INVENTARIO DI CULTURA

III.

In curva

    L'aspetto comune degli avvenimenti, che ho cercato di tratteggiare nel precedente studio è che da punti di partenza diversi, per vie diverse, con intenzioni diverse, e col proposito di fare il contrario, tutti contribuirono, nei primi quindici anni del secolo, a una visione frammentaria della vita. Furono tanti Curiazi, che si trovarono, nell'ora tragica, sparpagliati di fronte al nemico comune, che era una grande crisi storica sopravvanzante. È stato un fenomeno generale, perché la crisi era generale; in Italia lo sbandamento si è visto in forme più spettacolose, perché le condizioni della nostra cultura erano diventate più precarie, per le circostanze che ho accennate.

    Si apre quindi colla fine del 1914 e non è ancora chiuso un periodo caotico di transizione molto difficile a cogliere nella sua fisionomia, perché oltremodo fluido. Esso però porta, più o meno visibili, le impronte del mancato equilibrio, che il Croce cercò invano d'imporre nel periodo precedente. Il Croce si trova anche in questo in una posizione preminente, e talvolta finisce per soggiogare il pubblico: ma i rapporti tra lui e la letteratura in voga (letteratura nel senso ampio, culturale) sono quelli che seguono le disillusioni dei matrimoni male assortiti. È la fase della cosidetta incompatibilità di carattere.





    Questo spostamento di rapporti, che costituisce il primo tratto saliente del nuovo periodo, si determinò fin dal principio, appena dai circoli politici si riversarono nel gran pubblico le preoccupazioni e i dissensi intorno alle sorti che si apparecchiavano all'Italia, se avesse partecipato alla guerra. Si vide allora e poi durante la guerra un fenomeno, che parve strano ad osservatori superficiali, ma che era la riprova dell'equivoco, su cui poggiavano già da prima i rapporti tra il Croce ed il pubblico italiano. Alla vigilia della guerra il Croce, salvo alcune inconciliabili, ma sorde resistenze nel mondo accademico, non aveva avversari apprezzabili. Tutti erano crociani - compresi i primi dissidenti, che partivano dalle premesse dell'Estetica, compresi i futuristi, che gli facevano le boccacce e non si accorgevano di mendicare a mal dedotti corollari della teoria dell'arte come lirica il magro sostentamento per il loro pietoso esibizionismo. Tutti crociani, dunque, e nessuno crociano. Tanto vero che quando l'irrompere della guerra - come avviene nei cataclismi del mondo fisico - mise a nudo il vero essere di ciascheduno, e il Croce sentí sùbito il dovere di cittadino e il bisogno di pensatore di prendere il suo posto e di chiarire la sua condotta, si vide in poco spazio di tempo abbandonato quasi per intero dagli innumerevoli crociani della vigilia.





    Questo è un punto delicato pel ricordo dei molti motivi passionali che si mescolarono - com'era fatale - agli avvenimenti dell'anno 1914-15. Probabilmente l'isolamento, nel quale si trovò allora e durante la guerra il Croce, fu acuito proprio da un motivo di ordine psicologico. Il Croce non è privo - come pure si è detto - di corde sentimentali, ma aborre per istinto dai moti della passione. Questo certamente accrebbe l'incomprensione iniziale. Ma il nocciolo di quella incomprensione era altro e più profondo. Mettendo da parte, come qui è necessario, la materia specifica dei dibattiti politici del tempo, e cercando di risalire al conflitto di mentalità, che può illuminarci intorno al sottinteso spirituale della crisi politica, che non può dirsi ancora chiusa, è chiaro che il Croce non poteva accogliere in una visione armonica della vita una guerra, che, sfrondata da slanci passionale dei quali non sentiva l'eco, si presentava, specialmente per l'Italia, come una di quelle fratture irreparabili della storia, la quale scrollava una tradizione europea, di cui appena da qualche decennio il nostro paese aveva potuto raccogliere anch'esso alcuni frutti. Ciascuna delle grandi potenze, che erano già in conflitto, in modo diretto o indiretto, intenzionalmente o no, aveva mosso qualche forza, che aveva determinato il funesto evento; ma la politica italiana, specialmente nel nuovo secolo, aveva agito sotto una continua preoccupazione che un avvenimento fatale si verificasse e nella continua ricerca di stabilire un equilibrio di forze. Non era allora da sperare che ad essa fosse dato di mantenere una simile posizione, da principio imbarazzante e spinosa, non priva per altro di vigore morale nella sua indipendenza; ma che le avrebbe permesso in un migliore domani di trovarsi forse alla testa di un nuovo equilibrio europeo?

