorre che essi siano abili e indifferenti agli scopi ed ai programmi, repubblicani e monarchici, reazionari e sovversivi, pronti ad appoggiarsi ad interessi ed a correnti diverse per averne contenuto e direttive, ma abbastanza superbi e autoritari per non perdere il possesso del timone. Ad essi allora, se tutto soccorre, il culto della guerra serve di ottima arma per santificare il proprio agire, e di sicuro verbo contro il quale non si possa levare parola cui non segua immediatamente una bastonata. I gregari più disperati e più illusi si accodano a questi condottieri, i pavidi loro si inchinano, i furbi se ne servono e la corrente sbocca al potere. Il fascismo è il primo figlio del culto del reduce.





    Altri invece, più incerti, irresoluti, incapaci, non osano uscire dall'orbita delle norme consuete, rifuggono dalla violenza, e se i discorsi non bastano loro per arrivare alla meta, si accontentano della dolcezza dei ricordi e sdegnosamente si ritirano in attesa di momenti migliori. Ecco il figlio minore, il combattentismo puro, ossia il fascismo annacquato.

    I combattentisti sono convinti che le sole sacre memorie, senza il bastone, senza i partiti, grazie alla loro notoria purezza e buona volontà, siano sufficienti a rinnovare il mondo. D'altra parte pensano che migliore di un alto, improvviso e rischioso posto, sempre malsicuro, sia un piazzamento più modesto, più lento, e più sicuro. Meglio servi di Cesare, che padroni con Pompeo.

    L'amore della legalità, del consenso e dell'ordine non servono però menomamente a distinguere i due gruppi dello stesso movimento. Entrambi avendo come base sentimentale e teorica il rispetto assoluto di un passato idealizzato e sublimato, e di alcuni concetti di patria e di nazione usati per diritto e per traverso, non tollerano critica alcuna ai loro pensamenti, né rilievo spregiudicato contro i loro uomini, degni tutti del più assoluto rispetto. Essi sono entrambi ugualmente, in quanto hanno di proprio e di originale, al limite, faziosi, partigiani e intolleranti; la nazione e l'antinazione nascono meccanicamente dallo sviluppo logico delle loro comuni premesse. Essi hanno in comune la intransigenza, non di un ideale politico, ma di una supina venerazione.

    Se nella pratica i combattenti dell'Associazione Nazionale auspicano la pace, l'ordine e la legalità, ciò dipende semplicemente dal fatto già osservato, che il loro movimento è intimamente debole, incerto e timoroso; impari ai proprii presupposti essi giustificano il senso di superiorità sprezzante, con cui i fascisti veri guardano i fascisti senza manganello.

    E' appunto per questa differenza fondamentale, che i primi si sono imposti e sono saliti al potere, i secondi si sono ridotti a semplici pedine nel gioco dei partiti, a comparse figurative sulla scena politica.





    Rispondono i furbi della opposizione, che appunto come pedine nel loro gioco i combattenti sono utili all'opera legalitaria e antifascista.

    E con questo bel ragionamento rigonfiano l'autorità politica dei combattenti, strombazzano i diritti dei combattenti, proclamano la loro venerazione per i combattenti; cosicché di un movimento, che con l'avvento del fascismo aveva suggellata la propria disfatta, stanno rifacendo il salvatore d'Italia, e dei suoi piccoli duci le promesse del domani.

    Dunque ciò che era prerogativa dei fascisti, è diventato norma comune di tutti i partiti in lotta, i quali non solo cercano di allearsi il combattentismo, ma si ispirano ai suoi sacri principii; alle sagre dei fasci risponde a sinistra una sagra, e i congressi e le riviste e le adunate e persino i concerti delle bande servono, fra evviva e sbandieramenti, a mantenere il culto degli eroi e quel giusto livello di sentimento patrio, senza del quale non vi può essere salvezza.

    Questo chiamano i furbi, servirsi d'altrui come di pedina nel proprio gioco; ma forse vi è un poco di esagerazione.

    Che sia proprio questo inseguirsi di gare per la maggior valorizzazione della vittoria, a favorire la eliminazione del fascismo, dubito fierissimamente. Poiché tutto è questione di tono, troveranno sempre combattenti e fascisti il modo di mettersi d'accordo, ossia i primi di ritornare sulla scia dei secondi.

    Se ciò tuttavia accadesse, sorgerebbe immediato ed urgente il problema della liquidazione dei combattenti, dopo la liquidazione dei fascisti. Liquidazione pressoché impossibile, se si continua su questo tono, perché sarà sempre troppo comodo ai governi ed ai partiti dominanti difendere i proprii interessi, le proprie mene e le proprie combinazioni con lo scudo del rispetto ai militi noti ed ignoti ed alla loro memoria, che l'Associazione terrà sempre alto, per non dimenticare, e specialmente per non inaridire le sole sue fonti di potere.





    Illusione dunque o malafede, credere che, finito il servizio, terminata la parentesi fascista, la mentalità bellica possa essere placata, e gli uomini che la rappresentano messi da parte. Nulla si fa finora in questo senso, ed un simile sconvolgimento della mentalità politica italiana non può effettuarsi per subitaneo prodigio.

    Forse soltanto le classi che, pur avendo dato il loro contributo di sangue alla guerra, non ne hanno tratta alcuna ragione di comune entusiasmo o soddisfazione, ma solo la ricordano come una dura e dolorosa prova non voluta, possono nella vita politica attuale compiere una azione non inquinata dalla retorica dominante. E' inutile sperare che essa sfumi dalle menti piccole borghesi, che ritrovano in essa la loro vita.

    Coloro che sperano in uno sviluppo diverso, possono meditare, a loro edificazione, sul profondo valore del principio, anche recentemente riaffermato in perfetta buona fede, che i giovani delle nuove generazioni non dovrebbero criticare, neppure in sede politica, coloro che hanno fatto la guerra.

    Con questo canone davvero solenne e fondamentale, riprenderà il libero e spregiudicato dibattito politico quando l'ultimo nipote dell'ultimo reduce esalerà l'ultimo respiro, salvi i diritti che saranno per nascere dalle guerre future.

    Di fronte a simili abberrazioni, il senso morale si rivolta. Ammessa la guerra come necessità intima dello spirito e della realtà, essa deve pur sempre essere sentita come dovere necessario e doloroso, come una sanzione della serietà della vita; quindi, chi l'ha voluta, accettata e combattuta risponde della sua necessità, dei suoi frutti e dei suoi flagelli alle generazioni nuove, o, come si dice, alla storia.

    Farsene merito, è intima debolezza; servirsene a scudo e pretendere a cagion di essa il rispetto, significa essere inferiori alla sua unica giustificazione.

    Così suggerisce il più semplice senso morale, e questa esigenza invincibile sta alla base di ogni critica del combattentismo.

MANLIO BROSIO