IL SIONISMO

    A parlare degli ebrei in Italia, si corre sempre il rischio di sonare su un tasto falso. Ci crediamo, nei loro riguardi, così liberi da pregiudiziali odii e timori, che ci sembra di poter discorrere dei loro problemi con perfetto disinteresse e con chiarezza scientifica. Viceversa, appena ci si è un pochino addentrati, ci si accorge di mettere in luce particolari, aspirazioni; difetti che, non si può negare, ci danno fastidio ed evocano quasi un istinto di diffidenza e di difesa che è come l'embrione d'un irrivelato antisemitismo...

    Queste cose mi son rivenute in mente nel leggere un chiaro e onesto libro (1), scritto da un egregio funzionario del Ministero degli Esteri: il comm. Romolo Tritonj. Due anni di permanenza a Gerusalemme come Console generale gli han dato agio di osservare un monumento assai interessante dell'esperimento sionistico, e di frequentare molti dei suoi guidatori. Una buona conoscenza del mondo arabo, d'altronde, lo pongono in grado di valutare giustamente le resistenze indigene. Sotto la struttura strettamente logica e documentaria, un umano senso d'ironia ravviva i particolari e serve quasi da criterio di scelta. L'estesa trattazione storico-psicologica su l'ebreo e il suo mondo prepara a valutare gli elementi morali e fatali di quella spinta verso Gerusalemme di cui poi si narrano i deplorevoli resultati. Buon libro di informazione e di coltura, unito, rapido. Dove sono, dunque, le sue manchevolezze?





    È una domanda a cui sarebbe difficile rispondere, per chi non possiede ricche informazioni su la complessa e variopinta storia ebraica. Ma forse, anche col soccorso di poche pubblicazioni, e riascoltando certi echi d'una lunga tragedia che è giunta fino a noi e qualche volta ci ha scossi, si può indovinare qualche altro aspetto del sionismo e tentare d'individuarne meglio la necessità, la spontaneità, tanto da riuscire a togliergli quella taccia di "creazione" inglese, e quindi di riparabile errore politico, che nelle conclusioni del libro accennato gli viene attribuita.

    Pochi ebrei di quelli non assimilati e fedifraghi e, certo, nessun sionista son disposti ad accettare la divisione storico-geografica del popolo eletto in due stirpi: la Seffardita (spagnuola) e la Asckenazita (germanica). I nomi indicano soltanto due diverse correnti a traverso cui si manifestò la "diaspora" (dispersione) e nascono in tempi relativamente recenti: spagnuoli si chiamano gli espulsi dalla penisola Iberica (fine del 1400) che popolarono il Levante, l'Inghilterra, Venezia, le città libere e anseatiche dell'Impero, la stirpe insomma dei Rothschild, di Spinoza e di Ricardo. Germanici, in secoli più tardi, furori detti i nuovi immigrati in Germania, gli esuli dalle persecuzioni orientali, gl'inventori del linguaggio "jiddisc", e i creatori, in questi ultimi decenni, del nuovo ghetto di Nuova York.





    Sembra però opportuno di segnare una distinzione più profonda, che non si limiti ai due diversi riti e ad alcune discusse caratteristiche somatiche. Questo popolo che, per vivere, ha bisogno di considerarsi sacro ed eletto, proibisce il connubio con persone d'altre schiatte e riconosce la sua patria in un solo tempio d'una sola città - oggi é diviso in due grandi rami, non più geografici, ma spirituali, che non trovano terreno di consenso, non hanno interessi vicini e intendono in modi opposti la tradizione che a loro è comune.

