INVENTARIO DI CULTURA
I.
L'orologio smontato
Durante questo principio di secolo abbiamo festeggiati molti centenari, che ci riconducevano agli uomini ed alle cose del principio del secolo XIX. Purtroppo quelle festicciuole ci hanno fatto meglio comprendere come si sia allontanato da noi - ancor più che nel tempo - lo spirito di quegli uomini e di quelle cose.
Non da curiosi, ma da uomini di studio, rifacciamoci per un momento a un secolo fa ed entriamo nel Gabinetto Viessieux, istituzione nata da qualche anno appena, e passiamo in rapidissima rassegna fra le pubblicazioni recenti, quelle di maggiore importanza, che hanno avuto la più larga eco nel pubblico, e che hanno formato le più profonde correnti di pensiero nel decennio immediatamente seguito alla restaurazione.
I Sepolcri sono dell'epoca antecedente, ma sono ancor vivi nell'anima del pubblico, che inconsciamente sente trasfondersi il precorrente spirito romantico di Foscolo. Da Foscolo a Manzoni, anche allora, prima che la critica lo assodasse, il passo non era molto lungo. E Manzoni doveva già trionfare nel 1824. Sono del 1815 i primi quattro inni sacri, del 1819 la Morale cattolica, del '20 il Carmagnola, del '21 il Cinque maggio, del '22 l'Adelchi o la Pentecoste; e già tra il '21 e il '22 comincia il segreto travaglio che lo porterà alla più alta prova.
Da Milano, così ricca di vita letteraria e battagliera ed amante di novità, sopravvenivano i fascicoli del Conciliatore, che riaccendevano le dispute scoppiate all'apparire della Lettera di Grisosfomo, fin dal 1816: e da Milano ancora, insieme con i volumi della Biblioteca italiana (che sopravviveva letterariamente all'epoca napoleonica, schiacciata moralmente sotto il sussidio austriaco venivano anche i fascicoli di una pubblicazione periodica alquanto eclettica e confusionaria, ma compilata da un editore nuovo ed intraprendente, Fortunato Stella, lo Spettatore, che per primo lanciava nel gran pubblico un giovane nobile ingegno quasi dissepolto dalla biblioteca di una casa patrizia marchigiana. E insieme con le prime prose dello Spettatore ed altri lavori filologici, tra il 1819 e il 1826 si svolge e matura rapidamente buona parte dell'attività poetica di Leopardi. Nella prima raccolta del 1824, insieme con le tre prime canzoni troviamo, p. es.: la canzone Alla Primavera, l'Ultimo canto di Saffo, l'Inno ai Patriarchi; e sono del 1825-26: L'Infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, La vita solitaria.
E in quello stesso periodo si compiva la formazione spirituale di Tommaseo e Mazzini, di Troya, di Rosmini, di Galluppi e di Colecchi.
Si può dire che il germe di tutta la fioritura intellettuale italiana del secolo sia in questo primo quarto di secolo; gli anni posteriori non aggiunsero, degli altri elementi fondamentali, che il pensiero di Gioberti (che è poi un tentativo di sintesi eclettica) e degli hegeliani napoletani, con, a fianco. De Sanctis.
Chi avesse voluto dare uno sguardo complessivo a quella stupenda fioritura d'ingegni doveva riconoscere con profonda ammirazione l'affermazione di un'Italia nuova. Le stesse nostalgie medioevali importate d'Oltr'Alpe, in quanto motivo poetico, diventavano, nelle loro espressioni più originali, un richiamo alle tradizioni della Patria in ore più gloriose (si ricordi il Medio Evo corrusco d'armi sognato dall'esule berchettiano); o un'aspirazione altamente patetica verso la giustizia divina, sia che esali dal fragile petto di Ermengarda, sia che si sprigioni dal cuore infranto di un Napoleone; o un appello alla dignità dell'individuo e all'eguaglianza umana, eguaglianza non più giacobina, ma cristiana, ma pure eguaglianza, che si riaffermava in un atto di protesta civica.
