IL PADRE DI TAGORE

    Qualche tempo fa, il mio libraio con molta e lodevole premura mi mandò a casa un pacco di "novità": e io mi accinsi con altrettanta premura a scegliere quel paio di libri che mi permettesse di rimandargli tutti gli altri senza compromettere le mie buone relazioni con lui e nemmeno le sorti delle mie positive finanze. La cosa parve subito abbastanza facile: la serie si apriva con due volumi di Autobiografia di Tagore: edizione Carabba, legatura in tela paonazza. Ora io ho con Tagore, da buon lettore delle Upanishads e dei Sutrani, un fatto personale, per cui non compero mai i suoi libri, e quei pochi che ne posseggo me li son fatti coscienziosamente regalare. Si tratta di un fatto personale non meno rispettabile di quelli in uso nei parlamenti.

    Ma prima di mettere quei due libricciuoli paonazzi dalla parte dei reprobi, girai l'occhio dal dorso al frontispizio: e scopersi che non si trattava del mai abbastanza squalificato Rabindranath Tagore, ma dell'autentica "vita scritta da esso", di Devendranath Tagore; cioè di suo padre. Dovete sapere che Devendranath significa precisamente "Germe di Indra - lo - splendente", e Rabindranath invece "Germe di Indra - il -turbine": al che si aggiunge che l'autobiografia di Tagore padre appare data alle stampe in veste inglese da un Tagore figlio: Tatyendranath Tagore: "germe di Indra - la - verità". La dinastia dei Tagore afferma così la sua mercantesca mentalità bengali sotto gli auspici del tonante e guerriero iddio che uccise il drago e liberò da prigionia le rosse vacche del cielo. Ma è certo che la verità e lo splendore si raccomandano un po' meglio del turbine; e così mi son letta l'autobiografia del "germe" capostipite, del vecchio grihyastha, "capo di casa".

    Il risultato della lettura si potrebbe intitolare così: Ricerca di Tagore figlio nelle viscere di suo padre; ovvero: Seguito di rivelazioni straordinarie intorno a un Bengali di settanta anni fa





Il Brâhma Samaj e le due Indie

    Devendranath Tagore, veramente, è noto nelle storie e nelle enciclopedie anche senza la pezza d'appoggio delle sue memorie, e anche fuor della sua funzione di genitore: è noto come una delle colonne su cui s'imperniò la storia del Brâma-Samaj (Associazione Brahmanica), dopo la morte del suo fondatore, il Rajâ Rammohan Roy, che gli aveva dato esistenza nel 1828. Le stesse storie e le stesse enciclopedie ci hanno sempre designato Devendranath come una persona rispettabile: il quale, dopo avere in gioventù riscoperto le fonti della tradizione religiosa indiana attraverso le crepe di un'educazione moderna ed europeizzante, fondò dapprima un samaj teologico per suo conto e poi si alleò con il Roy nella difesa della religione vedantica contro gli assalti dei missionari cristiani. Scrisse manuali teistici, diresse riviste brahmaniche, non fece mai troppo buon viso ai suoi compagni cristianeggianti, e venne chiamato dai confratelli il maharshi: "grande Veggente".

    Ma in pratica, se tastiamo un po' sotto alla superficie di questa movimento neo-brahmanico, le cose cominciano ad apparire meno venerande. Dalla difesa degli antichi Veda si passò presto a voler mettere in piedi una nuova Chiesa sincretista: gli scopi si presentarono riassunti "nel preservare la purezza e l'universalità della religione", i precetti si definirono nel senso della fratellanza universale, e si giunse a dire (nel'68) che "motti e massime intonati a questi principi stessi si raccoglieranno dalle Scritture Religiose di ogni nazione". Devendranath, è vero, non approvò mai una così esplicita rinunzia all'intransigenza induistica tradizionale: ma Keshab Acarya, che osò la rinunzia, non fece se non trarre le conseguenze logiche della posizione assunta dal Maestro. Le conseguenze portavano, senza rimedio, a metter contro all'India vera, all'India classica una nuova India modernistica, impregnata di occidentalismo, stretta parente della teosofia blavatzkyana assai più che dei brahmani autentici.





