IL NUOVO CORTEGIANONon senza riposto disdegno, non senza segreto giudizio la "Rivoluzione Liberale" ha mandato a suo tempo le "condoglianze" agli innumeri letterati colpiti dalla "disgrazia" del Corriere Italiano, dove si erano assiepati i più agili e correnti nomi del bello scrivere odierno. Ma non meno sdegnosamente dobbiamo ancor battere su questo tasto, di fronte all'insistenza dell'amoralismo letterario, che ci obbliga ad assumere le non simpatiche vesti del censore: parecchi mesi di profonda, di violenta rivolta etica contro i despoti senza legge, non hanno praticamente scosso gli "intellettuali" dalla loro apatia. Siamo sempre nella situazione che dettava a un noto autore di commedie, pochi giorni innanzi il 6 aprile questo aureo consiglio a un noto autore di drammi: "Perché ti porti deputato? I letterati non si occupano di politica". Ora se davvero i letterati, loici o poeti che siano, "non si occupassero" di politica, noi avremmo da rinfacciar loro soltanto una tal quale incoscienza del mondo pratico, una mera degenerazione biografica dell'indipendenza e della irrealtà di cui abbiamo incoronato l'arte nei nostri teoremi, o della sovrumanità che abbiamo postulato per il pensiero. Ma i letterati italiani vivono ben piantati nella pratica; essi non si occupano di giudicare la politica, e di trar dal giudizio norma a sé stessi: ma con la vita politica stanno volentieri in branco. Sono presi da una morbosa indifferenza per il valore e la serietà di chi esaltano, o di chi accoglie i loro scritti, o di chi si accompagna pubblicamente al loro nome: non temono catastrofi, perché la loro valentia li renderà degni di salvezza; non fanno pregiudiziali, perché la loro preoccupazione è solo di scrivere bene e stampar meglio: il motto è di essere "scrittori" a qualunque costo; cioè servi a qualunque padrone. Purché ci sia modo alla bella immagine, alla bella frase, alla bella formula: e ci sia base alla buona fortuna. Questi infelicissimi aspetti della vita culturale italiana non hanno riscontro diretto nelle altre grandi sfere della cultura moderna: in Inghilterra, in Germania, in Francia. Per i paesi nordici la ragione è che gli "scrittori" scarsa importanza hanno avuto nella formazione storica della nazione; bisogna arrivare all'Ottocento per trovare in terra anglica o teutone uomini di penna che abbian dettato legge o fatto delle epoche solo in forza della penna, e non del pensiero o dell'azione. Questo ha prodotto: 1°) una scarsissima diffusione del cortigianato letterario; 2°) una coscienza, nei letterati, di limitazione dell'opera propria come parte di un organismo, accanto ad altre attività non meno essenziali. Si aggiunga l'intimo tormento morale del protestantesimo e, in fondo, anche del romanticismo nordico. Oppure, in Francia, la classe dei letterati ha sempre avuto una posizione di incontrastato dominio da cinque secoli almeno: e allora lo stesso esercizio del potere sociale l'ha educata a quel senso di responsabilità e di coerenza, tolto il quale essa cadrebbe. In nessuno di questi paesi, poi, l'andamento della vita politica ha mai permesso in misura notevole una corruzione etica dell'ufficio di scrittore. Ma le origini del letterato italiano sono altre, e diverse. Egli è cresciuto nel Risorgimento, tra le corti e i condottieri: in un mondo che non sapeva tener la penna né la credeva necessaria a governare, ma ne aveva bisogno per il fasto del regno e per la suggestione ipnotica dei sudditi amati. Il principe mecenate e l'avventuriero o il tiranno bisognoso di apologeti hanno tenuto a battesimo il nostro uomo: egli si è avvezzo a vedersi considerato indispensabile, e nello stesso tempo a stare in sott'ordine. La Controriforma e lo spagnolismo gli hanno insegnato ad assumere, in fatto d'idee, gli abiti fatti. Si va dall'Aretino "flagello dei principi" al cavalier Marino prediletto delle corti: due pesi, una stessa misura. Più tardi, il Risorgimento ha dato alla testa, con la sua apparenza di egual merito fra la penna, la diplomazia e la spada. Così abbiamo sentito dir male del Manzoni perché dopo il '21 poco o niente si sbottonò fino alla presa di Roma: e invece, povero Manzoni, meditava problemi politici con una serietà spaventosa. Tra queste vicende, il letterato italiano si è costrutto un suo sogno d'oro: quel che si esprime volgarmente chiamando gli scrittori ministri della fama. Gli uomini fanno, ma gli scrittori eternano, salvano dall'oblio, difendono contro il tempo edace: si inscenano la storia con le tavole di bronzo, e l'aligera Clio, e tutti gli armamenti mitologici. Lo diceva già l'Ariosto: che cosa sarebbe stato di Augusto senza la benevolenza degli scrittori? Immaginatevi che cosa succederebbe poi di una persona niente niente inferiore ad Augusto: un vero disastro. Su tal mediocre, ma non modesto trono si asside il nostro letterato e guarda con dispregio i servi, con simpatia cortigiana i padroni. E' cauto sempre nell'esprimere giudizi su chi forse potrà domani elargirgli "soddisfazioni" in cambio di una pagina elegante o di un libro compiacente, o in ogni modo "riconoscere" i suoi meriti. Invidia in cuor suo i grandi, che non appartengono al medio livello della letteratura, e che possono trascurare queste considerazioni: né lascia occasione di saettarli, se per avventura essi non stanno dalla parte dominatrice. E' maggioritario, naturalmente: le minoranze rendono scarso frutto, e sono rischiose. Le sofferenze e le lotte passate prima di "riuscire" lo rendono avido di onori: il timore di una caduta gl'insegna un guardingo riserbo. Si capisce che la differenza in peggio tra i mecenati del Rinascimento e quelli del Novecento implica una uguale differenza tra i loro corteggi di astri e pianeti pannaiuoli. E intanto il pensiero si ottunde, l'inchiostro s'intorbida, e una strana specie di alessandrinismo corre al trionfo, tra nuove sorti plebee. Noi non vogliamo con questo rimpiangere i decrepiti guardinfanti dell'arte maestra di buoni costumi; che hanno anzi la loro parte di responsabilità in questo stato di cose. Noi vogliamo semplicemente che lo scrittore, il letterato (in ispecie quando non è un grande poeta, un grande filosofo: ai quali spettano altri diritti) senta che saper scrivere, e scriver bene, non basta: che bisogna sopratutto, nella media condizione delle lettere essere uomini. Altrimenti, come si denuncia un malcostume politico, si dovrà denunciare un malcostume letterario: e l'onorato mestiere della penna cadrà sotto molti obbrobrii, per non avere né i suoi maestri né i suoi novizi compreso, che erano socialmente parti di un organismo e dovevano adeguarsi a questa funzione, - anziché vivere sulle grate norme dell'inserirsi nella storia, e della bontà del successo. S. C.
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