LA DITTATURA DI CESARE

    Il secondo volume di "Grandezza e Decadenza di Roma" di Guglielmo Ferrero è dedicato, come è noto, a Giulio Cesare. Dagli ultimi capitoli del libro sono stati tratti, scegliendoli qua e là dalla vasta congerie di fatti ed osservazioni, questi pochi periodi sulla dittatura di Cesare.

    Se il lettore troverà che il giudizio su Cesare è troppo severo e talvolta inaccettabile pensi egli stesso a sostituirgli un nome più appropriato. La verità storica sarà salva e sarà evitato ogni paragone troppo ridicolo e oltraggioso per i viventi se si penserà che G. Ferrero abbia voluto fare, invece che la stroncatura di Cesare, l'elogio di Mussolini.

Il partito di Cesare

    Nel partito di Cesare era insita una contraddizione e quasi un inconsapevole malinteso. Una parte, diremo così letterata e signorile, si componeva di persone appartenenti alle alte classi: uomini di fine educazione, di notevole coltura e ricchezza, di vita almeno decente secondo la morale dei tempi; un'altra parte, invece, e molto più numerosa, era formata di avventurieri, di malcontenti, di condannati, di esaltati, di spostati, di indebitati, di uomini venuti da tutte le classi, altissime e infime, spesso intelligenti ed energici, non di rado ignoranti, quasi sempre senza principi né personali né di classe, e incitati dal solo desiderio di soddisfare la propria ambizione.

    La contraddizione restò latente sinché durò la guerra per la conquista del potere; e Cesare si studiò di dissimularla colla sua alterna politica ora aizzando la demagogia, ora civettando con i conservatori; ma scoppiò, invece, appena il potere parve conquistato, nel principio del 47.





La spartizione del bottino

    Ricompensare i "compagni", come egli li chiamava; appagare questo corpo esigente di aspiranti a laute pensioni formatosi durante la guerra civile, era la più intralciata faccenda che la vittoria legava al vincitore, quasi ad espiazione.

    Tutte le altre parole sue egli poteva, adesso, disdire, come fole date ad intendere agli sciocchi per vincere; non queste promesse fatte ai trenta o quaranta mila uomini che lo avevan seguito dalla Gallia o eran passati a lui dal nemico; e che da tre anni sognavano di poter presto campar tranquilli di rendita sulle terre e con i denari ricevuti da lui. E alcuni piccoli contrasti recenti gli facevano intravedere a quali pericoli si esporrebbe, non soddisfacendo appieno gli smodati appetiti dei suoi più fedeli partigiani.

Le riforme di Cesare

    Con la consueta, rapidissima alacrità egli fece, aiutato da pochi amici e da pochi liberti, servendosi della potestas censoria o proponendo leggi ai comizi, un seguito di riforme piene di spirito conservatore: Riformò i tribunali, dando loro una composizione più aristocratica; modificò le leggi penali, accrescendo le pene contro i delitti; sciolse le associazioni facinorose, i collegia di artigiani organizzati da Clodio, di cui pure si era tanto servito nella sua lotta contro il partito conservatore. Tentò anche di riordinare i servizi pubblici; dispose per la coniazione di una moneta d'oro, l'aureus; incominciò a studiare la famosa lex Julia municipalis, di cui tanto parleremo in seguito e che doveva riordinare la costituzione amministrativa delle città italiane. Molti, incoraggiati, si domandavano se egli avrebbe anche restaurate, nella misura in cui era possibile, le istituzioni republicane.





La finanza del dittatore

    Intanto per trovare nella gran crisi il danaro necessario a far tante cose, Cesare doveva vendere alla disperata i beni confiscati ai vinti, le terre pubbliche non atte a deduzioni di colonie, e quelle dei templi; e di questa finanza, arruffata di troppo frettolosi espedienti, approfittavano gli amici suoi, prendendosi per poco o nulla immense terre. Servilia aveva ricevuto per nulla un grande possedimento confiscato nella guerra; grandi fortune facevano intorno a lui alcuni liberti; già ricco era quel giovine schiavo germanico che egli aveva promosso agli uffici dell'amministrazione per averlo scoperto a far l'usuraio con i suoi compagni di servitù, e che, con il nome di Licinus era divenuto uno dei suoi amministratori più abili.

Le elezioni

    Verso la fine del 45 Cesare fece le elezioni, usando del potere concessogli dopo Munda di designare tutti i magistrati ai Comizi, cioè di eleggerli egli, lasciando al popolo la sola facoltà di confermare la sua proposta.