(Tutti fatti a sembianza d'un solo
figli tutti d'un solo riscatto...)
Anche l'Italia, dunque, in forme sue, cementava il nuovo edificio, quale sorgeva al chiudersi delle guerre napoleoniche.
I potentati vincitori a congresso, sfruttando alcune formule astratte, potevano dare alle parole ordine, pace il significato di quietismo; ma per quelli pei quali aveva avuto una parola lo spirito tragico degli anni turbinosi, che ancora echeggiavano cupamente nell'aria, ordine, pace non potevano significare che una più stretta comunione con Dio; una più fervida invocazione alla Provvidenza, all'amore del prossimo; un più intenso ripiegarsi dell'anima su se stessa, e quindi la ricerca di una nuova coscienza e il bisogno di riaffermarla, oggi nella ribellione evangelica di fra Cristoforo, domani nella ribellione civica di Ugo Bassi.
Ordine, pace...
Non sentiamo, oggi, intorno a noi riecheggiare frequenti le medesime espressioni? Eppure sono raccostamenti del tutto superficiali. Nulla di peggio che fermarsi alla facciata delle parole.
Noi parliamo oggi di ordine e di pace con una lucida coscienza di parlare in una stanza vuota, e quindi con una intima e insuperabile insoddisfazione, che invano alcuni tentano di celare anche a se stessi. Basta un minimo di perspicacia per accorgersi che si è raggiunto un ordine esteriore ed una pace fittizia, e non tanto perché i plenipotenziari di Versailles hanno commesso questo o quell'errore, questa o quella ingiustizia (ciò avvenne egualmente a Vienna e in tanti altri congressi diplomatici), ma perché dentro e fuori di Versailles non aleggiò uno spirito creatore.
L'ordine dei fatti procede dall'ordine delle idee: è malinconico - ed è una riprova delle nostre deficienze culturali - che in tempi di moda idealistica ci sia così frequente necessità di ricordare un principio elementare come questo, che solo ci difende dal dare alla storia un significato puramente casuale, cioè nessun significato. Ora, mentre la fine del secolo XVIII è uno dei più vivaci risvegli di pensiero della storia umana, la fine del secolo XIX è un torbido tramonto di un'età critica. Basta pensare al valore rappresentativo ed alla influenza vasta e dissolvente di Nietzsche nel trentennio che ha preceduto la guerra; ma forse il peggio di tutto non fu tanto la immediata influenza di Nietzsche, quanto lo strano mescolamento che seguì al sovrapporsi dell'alta influenza del pragmatismo. Il pragmatismo, nei paesi anglo-sassoni, dai quali si dipartì, trovava i suoi confini ed il suo equilibrio nella forma analitica del pensiero, nell'istinto realistico, nella tradizione puritana della razza. Nell'Europa continentale vennero a mancare l'uno o l'altro o tutti quei contrappesi; il pragmatismo fu raccolto da una generazione di nietzschiani decadenti, e si verificò un connubio che direi belluino, che portò a un individualismo egoistico sistematico e rettorico insieme, che avvelenò un po' tutti. Il simbolo più caratteristico dell'epoca nella sua forma di follia della vertigine, è il costruttore Sollness. L'Europa tutta, nel fatale agosto del 'l4, fece la fine del costruttore Sollness.
Le giovani generazioni che ancora immature sorpassarono la soglia del nuovo secolo e si trovarono quasi d'un balzo di contro a una delle grandi catastrofi della storia, erano in condizioni d'inferiorità morale ed intellettuale e furono travolte. La loro condizione, già di per sé stessa critica, di nuovi enfants du siècle (di un secolo cioè nato con un cataclisma) ha prodotto un malessere più acuto per lo spaventevole vuoto intellettuale che gli avvenimenti brutali di una guerra oltremodo "meccanicistica", e senza poesia (con molta rettorica, che è l'inverso) hanno operato sui campi del pensiero già mezzo dissodati qualche anno innanzi. Nel bel meglio delle guerre napoleoniche il secolo XIX si apriva con il Genio del Cristianesimo; Barbusse, Guido da Verona e i discorsi di Wilson avrebbero dovuto sollevare i nostri cuori o il nostro intelletto durante l'ultima guerra. Questa è stata la vera crisi di Versailles.
