Gl'industriali

    Le parole con le quali alcuni rappresentanti degl'industriali chiariscono il loro atteggiamento politico non recano punta sorpresa. Se fossimo in un'ora più consueta, e sembrasse opera di buon gusto cercare gli scagionamenti e volger gli animi a un sereno ottimismo, diremmo che gl'industriali, teorizzando, peccano di insipienza ma non di malvagità e che il loro temperamento è assai più retto o molto meno iniquo delle loro conclamate intenzioni.

    Ma oggi, cercare di scusarli non sarebbe cosa degna. Non si vuole però denigrarli personalmente, con atto di bassa demagogia, denunciare uno per uno gl'insensibili e cinici "plutocrati" cui unico limite del lecito è la sovrana paura. C'è da prender di mira una vasta compagnia di gente, legata, ancor più che dagl'interessi, dai gusti e dall'educazione, che vige e domina in quel famoso triangolo "moderno", Torino Genova Milano, sede di diritto, secondo taluni, della presente vita italiana.

    Pigliando a tipo la mentalità del ragioniere, diciamo allora che hanno ragione. Devono, prima di tutto, tornare i conti. Su i mezzi non si discute. La politica è un'iniqua speculazione, è un assurdo logico, un'inframmettenza di dati eterogenei nel campo dei loro calcoli, una cattiva consigliera con que' suoi profetici richiami che han quasi sempre l'ufficio di gettare il panico in borsa. Se non ci fosse il Parlamento, se non ci fossero i giornali, tutti gli oratori dei comizi (quando c'erano) tutti gli agitatori sovversivi starebbero buoni, poiché non tendono ad altro che alla popolarità personale, a risorbirsi l'eco delle proprie parole diffuse lontano dalla fama.





    Per questi il governo despotico è ottimo, anche se si mantengono onesti e non ne approfittano per condurre illeciti affari. E' la prima volta che possono "vivere in pace", sottraendosi a quelle condizioni di lotta che non sanno riconoscere per necessarie. I guadagni sono molto più saporosi; perché è scomparsa una parte del rischio, e giungano quasi per elargizione, con grazia, invece di essere un premio agli sforzi e agli stenti.

    È uno stato d'animo quasi identico a quello dei soci delle grasse e sussidiate cooperative "piovra dello Stato" degli antichi tempi. Essi certi favori (se non che erano minimi) li ottenevano senza nessun loro merito o lotta, per atto quasi prammatico, un'iscrizione e il rilascio d'una tessera, e coll'assumere una certa qualifica, che era investitura di dignità e accampamento di diritti per godersi pochi e meschini beni attuali, ma sperandone dei fantastici pel futuro. Anche gl'industriali non filibustieri - e vorremmo conoscerne di quelli filibustieri per documentare la loro candida psicologia! -, si potrebbe giurare, hanno fatto affari piuttosto magri. Ma sono grati e fedeli a un governo che ha fatto travedere regioni inesplorate pur dalla più accesa e romantica loro fantasia, e li nutre delle più rosee speranze.

    "Un'industria libera da ogni protezionismo e da ogni paternalismo di Stato"? Per carità; bisogna prima aver mutato, a uno a uno, i cuori dei suoi capi. E per ora non ci resta da far altro che laconicamente protestare, umiliati, in nome dell'intelligenza.





Il Giornale d'Italia

    È ormai diventato lo specchio della nequizia. Tra le molte malefatte di Cesarino Rossi - che si dimostra ormai tanto privo delle basse arti politiche e incurante d'accomodarsi alibi e ripari da costringerci a stimare che fosse un "purissimo" in perfetta buona fede - tra le sue malefatte vi è quella di non aver voluto eleggere Vettori deputato. Per una medaglietta che... non vide, quanti sospiri e quanti guai! L'arte con cui la dabbenaggine e la bonarietà si fa, nel suo giornale, nemmeno ironia, ma atroce satira, e, se un poco il tono s'alza fino ad accennare uno sdegnoso ammonimento, crudele vendetta, è diabolica. I fascisti col giornalismo toccano le più amare delusioni; come supporre che nei sotterranei dell'addormentato palazzo Sciarra ci fossero nascoste queste tremende artiglierie?

    Non importa da che parte sparino quando colgon nel segno; e, per le funzioni della polemica, tutti gli atteggiamenti e gli accaparramenti sono leciti. Sarebbe forse più interessante domandare: chi c'è sotto? Ma forse sotto non c'è nulla. C'è la tiratura del giornale, che é una nobile e sempre rispettata istituzione e, davvero, il rispetto alla mutevole opinione pubblica; cioè il senso psicologico di non urtare i lettori, anzi d'intonare il coro più accetto. Roma che dopo le sagre resta quella di prima, e ripara al peccato di retorica con una precisa arguzia; che, senza scomporsi, sa trovare nell'anima arguta una ragione di dignità, perciò si fa inafferrabile, quasi ribelle; educata da un'esperienza così lunga e viva, magari di servaggio, ma al contatto e in cospetto d'idee e forme universali.

    La nostra coscienza però nega che questo atteggiamento sia liberale. Una delle esperienze liberali più vivaci della nostra storia hanno contribuito a stroncarla. Il testo critico del liberalismo era l'anno 1922. In questo il fascismo ha ragione. Gettar l'anatema su quegli anni del dopoguerra e rivendicar lo Statuto è un proposito senza senso - o è un tentativo d'annebbiare le coscienze e di preparare, sotto la lustra del liberalismo, altri dominii personali.





    Non mai come ora ci si può convincere che, per noi, il liberalismo é rivoluzione. Diciamo la sola rivoluzione che conti, fatta senza parate, senza urli e senza canzoni, nell'animo d'ognuno, contro consuetudini e interessi cristallizzati, lotta e conquista d'ogni giorno. I liberali in Italia non c'erano e non ci sono. L'uomo moderno, la classe dirigente, la tempra e la figura dell'uomo di Stato che non è un padrone, ma non ha da esser nemmeno un servo. A dominare, a sopportare la lotta politica degli anni scorsi non potevano venire avanti che i Bonomi e i Facta.

    Non si dice che altrove il mondo liberale sia in atto. Probabilmente è proprio il Giornale d'Italia quello che eccede nell'ammirazione per certe forme, intese staticamente, della vita politica nei paesi occidentali. Da per tutto il liberalismo, più o meno diffuso, combatte; e deve far i conti con le nuove e diverse forze che ha spronate e rinnegate. Il problema delle masse, rifuggenti al metodo e alla misura liberale, ma eccitate dallo stesso liberalismo a pigliar coscienza e farsi stato, è il problema massimo, è il tono non soffocabile della vita politica.

    Per ciò il liberalismo che ci pare vivo non è dottrinario; è un'esperienza, che si compie, prima di tutto volendo compierla. Se diciamo che è piuttosto metodo che teoria non ci pare di diminuirlo; in quanto, non irrigidito in punti fissi e precisi, impegna di più gli animi, e a ognuno s'adatta meglio; ispira educa e forma, non appreso come lezione e a scopi pratici ma vissuto; creato, per parlare romanticamente, da ogni mente che lo pensa.

    Il Giornale d'Italia potrebbe anche entrare nel variopinto novero degli oppositori; non per questo ci si sentirebbe più vicini. Crediamo che finché esso rappresenti la media mentalità borghese, ci sia un poco da disperarsi, e molto da fare per riconoscere e isolare il buono e il nuovo tramezzo alla pigrizia e all'incoscienza generale. E con questo discorso si rende alla borghesia il massimo degli onori: quello di crederla tuttora capace di farsi classe dirigente.

U. M. DI L.