    La separazione è molto anteriore alla nascita dei nomi che la indicano. Fin dal tempo della cattività babilonese s'inizia la "diaspora". Con Esdra (quattro secoli av. Cristo) non tutti gli israeliti rientrano in Palestina, ma anche quelli rimasti in Caldea si considerano popolo eletto, rimangono fedeli alla loro religione e inassimilabili dai loro vicini. In Palestina, terra più aperta alle vie marittime, a commerci con popoli affatto diversi, all'influsso fenicio-greco-romano; dov'essi sono in maggioranza e quindi non hanno ragione né modo di segregarsi, di costituirsi di fronte al mondo esterno in unità chiuse e ostili, si può stimare che le modificazioni dell'antico spirito ebraico siano avvenute più facilmente: già ai tempi di Cristo il comune linguaggio era l'aramaico. Che già dai primi secoli dell'era cristiana l'ebraismo fosse scisso in due centri, lo dimostra la contemporanea duplice radazione del "Talmud", avvenuta l'una a Tiberiade, l'altra a Babilonia; e anzi questa è considerata più importante.





    La "dispersione" dunque, che non fu mai simultanea né totale, ma avvenne secondo periodi di maggiore e minore intensità, spesso per esodi volontari, e seguendo correnti determinate e proficue, parte da due nuclei già notevolmente diversi. Il centro babilonese si espande verso l'Arabia, l'India, il Caucaso e l'Europa Orientale. Il centro di Gerusalemme segue le vie del mare, popola le rive del Mediterraneo; con la conquista araba penetra, e mette profonde radici, in Spagna: donde poi trarrà il nome.

    Le lunghe e irrequiete vicende di queste genti sono sommariamente note; ma si pecca certo d'eccessiva compassione se si considerano come dei dannati alle persecuzioni perpetue. I ghetti prima d'essere una costrizione imposta dal mondo cristiano si formano per la loro segregazione volontaria. Città nelle città, sono come dei nuclei d'ebraismo puro, delle spirituali Sionni l'una all'altra contigue, tra cui s'intrecciano rapporti che sono già specificatamente commerciali. Per molti secoli la persecuzione non c'è, ma anzi un ambiente di libertà dove le colonie ebraiche prosperano e svolgono ampiamente le loro peculiari attitudini, utilissima forma di vita internazionale nello scisso mondo del Medioevo.





    L'espulsione dalla Spagna è appunto l'effetto di quest'eccesso di pace e di prosperità. I duecentocinquantamila ebrei rappresentavano una troppo viva forza nella sconfitta civiltà araba (al dominio della quale erano assai più vicino che non fossero alla civiltà cristiana), una troppo pericolosa testimonianza del passato perché i conquistatori cristiani li potessero sopportare. Ma gli esuli se ne vanno dalla Spagna non come un popolo di paria, perpetuamente avvilito e incapace di incuter rispetto, ma come una classe dirigente colta e abilissima di cui non si accettano più i servizi, la quale non riconoscendo una patria terrena è pronta a rifarsi la sua vita in qualunque luogo ed è sicura di meritarsi dappertutto posizioni di prim'ordine.

    "Una stirpe con speciale vita interiore e cioè con accentuato intellettualismo ossia con un istituto religioso razionalistico e non ascetico, determinato da una dottrina rigidamente intellettuale; con una mentalità utilitaria a base di rapporti tra uomo e Dio per cui l'uomo si sdebita di certi doveri e riceve in cambio dalla Divinità ricompensa corrispondente, il che induceva a una continua valutazione contrattuale del vantaggio o del pregiudizio di ogni azione; con un apprezzamento dell'utile e dell'importanza che la morale ammetteva al guadagno pecuniario; con un'immaginazione fertile in combinazioni; con uno spirito agile, penetrante, spesso cavilloso, pronto a rendersi conto delle situazioni, a comprendere le possibilità ed afferrare le occasioni, a freddamente calcolare e freddamente riflettere; con una facoltà notevole ad assimilarsi idee e sentimenti degli altri ossia ad adattarsi; con una volontà tenace e un soggettivismo accentuato che tutto riferiva all'utile" (2).

    Questo è l'ebreo che non si conosce più da vicino.