***
A quella crisi generale l'Italia non ebbe da opporre argini di nessuna specie; avvenne che anche gli elementi più vivi e forti della sua cultura contribuirono a sollecitare l'opera di disgregamento della vita culturale.
Dopo il '70 l'Italia aveva avuta una vivida fioritura letteraria. L'impressionismo e il naturalismo regionalistico, assorbendo con duttilità spesso felice le formule dell'estetica naturalista francese, e favorito dalla reazione particolarista contro l'accentramento ad oltranza della destra, dettero opere altamente significative, sia in letteratura che in arte. Però lo spirito animatore era già ritardatario e quindi destinato ad un affrettato sviluppo e ad un rapido declino. E' questa in buona parte la ragione intima del frigido rispetto - convenzionale per molti - che si fece subito dopo il 1890 intorno a Giovanni Verga.
C'è un libro che segna una data nella cultura del tempo: Il trionfo della morte -1894. Quel barocco accavallarsi di pervertimento erotico e di sincero culto dell'arte come unica realtà veramente sentita, di wagnerismo e nicianismo e di nostalgie regionalistiche abruzzesi con una persistente credenza arcadica nella potenza miracolosa delle forze primitive; il tutto mescolato con incerti tentativi di simbolismo e con pretese d'indagine di psicologia sperimentale, messo insieme alla rinfusa, come in una sala di vendite all'incanto e illuminato e colorito di tratto in tratto come da sprazzi di luce di un potente riflettore, è il documento più significativo di un momento, in cui si accostavano alle sponde dell'Italia letteraria le onde già in movimento delle nuove tendenze, delle nuove mode nel pensiero europeo. Il vigile ed astuto pescatore abruzzese si affrettava a gettare le reti in mare, e metteva in mostra nel suo acquario tutto quanto aveva recato la rete, facendo conto egli stesso, del resto, più della iridescenza delle scaglie che della qualità della pescagione.
Comunque l'esempio e il successo dannunziano affrettarono il movimento di assorbimento che appariva necessario in conseguenza del fatto che non si era determinato fino allora un moto interno di rinnovamento. Si noti che le nuove correnti di pensiero europeo entravano in Italia quasi di contrabbando, tra le pieghe della letteratura d'arte o addirittura della letteratura cosiddetta amena: questo perché dopo il '70 il pensiero speculativo era vissuto d'imprestito, e impigriva nella scuola, che declinava a vista d'occhio. Le dottrine positiviste avevano avuta la loro parte di bene; ma erano giunte di rimbalzo e già prive di elasticità. Giunsero troppo tardi per avere una elaborazione nazionale (uso la parola senza alcun senso "sciovinista". Il pensiero di un paese dev'essere ripensato in un altro, perché possa essere conservato in vita e trasmesso altrove o ad altre generazioni). Ma il positivismo si affermò in Italia quando manifestava già segni di crisi nei paesi di origine, e la nostra decadenza accademica non permetteva l'audacia di un tentativo italiano di soluzione della crisi incipiente.
Era quindi naturale che la giovane generazione si sentisse spinta, al di fuori della scuola, a vedere altre cose di là dalle Alpi. Fu una corsa attraverso i giardini di Armilla. I pomi vietati furono portati come tesori - e non sempre lo erano.