    Quale che fosse il valore politico contingente di questi pensieri, è facile intendere come essi fossero perfettamente coerenti con la mentalità del Croce integrale, che ho cercato di tratteggiare nel precedente studio. Anche l'immagine di un'Italia raccolta in sé stessa - riflessiva, non abbandonata a corpo perduto nei marosi delle passioni politiche fuggevoli e non preoccupata della solitudine - quale il Croce doveva certo accarezzare con commossa fantasia, anche se non teneva conto, per eccesso di affetto, di alcuni elementi ancora deficienti nel carattere civico dei compatriotti, rispondeva senza dubbio al temperamento ed all'educazione di colui, che accarezzava quell'immagine.

    Ma proprio per questo era naturale che i crociani a metà, da quelli della Voce a quelli dell'Acerba fossero nella impossibilità mentale di cogliere nel pensiero politico del Croce il senso della continuità nella vita, della tradizione nella storia, infine quella profonda sostanza conservatrice, che non avevano colto nel Croce filosofo e letterato. Tutti quei frettolosi seguaci dell'intuizionismo semi-crociano trovarono invece durante la guerra uno sbocco naturale e una compiacente giustificazione in un'altra forma teorica, che per la facile formulazione e per la sua stessa schematica rigidità toglieva l'assillo del continuo controllo mentale, che è la valvola di sicurezza dell'idealismo critico, che caldeggiava il Croce fin dal 1903 (si ricordi ancora il programma cit. della Critica).





    Fin dal 1917-18, dunque, si poteva dire che la "filosofia di moda" era l'idealismo attuale o attualismo di Giovanni Gentile. In Rubé del Borgese - che è indiscutibilmente uno dei libri più significativi dell'immediato dopo guerra - un personaggio, lo scienziato "fine secolo XIX", deluso dalla triste e sconvolgente realtà della guerra che ha sovvertito i più sottili dati speculativi, finisce per dire: "Io credo che bisogna avere un grande rispetto per le cose che accadono. È quella che si chiama la volontà di Dio. La guerra è stata un'immensa cosa, gigantesca, e bisogna guardarla con riverenza, con ossequio".

    Il Borgese ha messo sulla bocca di questo suo personaggio, in termini precisi, l'espressione di un sentimento che con giusta intuizione aveva colto nell'aria, in forme diverse, indistinte e confuse. Lo scienziato del romanzo il quale dalle sue delusioni è riuscito a salvare la modestia dell'uomo di studio, conclude con onesta semplicità: "Ora bisogna pensare a vivere quanto più umanamente è possibile e a non dimenticare quello che abbiamo vissuto".

    Padre Mariani - l'altro personaggio del romanzo - concludeva che bisognava cercare di accostarsi con più riverenza di prima alla volontà di Dio. E l'una e l'altra conclusione si trovavano sulle vie maestre del pensiero umano nell'era cristiana; ma nessuna delle due poteva avere una piena risonanza nel cuore avvelenato di una generazione, che si trovava a faccia a faccia con una fine mediocre, insoddisfacente, di una guerra apertasi nel colmo di una crisi morale. Era inevitabile che lo stesso orgoglio che aveva gonfiato e sviato gli uomini durante la guerra, trovandosi non soddisfatto, si ribellasse a piegarsi davanti alle prime prove degli errori commessi, e proseguisse invece rapidamente per tutta la catena degli errori, passando dal "rispetto per le cose che accadono" al "culto del fatto compiuto", unica giustificazione di anime vaganti, che hanno estirpato ogni radice che s'immerga profondamente nel terreno della fede o della tradizione o della scienza.





    Una generazione che non era riuscita a coordinare le proprie idee - anche prima che la bufera gliele sparpagliasse ai quattro venti -; una generazione, che aveva preso il cinematografo come propria norma mentale per la visione della vita, era naturale che si gettasse con fervore su di una filosofia, che, almeno ai suoi occhi, accarezzava i suoi gusti e copriva le sue deficienze. La fine del secolo XIX aveva idoleggiato il superuomo, l'era contemporanea idoleggia il superatto, essendo incapace di riconoscere e fissare nella mente anche l'unità uomo. E siccome ogni epoca, come ogni paese e ogni individuo ha il sovrano e il filosofo che si merita, quest'epoca, e questo paese hanno avuto il filosofo dell'atto puro. Il panlogismo gentiliano, nella sua elastica astrattezza e nella facilità di meccanizzazione dialettica presta i suoi trampolini a tutte le spiegazioni ed a tutte le giustificazioni, anche meglio del latinorum di Don Abbondio. Nel gioco dialettico ricco di sottintesi capziosi tra la logica astratta e la logica della realtà e con tutte le scappatoie di uno stile da iniziati - che dà una tal quale idea di massoneria filosofica - si presenta come una delle tante forme della sofistica, una forma affine, pei suoi effetti pratici al probabilismo dei gesiti.