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    Se non che queste caratteristiche non corrispondono più al vero quando si osservano gli esuli d'oggi, gli scampati ai "pogrom" o alle orribili condizioni di vita che li sospingono, a milioni, in America. La storia della "diaspora" nord-orientale, che è nettamente divisa dall'altra, e soltanto ora, per essere respinta col terrore verso occidente o verso il sud, in qualche modo tenta di riconnettersi e, di solito, viene a bussare a una porta che non le sanno più aprire, è ancora, credo, oscura. Perché, in che modo un nucleo così ingente trovasse facile dimora tra Polonia, Russia e Romania, ma nello stesso tempo come mai non riuscisse a operare nella società che l'ospitava e restasse per secoli retrivo, appartato, odiato, senza escogitare a propria difesa quelle benefiche forme d'attività che gli pacificavano altrove tutti i vicini, è cosa che non si spiega, forse, se non col ricorrere a una più antica differenza spirituale. Non siamo più tra banchieri, medici e matematici, ma tra rabbini e cabalisti, profondi, squisiti conoscitori della Legge, vibranti di speranza nell'attesa del Messia. Non sanno aver presa sul lento mondo che li circonda, perché non sono consci d'una propria missione terrena, repugnano all'azione, si considerano attendati emigranti. A ogni capo d'anno si augurano e implorano il ritorno, entra l'annata, a Sionne.

    Questa gente non occidentale, dispersa in un mondo privo d'istigazioni ed attrattive, tra indolente e fanatico, che rinnega a sua volta qualunque forma di solidarietà contingente, poiché non riconosce norme e necessità di vita pratica, era naturalmente condotta a esultare ed a estendere in sé la vita religiosa. Quindi è priva di adattabilità, ignara delle forme scettiche che possono servire da riparo e da astuzia ai deboli, incapace di crearsi comunque un diritto, e convinta di dover subire persecuzioni e sacrifici. Se ai correligionari d'occidente si può rimproverare il culto dell'abilità, un eccessivo materialismo (pervaso però da elementi mistici), la assoluta incapacità creativa; tra questi invece la fantasia e la fede spronate di continuo trovano vivaci espressioni e pullulano, nella segreta vita del villaggio, i poeti, i visionari e gli utopisti.





    "Egli è un vero poeta, con una straordinaria potenza del linguaggio e un dono infallibile del ritmo. Scriveva nello stile medievale, profondando gli acrostichi e le rime doppie, sdegnando le nudità del parallelismo dei primitivi poeti ebrei. Nel campo delle idee, indovinava ogni cosa come una donna, con una rapidità e una penetrazione stupefacente, ma con la stessa mancanza di criterio... Quella medesima tendenza del suo spirito contorto lo attirava ad esporre ingegnose spiegazioni su la bibbia e sul "Talmud", a chiarire di nuova luce questioni di storia, di filologia, di medicina, di tante altre cose, di qualunque genere. Il credeva nelle sue idee perché gli erano proprie e in se stesso a cagione di quelle idee. Gli sembrava talvolta di crescere di statura fino a toccar con la testa il sole, e questo gli accadeva dopo una lunga argomentazione o dopo una declamazione appassionata; il suo cervello serbava, da questi contatti, come una perpetua fiamma".

    Poesia e utopia ebraica, e soltanto un ebreo può mescere insieme nelle sue parole l'ironia, il convincimento, la simpatia a questo moda. Per la storia del sionismo è opportuno parlare un momento d'Israele Zangwill.





    La famiglia Zangwill - il nome la dice askenazita - era da un pezzo, da più di una generazione stabilita in Inghilterra. Se Weininger ha ragione di paragonare agli ebrei gli inglesi, si capisce che il mondo britannico sia stato adatto alla espressione d'un tipico ebreo, com'era stato, poco prima, oggetto del governo d'un Disraeli. Egli si trovò in una società che accoglieva e onorava alcune famiglie di banchieri e baronetti, gli ebrei di palazzo che non compravano un titolo con una conversione, ma si confondevano con l'alto mondo ufficiale tenendo per sé il segreto di qualcuna delle sue attività; e relegava poi nei più sordidi quartieri, oltre Whitechapel, nel nuovo ghetto, le migliaia di scampati dai "pogrom" che non sapevano ancora tentare le terre americane. Zangwill si rivela con questa nuova esperienza della sua stirpe; di fronte agl'immigrati orientali fa da inglese; ma intercede per loro presso i magnati israeliti, scrivendo. E' artista, e (passaporto necessario cogl'inglesi) umorista; coglie i lati comici dei suoi quasi compagni, crea o ripete molte delle tremende e dolorose storielle ebraiche. Ma nello stesso tempo è un infaticabile bussatore a quattrini, il provocatore e l'intermediario delle larghissime munificenze. I Rothschild, i Montefiore, i Sassoon si sdebitano degli obblighi della ricchezza, creano le loro "fondazioni", le benefiche colonie in Argentina e in Palestina. Ma intanto Zangwill capisce che il rimedio pecuniario è inefficace: son dodici milioni di esuli, presenti o futuri.

