INVENTARIO DI CULTURAII.Il filo logico del discorso mi ha fatto procedere fin quasi alle ultime manifestazioni del processo di disgregamento della cultura italiana, lasciandomi indietro il nome predominante di tutto quel periodo: Benedetto Croce. Ho accennato poco prima al mio modo di vedere la figura del Croce, intimamente distante e male inteso, cioè sempre parzialmente inteso, ed assunto solo per quella parte che volta per volta s'intendeva a caposcuola: ragione per cui egli ha sempre cercato con ogni cura di respingere da sé un simile appellativo. Perciò ho detto che il Croce è sostanzialmente un solitario. Le generazioni che lo hanno successivamente accompagnato nel cammino - dai coetanei ai giovanissimi - lo hanno affiancato una dopo l'altra, per poi allontanarsi, prima di aver conosciuto e penetrato per intero il proprio autore. Pare un paradosso, quando si pensa alla fama ed all'autorità conquistatasi dal Croce nel mondo della cultura dal'900 in poi; eppure basta approfondire uno per uno i casi più significativi per accorgersi che mentre ad un certo momento pareva che tutta l'Italia fosse crociana, di fatto non fu veramente intesa e ritenuta, in un primo tempo, che la parte prettamente critica, negativa della sua teoria sull'arte, e del resto della sua dottrina non furono colti che alcuni tratti, spesso raccozzati male insieme. L'intima unità e continuità del suo pensiero sfuggì malauguratamente alla maggioranza del pubblico; e dico malauguratamente per due ragioni; perché è sempre un gran male che si disperda "il midollo leonino", e perché questo strano malinteso durato un buon ventennio è l'aspetto non meno importante e non meno malinconico della crisi di disintegrazione della nostra cultura. Secondo lo stato civile il Croce è della generazione dannunziana; secondo le tradizioni familiari si riattacca alla tradizione della scuola hegeliana di Napoli; secondo l'indirizzo dei suoi primi studi si riattacca al positivismo, non dottrinale, ma applicato all'indagine dei fatti storici, e da questo alla dottrina del materialismo storico, che assorbiva alla scuola di Antonio Labriola, e che attraverso Marx, lo faceva risalire ad Hegel ed alle tradizioni familiari del pensiero di Spaventa. Questa preparazione spirituale era assai più complessa e sopratutto assai più ordinata ed equilibrata di quello che non fosse nella generazione sua coetanea; era una preparazione che poteva affrontare senza pericoli l'irruzione cosmopolita, ed anzi gli permetteva di abbracciare con lo sguardo il fenomeno nel suo complesso e d'intraprendere lo sforzo di assorbire gli elementi indispensabili per innestare l'arretrata nostra cultura sul tronco della cultura europea più avanzata, pur mantenendo quella nel clima della propria tradizione. Il richiamo a Vico - che ad alcuno è potuto sembrare piuttosto un richiamo personale, di indole sentimentale, dello studioso innamorato della storia e del pensiero napoletano - è invece uno dei capisaldi della dottrina crociana che, sia pure attraverso radici sentimentali, si riporta ad una delle grandi correnti di pensiero italiano, che, lungi dall'estinguersi, si è andata accrescendo in una complessa vicenda di reciproche azioni e reazioni, nel corso del secolo XIX: trasmigrata in Germania, dalla Germania tornata in Italia con l'idealismo tedesco e raccolta nuovamente e rinverdita dai neo-hegeliani napoletani. La personalità del Croce è troppo complessa perché si possa pretendere di sbarazzarsene in pochi periodi. D'altro canto una simile esposizione, sia pure sintetica, uscirebbe fuori dal compito che mi sono proposto in questi appunti. Ma come fenomeno culturale - che è quello che qui bisogna cercare di chiarire - è necessario assodare alcuni fatti capitali che si verificarono intorno alla personalità del Croce, e che - essendo il Croce la figura emergente di quel periodo - determinarono la china sulla quale inesorabilmente doveva discendere la nostra vita culturale degli ultimi anni dell'era che si chiuse col 1914. Questi fatti, risultanti dalla breve esposizione che ho fatta si possono, per maggiore intelligenza schematizzare cosi: 1) Il Croce, sorto nel bel meglio della crisi cosmopolita della nostra cultura, riprese il problema dalle origini, con una preparazione filosofica e storica tutta propria, e tentò di stabilire un nuovo equilibrio, che tenesse conto delle forze nuove (soggettivismo, intuizionismo ecc.) e delle tradizioni italiane (storicismo critico: Vico, Spaventa, De Sanctis). 2) Il progetto crociano non è stato inteso dal pubblico italiano, malgrado il successo personale dello scrittore. Forse una ragione di questo strano fenomeno di grande seguito nei particolari e di incomprensione nello spirito totale dell'opera intrapresa deve anche ricercarsi nella forma mentis dello stesso Croce: il suo ordine mentale, che lo fa lavorare per zone, e quindi certe volte pare che in quella zona lo si trovi tutto, e non è. Ma sopratutto è da ricercare nelle condizioni d'insanabile crisi, in cui già si trovava lo spirito della nostra cultura. Avvenne che delle due parti inseparabili, delle quali era composto il programma crociano fu veramente e cordialmente intesa e portata fino all'esasperazione solo la prima, critica e negativa, che offriva una chiara, lucida sistemazione filosofica delle tendenze intuizionistiche, anti-storicistiche, che erano penetrate a brandelli e confusamente: un'arma di ottimo acciaio e managevole che il Croce, dopo aver lavorato con grandi sudori nel segreto della sua fucina, metteva nelle mani di giovani, focosi, inesperti