Storia di un'eredità

    Nessuno meglio di Devendranath poteva essere atto a porre ingenuamente le basi di un equivoco così profondo: nessuno meglio del giovane e ricco bengali, di sangue non puro e di origini commerciali, occupato a studiare con egual buon volere il sanscrito e la filosofia europea. La prima volta che D. scopre Dio, ragiona docilmente come un Candide orientale: "Per noi il sole e la luna si levano e tramontano a regolari intervalli, per noi il vento e la pioggia sono in moto soltanto in certe stagioni, e tutte queste cose sono così combinate al solo scopo di preservare la nostra vita". Ergo "l'universo é retto dal sommo potere di un essere intelligente". Più semplice di così! Finalmente gli capita fra le mani, in una faticosa giornata di lavoro bancario, una pagina tutta sgualcita, in sanscrito: cerca un dotto che gliela spieghi (neanche a farlo apposta è un allievo di Rammohan Roy), e apprende. Içâvâsyam idam sarvam: "in Dio s'immerga questo universo"; tena tyaktena bhunjftha: "rallegrati di quanto ti ha dato". Si tratta di una Upanishad, la Iça; non delle più profonde né delle più antiche: ma tanto bastò per radunare gli amici, e occuparsi dell'Assoluto. Ma "la prima cosa che considerammo urgente fu l'aumentare il numero degli associati". Perfetta manifestazione di praticità bengalese.

    Ad ogni modo, la mente di Devendranath è tutta piena di nuovi e nobili pensieri: e il convertito lascia la banca paterna per dedicarsi contemporaneamente a ritoccare degli inni medioevali secondo le nuove idee del Samaj, e raccogliere una sottoscrizione per fondare una scuola libera. "Aspettavamo col libro della sottoscrizione fra le mani per vedere cosa avrebbe scritto ognuno, quando Ashutsh Deb e Pramathanath Deb presero il libro e firmarono per diecimila rupie". Non mancano dunque nemmeno le collette di beneficenza.





    Nel 1846 il padre muore. "Metà delle azioni della ditta Carr, Tagore e C. era di mio padre e l'altra metà di alcuni inglesi". Naturalmente, il fratello commercialmente più assennato dei tre eredi che non era Devendranath, ma Girindranath, pensa a metter fuori gli inglesi, riducendoli alla condizione di stipendiati. Ma il discorso con cui Devendranath cerca di confutarlo, è un vero capolavoro: "La tua idea non mi sembra assennata. L'energia e la costanza che ora gli inglesi mettono nel lavoro, sapendo di essere associati, non sarà più la stessa quando noi prenderemo tutto, ed il loro interesse diminuirà. Noi non saremo mai capaci di badare da soli ad un così ampio giro di affari: essi ci sono assolutamente necessari per sbrigare tutto il lavoro. Lasciando correre così le cose essi avranno diritto ad una parte degli utili, ma in caso di perdita divideranno con noi il danno. Se da azionisti diventeranno impiegati, noi dovremo assegnar loro grandi paghe, ed essi non cureranno più con lo stesso interesse il benessere della ditta". Per un aspirante alla scienza di Brâhma, quella altissima scienza a cui sono inferiori anche i quattro Veda e i cinque Upânga, io trovo che non c'è male: principio della compartecipazione agli utili, principio della cointeressenza al capitale. Mancano solo i consigli di fabbrica.

Le passeggiate sulle colline

    Dopo un saggio di questo genere, si capisce che gli affari rimasero in mano a Girindranath; e il nostro mistico ne fu "contentissimo"; come poi fu contento quando gli affari andarono male perché sperava di liberarsi dalla ricchezza, e contentone di nuovo quando ricominciarono a camminare, sempre per merito del fratello. Devendranath si preoccupava soltanto delle sorti della propria onestà; delle sue finanze la cura principale spettava, evidentemente, ai molti brahmâni che gli stavano in casa a spiegargli le Upanishads. Quando il fratello morì, la tutela degli affari passò a uno zio.