    Sono esuli, dice Zangwill, perché non si sanno far rispettare. Se avessero coscienza di sé come popolo, sarebbero forza, sarebbero "Stato", un tutto organico, capace di resistere, di dettare patti. Lo sforzo che deve fare il buon ebreo è di ottenere la formazione di questo stato.

    La storia di questo barlume di coscienza statale è esposta chiaramente nel libro del Tritonj. I primi congressi di delegati panebraici rivelano che "il popolo" ha però una sola mira: lo Stato antico, Sionne. E' una preghiera, è quasi una parola magica, non capiscono altro, sdegnano le altre proposte: la Patagonia, l'Uganda (offerta da Chamberlain dopo la guerra boera). Non si poteva sperare di costruire efficacemente lo Stato ebraico fuori da questa premessa.





    Questo lavorio di speranze e d'incitamenti che è durato vent'anni era a Londra, nel seno del Governo inglese, un po' una spina, un po' un adescamento. Trattative col Kaiser e con il Sultano erano andate in fumo; si sa che le speranze "liberali" s'appuntano sempre a Westminster, e in questo caso c'era anche il giuoco di sommi interessi. La Palestina s'andava arricchendo di volontari immigrati ebrei a decine di migliaia. II giorno della conquista il Governo inglese era quasi impegnato ad offrirla a loro.

    Che quel Governo non si sia dato pensiero delle condizioni di vita in Palestina e della possibilità d'un simile esperimento è cosa che si capisce; direi che è cosa logicamente politica, se appunto doveva aver importanza quest'atto di volontà e di protezione, e il resto, l'attuazione pratica, era affar loro. Ma ci s'immischiava inoltre un interesse attivo della politica britannica, quel senso "imperiale" d'espansione nella forma protettiva che le è classico, che la fa apparire nel mondo in funzione di fecondatrice e di riparatrice, di creatrice d'"errori" se così si vuol dire donde poi traggono origine esperienze di storia. Sarebbe stato assurdo e compromettente far della Palestina una "Colonia della Corona"; perciò l'Inghilterra assume il mandato di governarla, creandovi "il focolare nazionale" per gli ebrei; dominio sicuro, non su un piccolo territorio ma sulle coscienze di una stirpe sparsa per il mondo; funzione quasi di giustizia, e in tutti i modi d'arbitrato in contese di religione e di razza che non si prevede possano rappaciarsi; previdenza forse del giorno (secondo le profezie del medesimo Zangwill) in cui il bolscevismo crollerà sotto una insurrezione antisemita, quando sarà utile per poter manovrare una valvola di sicurezza, che è poi proprio quella che han saputo inventare gli ebrei come rimedio ai loro terribili, e spesso volontari, guai?





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    Ma l'esperimento sionista è fallito alle speranze degli stessi ebrei. Non è da far maraviglia che essi - chiamati con l'istituzione del "Zionist Executive" a funzioni di pseudo governo in terra ignota - non siano riusciti nell'opera impossibile, e abbiano creato altre impossibilità psicologiche intorno all'esperimento vagheggiato; gettato semi di lotta religiosa e politica in Palestina, trattandola come "terra di conquista", lotta che volgerebbe di certo ai loro danni. E' invece più strano, e può sembrare contraddittorio, che essi considerino fallita la causa del sionismo in seno alla loro razza, come propaganda di unità nazionale ed effettiva costituzione di Stato.