    Nella vita culturale contemporanea spettava dunque al Gentile di portare alle ultime conseguenze e ridurre in formule astratte precise e sistematiche la deviazione di pensiero, che ebbe origine dalla prima Estetica del Croce e giunse alla Voce ed al Marinetti. Il Gentile è in certo modo il teologo del futurismo.





***

    In questo momento la filosofia del prof. Giovanni Gentile è impartita in pillole indigeste nelle scuole medie, come una trentina d'anni fa la filosofia di Ardigò attraverso i compendi del prof. Giovanni Marchesini: segno evidente che anche quella percorre la sua parabola verso il luogo comune. Ma le condizioni generali della cultura, per le ragioni sopra esposte, sono tali, che non permettono che si determini a breve scadenza un nuovo e netto indirizzo di pensiero. Anche questo fenomeno non è solamente italiano: in Italia è più evidente, e dà più viva quella perplessità di chi si trova nel mezzo di una curva, e già ha perduto di vista il punto di partenza e non vede ancora quale potrebb'essere il punto di arrivo.

    Se si cerca di dare un'occhiata complessiva al panorama necessariamente confuso di una vita culturale ancora informe si vede da una parte la cultura ufficiale, accademica in condizioni ancora più basse di prima, più di prima distaccata dal pubblico e dalla vita, e da un altro lato alcune isole culturali, che si vanno formando laboriosamente e che reagiscono in maniera diversissima l'una dall'altra, è quasi sempre ignorandosi. Ciò indica abbastanza quanta via ci sia ancora da fare perché si possa parlare di un movimento di vera e propria ricostruzione della nostra cultura. Ma è già un sintomo importante quando il malato sente di essere malato e desidera affannosamente di guarire.





    Per rintracciare i primi segni di questo senso di malessere, che era il sentore di una crisi avanzante, bisogna rifarsi un po' indietro ed a documenti non di pensiero, ma di poesia. Il sentimento vago e indistinto di qualche cosa che manca nella propria vita è in Pascoli. Quello stesso insistere sulla inobliata tragedia familiare e sulla deserta giovinezza, è, se si guarda tutta intera la vita di Pascoli, un intimo bisogno di giustificare anche ai propri occhi, con un avvenimento di una consistenza incontestabile, una esistenza caduca, senza un potente nucleo vitale; lo sfogliarsi inerte, al vento della sera, di un fiore tenerissimo. Si aggiunga, per determinare con esattezza l'influenza di Pascoli, che gli ultimi sforzi per un ritorno a Carducci, mediante la poesia storica e civile, produssero cose mediocri, di andatura accademica, che non ebbero risonanza nel pubblico. Quello, per cui batteva il cuore dei giovani "decadenti" italiani era il fanciullino pascoliano, in cui c'è qualche cosa di malato e qualche cosa di viziato.

    Di là discendono in linea retta sia la poesia dei crepuscolari, sia la divagante critica di Renato Serra, come giustamente ha fissato il Borgese. (V. Tempo di edificare - Milano, Treves - "Le mie letture", V.), e sia, aggiungerei io, la prosa lirica di Alfredo Panzini.

    Il tormento interiore di Pascoli suppone il riconoscimento di un ideale di vita compiuta e virile (l'ideale carducciano) non potuta raggiungere; nei crepuscolari tutti insieme si affievolisce fino ad un sospiro o ad un soffio il motivo lirico derivante da quel contrasto; la vita ristagna, rispecchiando le cose su di una superficie tremula allo spirare della brezza. Tutti i motivi lirici si adeguano a quella diminuzione di sé stessi accettata per accidia - in sostanza una forma raffinata di egoismo.