    In realtà Devendranath aspirava non tanto a liberarsi della ricchezza, quanto a schivare le noie pratiche che potessero condizionare il libero usufrutto per i suoi scopi religiosi, come erano il pubblicare riviste teologiche, l'organizzare associazioni, promuovere cerimonie sacre di complicati rituali che gl'interessava conoscere, e il viaggiare in mistica disposizione di spirito. Sopratutto il viaggiare: Devendranath nell'Autobiografia ci si presenta come un grande viaggiatore; e ora va in cerca di prove della sua superiorità di spirito fra i colpi di vento che battono il litorale bengalese, ora risale il Gange fino a Benares su una bella barca da diporto col necessario accompagnamento di un'altra barca carica di provviste, ora va in Birmania e ora a Jagganath. Di tutto egli riferisce, con la metodica esattezza degli anglosassoni estensori di giornali di viaggio: delle liti coi barcaiuoli e gli albergatori come dei grandiosi spettacoli della natura, che gli paiono brahmanicamente adattissimi per celebrare l'Assoluto.

    Finalmente, come tutti i ricchi indiani che si rispettano, se ne va sulle colline di Simla a cercare il fresco. Era il 1857, e l'India fremeva tutta di ribellione. Ma Devendranath pensa unicamente a contemplar spaziosi paesaggi che gli agevolino i suoi spaziosi pensieri: noleggia un jhampan, una specie di lettiga, per farsi portare su per le colline. "Pregustai la gioia che avrei provato il giorno appresso salendo su quei pendii e lasciando la terra bassa. Mi sembrava che avrei posato il piede sul primo gradino del cielo. In quei pensieri deliziosi passai la notte, e riposando felice mi ristorai del viaggio faticoso".

    Impressioni delle gite sulle colline. Proteste contro il caldo insopportabile. Si contempla una bella cascata. (Ritorno a Simla). "La domenica seguente vi tornai con degli amici per fare una colazione all'aperto. Andai sotto l'arco della cascata, e l'acqua mi cadeva sul capo da una altezza di trecento cubiti. Vi restai per cinque minuti, e quando ne uscii gli spruzzi gelati mi avevano bagnato completamente. Mi piacque quel giuoco e lo ripetei; così presi addirittura un bagno.





    Così dunque, sri Maharshi, intendevate voi il bagno nelle acque di Brâhma? Meglio era restare a occuparsi delle vostre faccende bancarie, e "sottoscrivere" qualche lakh di rupie per la causa di Nana Sahib o, se meglio vi fosse piaciuto, mettervi al servigio degli inglesi assicurandovi una buona partecipazione degli utili. Il lettore del vostro libro comincia ad essere confermato nel sospetto di essere innanzi non già ad un veggente, ma ad una sottospecie del ben noto tipo di giovine lord che ripartisce il suo tempo fra la protezione dei popoli oppressi, il Derby, la coppa Gordon, e l'ultimo ritrovato dei Christian Scientists.

Miracoli della Provvidenza

    La pace delle colline minaccia di turbarsi: si annunciano gli ammutinamenti dei sipays e i massacri di Dehli: un reggimento ribelle di Gurkhas marcia su Simla per saccheggiarla. I funzionari inglesi; affrontano la situazione: "fu lord Hay, il freddo e abile commissario, che salvò Simla. Quando le detonazioni annunciarono l'avvicinarsi dei Gurkha, egli, sprezzando la propria vita, si avanzò col cappello in mano, e si inchinò innanzi a quella colonna di uomini che marciava senza un comandante, simile ad un'onda di elefanti selvaggi. Con frasi serene e rassicuranti li calmò, e pieno di fiducia affidò loro il tesoro e gli altri uffici".