    Un sogno ebraico era quello di crearsi Nazione, colonizzando una terra non propria con poche decina di migliaia d'individui, proclamati rappresentanti d'una Unione Spirituale sparsa per il mondo. Le stesse forze che tengono unita - a suo modo - la "diaspora", la stessa tradizione religioso-casuistica che non ammette in fine autonomia civile e limita il campo della attività individuale all'universo astratto e alla casa, si oppongono a questo compromesso: dove una ragione di difesa contingente, un principio accattato alla pratica occidentale messi insieme vogliono condizionare e quasi dar nuovo fondamento alla profonda vita messianica e supernazionale. La delusione dei sionisti è stata grande; secondo loro tutti gli ebrei abbandonando le patrie prese in prestito dovevano farsi cittadini di Sionne.





    La tragica confessione si ha dalla bocca di Zangwill. In un numero (quello del 12 marzo 1924) della Rivista americana "The Nation", è pubblicato un suo articolo (in contraddittorio con un altro di Chaim Weizmann, membro del "Zionist Executive)": "Il giudaismo non è un cosmo, ma un caos". "L'unico senso di unità cui s'avvicina è l'unità del sacrificio che soffre in vaste e numerose regioni d'Europa".

    Nemmeno l'unità del sacrificio s'impone. I sacrificati non dettano legge, non piegano a sé la coscienza degl'ignavi, degli assimilati o dei beneficati da un lungo esilio. Tra il Seffardita e l'Asckenazita, pigliando i termini geografici in senso morale, c'è una distanza immensa e non s'intendono. Tra gli Orientali stessi, a Nuova York, s'è scelta una casta, dominante e americanizzata. Otto Kahn disprezza e non capisce il Levitzky che è sbarcato l'anno scorso; e vota la legge che, d'ora la poi, gli vieterà d'approdare.

    Il sionismo doveva, nel pensiero dei capi, uccidere e sostituire la "diaspora". Ma la diaspora, che non è solo sofferenza ma anche gloria nella disperazione, partecipazione alla vita delle singole Nazioni in un geloso senso d'unità che le supera, osserva il fallimento del sionismo ed è indotta a approfittare da una lezione d'errori. Zangwill spera che agisca nelle patrie - che permei di spirito ebraico le terre dove ha allignato, e, sopra tutte, quella della moderna prosperità d'Israele, la terra incolta che può fruttificare col suo seme. L'America ormai è il centro della vita jiddisc, l'arte ebraica s'è manifestata, si conosce e conta solo a Nuova York. Ma, naturalmente, nasce nello stesso tempo e prospera l'antisemitismo.





    L'avvenire, come si vede, è oscuro anche di queste minacce. Occorre (per il tranquillo riposo dell'animo informato) prospettarsele, ma non è da pensare senz'altro al peggio, a forme estreme di violenza e a remote vendette. I problemi di solito non si risolvono che mediatamente, suscitandone degli altri, magari opposti, a traverso le modificazioni e gli adattamenti. Degli errori propri alle menti ebraiche, importa di rilevare quello della "logica catastrofica" per cui non si conosce che l'ottimo e il pensiero, e si è sempre pronti a ideare palingenesi e rivoluzioni. Sarà pur questa la fiamma che li riscalda da secoli, e saranno preferibili questi ebrei eccitati a quella specie di molluschi pratici e cavillatori che siamo avvezzi a trovarci tra i piedi. Ma di loro non c'è troppo da fidarsi, come di gente che tira le somme sempre maggiori del totale degli addendi. Dicendo questo, non si vogliono menar per buone le fantasie su i Saggi Anziani e su i complotti secolari. Ma apporre a certe seduzioni romantiche, al facile sentimentalismo, magari al senso di rispetto per una razza che non è soltanto afflitta, querula e meschina, le obbiezioni del nostro buon senso, le ragioni della vita occidentale che costruisce oltre la pietà e le utopie.

U. MORRA DI LAVRIANO