La chimera della dittatura

    L'idea che un uomo solo, per quanto intelligente ed operoso, con pochi amici e liberti raccattati a caso sulle vie della fortuna in dodici anni di guerre e venture, potesse comporre nel vasto impero il disordine nascente da una lunga decomposizione e ricomposizione sociale era chimerica. Vincere con un esercito il partito conservatore e le alte classi dell'Italia, infiacchite dagli egoismi che dissolvono tutte le classi troppo potenti, era stato facile: impossibile era, invece, a un uomo comporre con leggi gli immensi antagonismi di quella società avida, violenta, orgogliosa. Le difficoltà rinascevano una dall'altra suscitate dalla stessa fretta faragginosa con cui egli tentava di vincerle; e l'irritazione, la fatica, le delusioni di questo immane lavoro ottenebravano quello squisito senso dell'opportuno e del reale, che era stato per tanti anni così lucido in lui.





    Eppure egli non voleva sentirsi dire che violava la costituzione, che sovvertiva la tradizione, che agiva contro lo spirito, se non contro la parola, delle leggi con cui gli era stato dato il potere. Non solo l'esaltazione del successo e del potere, le adulazioni, la stessa stanchezza acuivano in lui il bisogno di commozioni violente, ne esaltavano il desiderio di gloria e l'ambizione di pareggiare con imprese immense Alessandro, ne assopivano la vigilanza e la prudenza; ma la forza delle cose lo spingeva ad affrancarsi dai vincoli delle leggi, illudendolo che il potere assoluto fosse non ambizione sua, ma necessità salutare dei tempi.

L'assassinio di Marcello

    In quella avvenne un caso atroce e pietoso; Marcello, il Console del 51, fu misteriosamente assassinato ad Atene mentre tornava a Roma in seguito al perdono di Cesare. Subito il dittatore fu accusato sommessamente di averlo fatto uccidere a tradimento, per vendicarsi, mentre pubblicamente fingeva di perdonare.

La vittoria degli estremisti

    E davvero Cesare, intimidito dal malcontento pubblico e dalla discordia dei cesariani, parve un momento voler dare soddisfazione alla parte più moderata del suo partito, alle alte classi, ai conservatori; revocò i preafecti urbis; rifiutò alcuni degli onori; depose il consolato singolo. Alla breve moderazione succedé presto una nuova esaltazione, e le ultime esitazioni di Cesare dovevano esser presto vinte dagli incitamenti della parte peggiore del suo partito; dei liberti non romani, degli spostati, degli indebitati, dei disperati che lo avevano seguito per la speranza di ricchezze e di onori. Tutti vedevano come egli preferisse sempre più gli avventurieri che lo lusingavano e lo compiacevano in ogni capriccio.

    Alle tradizioni più antiche e venerate Cesare faceva ora violenza aperta, trasportando audacemente dalla letteratura e dalla filosofia nella politica quel rivoluzionario disprezzo per il venerando passato di Roma, in cui si sfogava la petulanza dei giovani scrittori e studiosi.





La debolezza del regime

    Eppure all'ingrandimento dei poteri corrispondeva un progressivo infiacchimento dell'autorità. Il dittatore, a mano a mano che ambiva nuovi onori e poteri, diventava meno atto a servirsene. Non possedendo più né la lucidezza necessaria a discernere il possibile dal chimerico né la pazienza di operare in ogni cosa con graduale costanza; e, d'altra parte, non potendo incrudelire come Silla e tentar di vincere la forza e la resistenza che le tradizioni e gli interessi opponevano alle ambizioni sue; egli cedeva, concedeva, transigeva maggiormente con tutti, specialmente con i conservatori, a mano a mano che assumeva un nuovo onore o tentava una nuova riforma troppo grandi, per la speranza di addolcire i nemici che non poteva atterrire o distruggere, per la fretta di vincer subito un impedimento, per necessità o irrequietezza nervosa.

    Così il vigore della dittatura tremolava in una lentezza e incertezza senile di condiscendenza, poco minore che quella del vecchio governo repubblicano; si avvolgeva, quasi a nascondersi, nei serpentini attorcimenti di mezzucci ingegnosi ed inutili.

    Anche il dittatore in apparenza onnipotente era preso nella rete di raccomandazioni, di servigi, di compiacenze, di favori che formava l'essenza di quella come di tutte le società mercantili, in cui il denaro è il fine supremo della vita; e non poteva rompere i fili invisibili.

Un grande uomo di Stato?

    Cesare, trovatosi, a un tratto, signore in apparenza di tutto, si trovò anche in una delle più difficili situazioni: senza essere in grado di abbandonare il potere, e costretto, se lo conservava, a dovere imprendere l'impossibile fatica di governare solo, con pochi amici, un immenso impero in disordine. Che egli si illudesse di bastare a impresa sí grande, è umano: ma a tanta distanza di tempo, con esperienza più matura delle cose storiche, noi possiamo capire a fondo la fallacia di questa illusione. Cesare fu non un grande uomo di Stato, ma il più gran demagogo della storia.