    Devendranath non sente altrettanta fiducia, e pensa a mettersi in salvo. Noleggia venti facchini, e con grave dolore è costretto ad aprire il forziere, lasciando loro vedere i suoi tesori, per dare un acconto. "Dopo una giornata intera di cammino i portatori mi deposero, la sera, presso una cascata. E mentre bevevano di quell'acqua, cominciarono a parlare e a ridere fra loro. Non riuscendo a capire una sillaba del loro discorso, pensai che complottassero per uccidermi e rubarmi il denaro". Pare la storia del francese ospitato dai carbonai della Sila, che di notte li sente complottare e affilar le coltella e venirgli in camera, e lui raggriccia tutto, ma poi scovre che si tratta di staccare i salami dal soffitto e di ammazzar due capponi per fargli onore. E infatti anche a Devendranath capita, la mattina dopo, che gli cadano delle monete di tasca. I facchini gliele riportano premurosamente, e questa onestà lo racconsola.





    Andatisene via i Gurkas da Simla, il buon bengalese ci fa una capatina solo per organizzare una lunga gita in alta montagna, il più lontano possibile dalla rivoluzione. Qui ha principio una serie di miracoli della Provvidenza a beneficio del suo devoto servo. Esempio di miracolo: si tratta di passare un ponte mezzo rovinato; i portatori propongono di scender loro col jhampan a valle, e che Devendranath passi alla svelta da sé, sulle travi rimaste intatte; un bel rischio. Ma "con l'aiuto di Dio uscii sano e salvo da quel punto terribile. Con l'aiuto di Dio "lo zoppo valica le montagne", ed io, con la smania che avevo di viaggiare, non zoppicavo di certo!". E tutta la storia del viaggio è piena di questi miracoli.

    Il miracolo maggiore accade tuttavia al ritorno, che Devendranath deve ritardare di qualche poco sul termine previsto. Trova il maggiordomo che gli confessa di essersene andato anche lui da Simla, affidando la casa ad un servo, che l'aveva a sua volta piantato: e di esser tornato da soli tre giorni. Il padrone è preso da un terrore retrospettivo: arrivare a casa e non trovare il comfort necessario, sarebbe stato davvero un guaio grosso. "Rabbrividii pensando che se fossi arrivato tre giorni prima mi sarei trovato in un serio imbarazzo. E ancora una volta il mio cuore traboccò di gratitudine pensando da quante peripezie e da quante noie Iddio mi aveva salvato in quei venti giorni di alpinismo! Quali sublimi lezioni di pazienza e di fortezza, di pietà e di modestia Egli aveva impartite alla mia mente, e quanto aveva purificata ed elevata la mia anima con la sua deliziosa compagnia spirituale! Pensando a lui con reverenza entrai in casa e cantai le sue laudi". Veramente il Signore delle creature poteva essere soddisfatto di questo suo fedele, così pronto a scorgere la mano dell'Invisibile nelle piccole vicende del suo benessere personale.





Incontri e scontri coi Veda

    Si domanderà perché, fra tanto sfoggio di malevola ironia, non ci occupiamo di discutere le molte pagine dell'autobiografia in cui Devendranath cerca di esporre le sue concezioni religiose. Ma ormai non ci sarà bisogno di ulteriori sussidi documentari per asserire che la comprensione delle credenze antiche da parte del nostro mistico è molto limitata e superficiale. Quando egli attende ai sacri riti, non ne sfiora già il riposto valore magico e teosofico, ma solo compare attratto dalla magnificenza degli apparati e dal profumo di pietà che spira dintorno. Quando s'immischia di controversie teologiche, tutti i suoi sforzi sono intesi a trovare una qualche formula "centrista", di cui ciascuna setta brahmanica possa appagarsi: la qual formula non dice poi niente, e tuttavia rappresenta la totalità di quel che Devendranath è riuscito a capire. I Veda, gli Aranyaka, le Upanishad rimangono testo chiuso per lui: la loro lettura non gli permette di rilevare che le sentenze più vulgate e meno significative per l'induismo. Non pare che la stessa Gitâ trovi sorte migliore.

    E certo Yajfiavalkya avrebbe sorriso con dispregio forte di questa professione di fede: "Non esisteva nel principio che lo Spirito Altissimo: null'altro esisteva. Egli creò tutto ciò che è. Egli è infinito in sapienza e bontà: Egli è eterno... Il nostro benessere presente e futuro consiste solo nell'adorarlo, e amaro; amarlo e fare la Sua volontà vuol dire adorarlo". Buona per i giudei e buona per i cristiani; buona per i mussulmani e buona per gli indiani; il sadha Sundár King, transfuga al cristianesimo, non scrive diversamente. In questo modo Devendranath Tagore credeva di poter guerreggiare contro i propagandisti delle Church Missions e della Bible Society.