Aver tracciata la genesi di quel movimento significa anche averne indicate certe caratteristiche e certe tare originarie, le quali tutte si potrebbero raccogliere sotto la parola: improvvisazione. Una prova molto significativa è offerta da una osservazione di natura filologica - onde a qualcuno potrà parere pedanteria il rilevarla, mentre le conseguenze furono estese e profonde. Il nuovo gusto aveva il carattere spiccato di un cosmopolitismo saltuario e irrequieto; però le fonti, alle quali si abbeverava erano più di prima in fortissima prevalenza francesi; vale a dire che alla Francia non solo chiedeva largamente la produzione francese, ma si adattava volentieri e senza scrupolo per raggiungere in modo molto approssimativo la cultura straniera attraverso traduzioni e spesso infide manipolazioni.
Con poca fatica si riescono a trovare alcuni filoni di cultura pseudo-cosmopolita, sulla quale è facile riconoscere alcuna etichette di grandi case editrici francesi: le biblioteche filosofiche di Alcan; le pubblicazioni del Mercure de France (attraverso il quale p. es., c'è venuto Nietzsche), la Biblioteca cosmopolita di Stock (attraverso la quale c'è venuto Ibsen) ecc. Questa deficienza originaria ha lasciato tracce profonde, che ancor oggi sono riconoscibili - e talvolta ci balzano davanti quanto meno ce l'aspettiamo - malgrado la sopravvenuta opera metodica di nuova seminagione compiuta dal Croce. Ma il Croce, a mio avviso, è stato sempre un solitario, anche quando non pareva così, e sulla sua opera mi fermerò dopo aver finito di tracciare le linee di questo, che si può chiamare il vero e proprio movimento di reazione cosmopolita delle generazioni dell' 80.
Questo dunque passò per due stadi. Il primo fu di quasi passività sotto le influenze straniere. Aperto da artisti, come il D'Annunzio, o semi-artisti, come il Nencioni - che fu per questo rispetto un precursore - esso mantenne il carattere precipuo di dilettantismo estetico, che assorbiva per altro da alcune manifestazioni analoghe, di poco anteriori, della letteratura franco-inglese. Questo periodo è fissato nella nostra mente da due titoli: Il Convito e Il Marzocco. Meno nota è una terza rivista, che ebbe breve, ma non ingloriosa vita a Napoli, Flegrea, tra il 1899 e il '901 e che acquista maggiore importanza pel fatto che insieme con alcuni epigoni del Convito vi collaborarono il Croce ed amici del suo primo circolo (un frammento dell'Estetica fu pubblicato la prima volta in quella rivista).
In confronto a quel primo stadio il secondo, costituito dal movimento fiorentino, che si raccolse intorno al Leonardo, al Regno ed alla Voce (1903-1914), si presenta come uno sforzo maggiore di assimilazione, un desiderio di uscire dai modi del dilettantismo e di tentare una rielaborazione che avesse una impronta propria. Fatta giustizia a queste intenzioni, e riconosciute le qualità individuali dei più brillanti ingegni che presero parte a quel movimento, un giudizio riassuntivo sui risultati di esso nella storia nella nostra cultura non può essere sostanzialmente molto diverso da quello che si può dare del periodo precedente. Il "materiale" importato durante quel tempo per opera di quegli scrittori fu indubitabilmente ricco: attraverso il Leonardo e la Voce furono conosciute, per lo meno approssimativamente, tutte le tendenze d'avanguardia della letteratura e dell'arte francese d'intorno il'900, e il pubblico, che, nella sua generalità, era fermo ad Anatole France, al Bourget e - i più avanzati - a Remy de Gourmont, cominciò a familiarizzarsi con i nomi del Gide, del Péguy, del Claudel; in arte si saltò dall'impressionismo al cubismo; attraverso Sorel si cominciò a mettersi al corrente delle dottrine sindacaliste. Ma forse il maggiore successo di divulgazione fu nel campo della filosofia, col pragmatismo. Da parte sua il Regno introduceva la critica antidemocratica e le idee politiche del Barrès e dei legittimisti dell'Action française.