    Qualche mese prima dello scoppio della guerra europea usciva un libro di critica di Renato Serra, intitolato Le lettere: una rapida, talvolta frettolosa rassegna della letteratura giovanile del tempo, fatta con un tono tra sprezzante e infastidito e che si chiudeva con risultati desolanti. La giovanissima letteratura, come il "giovinetto" giustiano, portava in fronte il segno della vecchiezza precoce e della sterilità. Da quella palude emergevano il Gozzano e il Panzini, appunto perché erano riusciti a colorire d'un sorriso poetico la rinunzia, l'abbandono, l'adagiarsi dell'anima in un molle rimpianto. Questa è la parta più veramente negativa dei crepuscolari, che il Serra metteva a nudo senza pietà; ma c'è nei migliori tra essi, quali il Gozzano e il Panzini, c'è un malessere, come un vago senso di "Paradiso perduto", che se non riesce a liberarli dall'incanto di Circe, li ha già disillusi sulla sostanza dell'incantamento, e sulla propria abbiettezza, e li spinge a drizzare lo sguardo umido e desideroso verso forme di vita, che si sentono irrimediabilmente perdute o irraggiungibili. (Ricorda Le due vie del Gozzano). Se essi rimanevano insensibili al male del tempo - come i futuristi, che se ne facevano belli - avrebbero fatto parte per intero della corrente comune; ma il tormento che essi soffrono talvolta pel loro male li salva in parte e dà ad essi un presentimento di avvenire, per quanto confuso e balbettante.

    E lo stesso Serra, che, nel 1914, era giunto all'insofferenza sdegnosa, sprezzante, non era che un crepuscolare della critica, lui, così geloso del suo provincialismo, così diseguale e indocile nel lavoro e lento nella sintesi, e poi non pago né di sé né degli altri, e, sotto apparenze di non curante, assillato dal pensiero di mancare alla propria vita.

    Erano malati, che dovevano essere tenuti con tutti i riguardi. Invece furono presi in mezzo ad una grande crisi politica, che li inghiottì. Ma non prima che dessero gli ultimi soffocati gridi di naufraghi con due scritti, che restano senza dubbio tra i più significativi della nostra guerra: l'Esame di coscienza di un letterato del Serra e il Diario sentimentale del Panzini, testé pubblicato.





    Il Serra sente veramente in quell'ora la miseria del piccolo dramma della propria generazione, che non riesce ad adeguarsi al gran dramma che romba tutt'intorno. Malgrado ogni suo sforzo non riesce a dare un intimo significato all'aggregato d'immagini e d'idee che ribollono; ma l'orgoglio innato e acuito nella diffidente solitudine provinciale gli vieta di riconoscere chiaramente e semplicemente che si era trovato davanti ad un fenomeno enormemente complesso, che richiedeva riflessioni profonde, concentramento spirituale, sintesi e sopratutto ginnastica della volontà; e quindi egli si getta nelle tesi negative, che, nel loro assolutismo, danno l'illusione di chiudere una volta per sempre il dibattito pieno d'incognite, e di mettere in pace - sia pure con una pietra sepolcrale - l'affannoso andirivieni del pensiero. E', in tono minore, l'illusione leopardiana ("or poserai per sempre - stanco mio cor"). Ma che sia un'illusione lo dice anche questa volta la palese contraddizione di questo intellettuale, che dopo essersi accanito a strappare ogni velo, per fissare il lato funesto, turpe della guerra, per togliere ad essa ogni speranza di avvenire, quando suona l'ora della guerra anche per l'Italia, ci si getta dentro a capofitto, con la speranza opposta di placare nel massimo di una cieca attività quell'affanno, quell'incubo dell'incertezza, che credeva di aver seppellito coi suoi dinieghi. Egli termina riconoscendo che le basi della sua vita d'intellettuale, di critico, sono venute meno; ma il suo essere "non è che un fremito", al quale si abbandona senza domandare altro. La sua sola certezza non è ormai che questa: che si vede attorniato da un popolo di combattenti e non si sente più solo. Egli ha paura del vuoto che ha fatto intorno a sé stesso, e cerca una liberazione che è agli antipodi dal suo temperamento, dalle sue opinioni e dal suo abito mentale.





    E per avere una più completa idea della posizione del Serra, specialmente negli ultimi tempi, si noti che la parte critica dell'Esame di coscienza, era critica sopratutto dell'ideale "ferino" del D'Annunzio e dell'ideale "dinamico" del Marinetti, che gli avvenimenti, in quello che avevano di esteriormente fragoroso, parevano rimettere di moda. Contro tutto quell'agitazione gonfiata dalla letteratura il Serra, per impeto di contraddizione, si sente portato a vedere la guerra addirittura come un fenomeno statico:

    La guerra è una vecchia lezione che non cambia nulla assolutamente nel mondo. Neanche la letteratura... D'Annunzio che ha guadagnato in questo momento in realtà con tutto il favore delle circostanze e della fortuna non è poi cresciuto di nulla; non ha fatto niente che sia degno di quell'apparente ingrandimento morale (che è la guerra)...

    ... Del resto la guerra è una perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme ed inutile... Alla fine tutto tornerà press'a poco al suo posto. La guerra avrà liquidato una situazione che già esisteva, ma non ne avrà creata una nuova...

MARIO VINCIGUERRA