schermitori dilettanti. Per questo soprattutto l'apparizione della prima edizione dell'Estetica (1992) resta come uno degli avvenimenti più sintomatici e sconvolgenti dei nostri tempi. Anche un uomo come il Croce, uscito dagli archivi, dagli studi eruditi di storia locale, di storia dell'arte e finanche di aneddotica e di topografia napoletana, apriva la sua nuova fase di studioso nel campo della filosofia abbattendo più papaveri di un Tarquinio. Da quello sterminio, come, secoli addietro, dopo un terremoto si vide sorgere in una notte un monte nuovo, dietro Pozzuoli, noi giovanissimi di allora vedevamo sorgere, gigantesca, questa specie di fata della intuizione pura, così limpida alla vista, così bene accogliente, così semplificatrice dei problemi della poesia, della storia, della filosofia, e, perché no?, anche della vita. Non è che fosse così. Ripeto, non faccio né la esposizione né la critica, tanto meno, della filosofia del Croce; ma abbozzo le impressioni che ne ebbero le generazioni nate intorno all'ottanta. Simili impressioni dovevano dare alcuni cattivi consigli, e il Croce prima d'ogni altro se ne accorse. Un primo segno della necessità, presto sentita, di un equilibrio è già nel programma della rivista La Critica (1903): Il compilatore di essa (spiegava il Croce) crede fermamente che uno dei maggiori progressi compiuti in Italia negli ultimi decenni sia stato l'essersi disciplinato, mercé le università e le altre istituzioni di scuola e di controllo e d'informazione, il metodo della ricerca e della documentazione; ed é perciò un leale fautore di quello che si chiama "metodo storico o metodo filologico". Ma egli crede, con altrettanta fermezza, che tale metodo non basti a tutte le esigenze del pensiero, ed occorra perciò promuovere un generale risveglio dello spirito filosofico; e che, sotto questo rispetto, la critica, la storiografia, e la filosofia, potranno trarre profitto da un ponderato ritorno a tradizioni di pensiero, che furono disgraziatamente interrotte dopo il compimento della rivoluzione italiana, e nelle quali rifulgeva l'idea della sintesi spirituale, l'idea della Humanitas. E, poiché filosofia non può essere se non idealismo, egli è seguace dell'"idealismo": dispostissimo a riconoscere che l'idealismo nuovo, in quanto procede più cauto d'una volta e vuol dar conto d'ogni passo che muove, può ben designarsi come idealismo "realistico", e perfino (ove per metafisica s'intendano le forme arbitrarie del pensiero) come idealismo "antimetafisico". Il Croce parlava chiaro; eppure la dichiarazione intorno al metodo storico fu considerata, in generale, dai neofiti dell'estetica crociana come una concessione polemica e non più: tale era lo spirito del tempo. Ciò spiega il disorientamento e una parziale ribellione in mezzo a loro, quando poco dopo il Croce reagì contro la poesia di Pascoli, nella quale - forse anche troppo guidato da criteri culturali, e meno da puri criteri estetici - egli vedeva però lucidamente una della più esasperate espressioni del male del tempo: quel frantumarsi della vita in una nebulosa, quel degradare della ragione verso forme di vita fanciullesca o primitiva, che le malizie dell'arte invitavano ad ammirare come forme perfette di vita. Che più? Quando il Croce nel medesimo programma citato della Critica diceva: L'anzirecitata professione di fede importa che questa Rivista non darà quartiere a quelle molte persone geniali che, infischiandosi della storia delle idee e dei fatti, prendono audacemente a risolvere ardue questioni sulle quali l'uomo s'è travagliato per secoli, sicure di afferrarle con un colpo sbrigativo della loro asserita genialità. e si appoggiava sul motto di Bacone: "Citius emergit veritas ex errore quam ex confusione", faceva in anticipo la critica del movimento fiorentino, che si apriva in quello stesso anno 1903 con le audacie confusionarie del Leonardo. Infine il discorso tenuto al congresso di filosofia ad Heidelberg (1908) mise il suggello filosofico a questo primo periodo di reazione, che vedemmo accentrato durante e dopo la guerra con un senso più spiccatamente pedagogico e moralistico. Ma a nessuno è concesso di ritirare il contributo dato alla storia, e il Croce ha potuto deplorare, ma non impedire che la concezione dell'intuizione pura passasse dall'arte alla vita, aggiungendo un nuovo e potente impulso alle tendenze disgreganti della vita sociale italiana dopo il'900; e che nella sua apparenza di miracolosa spontaneità facesse scivolare nella fede dilettosa dell'improvvisato, del miracolismo. A questo punto precisamente e su questo sentiero traverso il movimento della Voce s'incastrava alla prima Estetica. Dal miracolismo all'acrobatismo marinettiano il passo diventava breve. Il Croce era ben lontano da quelli dell'Acerba, quando questa comparve; tuttavia è acquisito alla storia che l'Acerba accolse il Papini, già "vociano" e crociano, e ciò non fu per un caso fortuito. Il Papini - mi si permetta l'espressione... protocollare - rappresentò nel movimento futurista il plenipotenziario della prima Estetica, presso il dannunzianismo marinettiano. Il connubio era fatale, quantunque a buon diritto rinnegato dal Croce in nome degli stessi fondamenti del suo pensiero, Ma questi essendo rimasti infruttuosi sul terreno della nostra cultura, bisognava bene che si arrivasse ad una forma ibrida e tumultuaria, quasi oscuro presagio dei turbinosi eventi che preparava la storia allo scadere del primo decennio del secolo nuovo. MARIO VINCIGUERRA
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