Tutto questo però rimaneva un accrescimento quantitativo, il cui peso era sicuramente superiore a quello verificatosi nei dieci anni precedenti; ma che purtroppo non cambiava affatto il modo di pensare, non modellava e sopratutto non disciplinava una nuova generazione d'intellettuali; anzi ora che guardiamo quel tempo con una certa prospettiva storica, dobbiamo riconoscere che su questo punto fondamentale della educazione intellettuale le cose peggiorarono e non migliorarono, e l'azione sopratutto del quinquennio della "Voce" (1909-1914), sotto l'influenza prevalente di due uomini di qualità femminili come il Papini e il Soffici, doveva avere di necessità più efficacia dissolvente che ricostruttiva. Il Prezzolini, ingegno molto meno brillante ed intuitivo, con qualità più pratiche che speculative, ma di tempra sana ed equilibrata, si accorse dello squilibrio, ne sentì il disagio ed ebbe in un primo tempo l'ambizione di superare (la parola cominciava ad essere di moda) le contraddizioni con uno sforzo insieme di sintesi e di adattamento. Ma la sua naturale propensione è per l'adattamento, pel semplicismo ottimistico, che dia una tinta d'ideale, di trascendente, alla sua attività - per altro rispettabilissima - nel campo della pratica. Ciò rese impossibile la sintesi, la rielaborazione; e l'occasione, perduta una volta, non si ritrovò più.
Personalmente anche il Prezzolini, perduta quell'occasione, non ne ritrovò più un'altra per capeggiare il gruppo della Voce. Egli si trovò in mezzo a loro come un giovane di buona famiglia capitato in mezzo a una brigata goliardica. Al principio questi si sente fuori posto, imbarazzato, e ride forzatamente delle loro scapestrataggini; ma la sua timidezza di fronte a giovani spregiudicati gl'impedisce di imporre la propria maggiore serietà, e finisce per essere soggiogato. Il giorno dopo si consola e mette a tacere la coscienza ripetendo a sé stesso le Memorie di Pisa di Giusti... Il Prezzolini è rimasto così attaccato ai ricordi di quel periodo - certo ricco di fascino e di nostalgia - che anche oggi, a più di dieci anni di distanza, è vinto dalla tenerezza dei motivi sentimentali che accompagnano quei ricordi e non ha acquistato l'obiettività sufficiente per giudicare il fenomeno da un punto di vista approssimativamente storico. Ne è prova il recente libro sulla Cultura italiana (Firenze, 1923), nel quale la prospettiva è anacronistica appunto di una dozzina d'anni fa: la Voce è l'"incipit vita nova" dell'Italia contemporanea; da allora l'Italia ha imparato a pensare, a studiare e così via. La cultura italiana sono le Memorie di Pisa di Giuseppe Prezzolini...
Concludendo, l'azione di quei tre gruppi, e specialmente della Voce, accrebbe senza dubbio di una gran quantità di materiale grezzo la cultura del paese; ma mentre esercitava con acume persino ingeneroso la critica della cultura accademica, cadeva troppo spesso in istato di ammirazione stupefatta davanti alle scoperte che faceva nel campo della cultura europea contemporanea. Ipercritica da una parte, deficienza di critica dall'altra. Il nuovo materiale veniva così gettato alla rinfusa su di un terreno non ancora preparato a riceverlo ed a rielaborarlo.
Si potrebbe con qualche fondamento di esattezza accostare il movimento culturale fiorentino del 1903-914 a quello dei letterati francesizzanti della seconda metà del '700 (Bettinelli, gli scrittori del Caffè, ecc.); con questa sostanziale differenza per quello che riguarda gli effetti conseguiti, che mentre gli uni avevano la fortuna di poter trasportare un corpo di dottrine semplice ed organico insieme, gli altri erano costretti a cogliere all'estero e portare in patria frutti eterogenei, rampollati da una crisi di pensiero che già aveva invaso l'Europa.
MARIO VINCIGUERRA
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