    Gli incontri col vedismo e col vedantismo sono dunque tenui e lievi; gli scontri gravissimi e pericolosi a morte. Quello che sarebbe comportabile misticismo in sede di cultura occidentale o islamitica, diventa ridicolo sotto l'etichetta di un preteso rinascimento del brahmanesimo. Il solo fatto che Devendranath e i suoi volevano "liberare" la religione brahmanica dalla sua veste "materiale", riconducendola alle "sorgenti", come un qualunque evangelico vuole riformare il cattolicismo, - dimostra che essi non capivano affatto la sostanziale importanza di quella pretesa "materialità", né avevano idea alcuna delle sorgenti da riscoprire. Ancora: Devendranath si proclama teista e protesta contro la interpretazione monistica del vedantismo codificata nelle grandi opere di Gancara: ma almeno egli sostenesse davvero le tesi dell'opposta scuola teistica, che non sembra aver seriamente conosciuto neppure in modo elementare! Dopo tutto, meglio l'induismo popolare che la pseudo religione di Devendranath.

Caratteristica dell'anglo-indiano

    Non dobbiamo del resto essere troppo stupefatti di questi lacrimevoli risultati della nostra scorribanda: un giudizio spregiudicato su Tagore figlio rendeva già estremamente probabile il ritrovamento delle sue origini in Tagore padre. Ora non sarà più difficile darsi ragione del superficialissimo aspetto speculativo di Sadhanâ, o del misticismo di contrabbando che l'ineffabile Rabindranath ci ha regalato nella lunga collana dei suoi libri di ben discutibile poesia. Quando verrà un Croce che faccia giustizia di questo Pascoli internazionale?





    Rimane il problema della fortuna pratica di questi mediocri sincretisti. Ma bisogna tener presente che si tratta di bengalesi. Un Bengali è di fronte all'India quello che sono (ma con maggiori numeri a loro vantaggio) i Giapponesi di fronte alla Cina e i turchi di fronte all'Islam è un nuovo arrivato di sangue misto. Non preoccupatevi che la sua gente sia arrivata, a quest'ora, da dodici a quindici secoli: i secoli in Oriente non contano, e il Bengâli resta sempre un barbaro incivilito, di spirito militare o commerciale. Finché è plebe, si limita ad assimilare le superstizioni e il fanatismo; quando è guerriero o mercante, fa volentieri l'indifferente e si rinvernicia di "civilisation", che una volta era indostana e poi fu mongola e birmana e ora è inglese; quando fa il principe, da buon figlio di mercante, o il poeta, da buon figlio di principe, allora impianta un discreto giuoco di superfici mentali. Non per niente gli inglesi si fecero strada nell'Indostan partendo dal basso Bengala; il Bengala fornì loro la prima amalgama anglo-indiana. Né i Portoghesi a Goa, né i Francesi sulla costa orientale poterono mai creare una simile amalgama che veramente è da un pezzo la più solida base del potere inglese nell'India.

    E in fatto di cultura e di religione l'amalgama ha la stessa importanza. Il processo di avvicinamento fra mentalità inglese e cose indiane tentato da Kipling nei suoi libri migliori, e il processo di occidentalizzazione del pensiero induistico tentato più o meno consciamente dai Tagore rappresentano due linee di chiara convergenza: come la linea di Swami Vivekananda e Ramaciaraka di fronte alla linea Blavatzk-Besant. Il guaio si è che noi finiamo per conoscere l'India contemporanea attraverso siffatti informatori, come di essi ci fidiamo spesso anche per un'idea sommaria dell'India antica. E se in fatto di cose antiche c'è la pietra di paragone degli studi nostri, in fatto di cose contemporanee il velame di queste zone grigie non si alza né si squarcia molto facilmente. Una sana diffidenza non sarà quindi fuori di posto.

SANTINO CARAMELLA