UOMINI E COSE DI ROMAGNA

I.

Pascoli

    1. Quando Alberto Vedrani, da buon psichiatra, mise in evidenza le incongruenze politiche del Pascoli, non seppe altrimenti spiegarle che colla mancanza di carattere del Poeta, perché non seppe vedere in esse l'espressione d'una categoria psichica comune a tutta la razza romagnola, come invece videro il Serra e l'Ambrosini allorché rilevarono la possibilità espressiva che chiameremmo volentieri col Borgese rettorico-oratoria, tipicamente incarnata nell'Oriani, e consistente nell'"impudenza" tutta particolare colla quale il romagnolo "s'accampa in faccia a tutto il mondo senza piegare" anche se sprovvisto delle armi colle quali è necessario ingaggiare la lotta, generalmente supplendo alle lacune della sua ignoranza, colla ricchezza del suo volgare temperamento. (R. SERRA, Oriani).

    Nascono da questa "impudenza" la maggior parte delle opere storiche e di pensiero dell'Oriani, altrettanto che l'imbastitura di improvvisate rivoluzioni e di fortunate dittature.

    Non è questa però la possibilità espressiva di cui è particolare incarnazione il Pascoli, quantunque per certi atteggiamenti, quelli notati dal Vedrani, molto risenta della possibilità oratoria e sans-façon propria all'Oriani e ai demagoghi minori e maggiori.

    2. Un dato di fatto di cui abitualmente non si tien calcolo quando si vogliono giudicare gli uomini e le cose di Romagna, e che invece potrebbe render chiari molti punti oscuri, é quello rappresentato dai 300 e più anni di governo papale.

    La svalutazione sistematica delle istituzioni laiche da parte dei Legati e vice-Legati papali esclusivamente preoccupati d'assoggettare al Governo centrale gli istituti mutuati dai liberi Comuni e dalle Signorie, mirava indubbiamente ad ottenere, mediante la sfiducia dei cittadini nelle loro proprie forze, quella specie di fatalismo mussulmano che è il quietismo, consistente nella rinunzia alla lotta ed alla conquista individuale, per aspettare che dall'alto (da Roma, o dal Vescovo; dal signorotto, o da altri) piova la "grazia".





    Evidentemente, poiché i Papi non han mancato di compiere opere utili, il paternalismo pontificio doveva testimoniare la veridicità del trascendentalismo aristotelico-scolastico contro le blasfeme pretese dello spirito laico, allo stesso modo che i molti istituti di beneficenza dei Papi, eretti, avrebbero dovuto render chiara la benevolenza divina, traverso l'amore del Vicario di Cristo portato alle sue pecorelle.

    Se tanto l'assolutismo di Luigi XIV, quanto il paternalismo di Pio VI, possono discendere da questa concezione, da essa deriva anche la retrocessione del civis romanus propagatosi nel libero cittadino dei liberi Comuni, alla sudditanza dell'amato figliuolo abitante nelle Legazioni, che è per l'appunto ciò che ci interessa nella presente circostanza.

    3. Nell'animo dell'amato suddito due possibilità tipiche possono nascere capaci d'esprimere la sua schiavitù: quella offerta all'umile, al contadino, che costretto al limitato orizzonte del suo campo, quello deve amare e di quello accontentarsi; l'altra, quella offerta al cittadino (cavaliere, nobile, letterato, ecclesiastico, arcade) che obbligato a vivere sulla campagna o degli impieghi è perciò forzato a vivere la vita falsa o del cortigiano o del demagogo, secondo il variare dei tempi e del clima storico.

    L'umiltà del Pascoli (e del Moretti, potremmo aggiungere) ed il suo amore delle piccole, buone, e inutili-utili cose, non è in fondo che l'espressione della prima possibilità; all'istesso modo che la cortigianeria e il barocchismo del Beltramelli sull'Uomo nuovo, e la multicolore demagogia dei troppi uomini politici romagnoli, non sono che l'espressione della seconda.

    Appena così; i tipi tanto dell'una che dell'altra possibilità, potrebbero ancora essere simpatici per quel d'ingenuità maliziata e di singolarità pittoresca che ancora hanno; ma soltanto un passo più avanti nella pratica, allorché i primi (i contadini) diventan mezzadri e piccoli proprietari, ed i secondi (i cittadini) mediatori e bottegai, sono subito odiosi: per la loro angustia morale, e per la loro grettezza tenacemente campanilistica e conservatrice, che impedisce l'affermarsi di nuove possibilità evolutive e l'aprirsi di più vasti orizzonti sentimentali e politici.





    4. - Le lotte sostenute attorno al 1910 pel possesso delle trebbiatrici (qualunque cosa si possa pensare di questa nostra illazione pratica) possono essere un esempio per dimostrare quali difficoltà ha dovuto e dovrà ancora trovare l'introduzione in Romagna d'uno stato di fatto capitalistico e per riflesso socialista, diverso da quello piccolo-borghese e famigliare-agrario: espressione della nostra preistoria politica, del nostro tenace provincialismo, (solitamente definito con altri nomi), e infine del nostro pascolismo. Con questa parola intendiamo riferirci a quella speciale cosa che il Pascoli stesso chiamava "socialismo latino", poiché sarebbe stato preconizzato da Orazio e da Virgilio, e la cui enunciazione così spesso affiora dalle sue opere di lirica e di critica, come risulta da questi periodi quanto mai significativi, che stralciamo dal discorso La mia scuola di grammatica:

    "Il domani è incerto. Domani, chi sa? i lavoratori, cioè la massima parte del genere umano, che producono quell'immensa ricchezza che loro non tocca, vorranno ch'ella sia di tutti...". E' bensì vero che le grandi ricchezze tendono a divenir grandissime e ad accentrarsi, e domani lo Stato sarà tutto: ciò non pertanto la libertà migrerà dalla terra, ma per tornate però ad ogni modo, perché "le grandi campagne arate dagli schiavi sacri del Dio Stato, si spiccioleranno di nuovo. Dalle grandi macchine se ne genereranno molte piccole. Piacerà il lavoro domestico. L'industrie diverranno tutte arti. Ronzerà in ogni casa la macchina familiare. Ognuno avrà la sua casa, (il Pascoli si reputò felice quando poté comprarsela) che non importa sia grande; il suo bene che è bene non sia tanto" per non insuperbirne, come insegnano i suoi maestri d'economia, il mite Virgilio ed il suo Orazio, l'immortale cantore dell'aurea mediocritas.





II.

Oriani e la borghesia ghibellina

    1. Ricordate le "alate" pagine dell'Oriani sulla Via Emilia?

    Con meno lirismo si può dire che da secoli Faenza é il cuore della Romagna e il crogiuolo in cui vengono a confluire le idee per uscirne trasfigurate: qui infatti se per le vie del mare arrivano le maioliche decorate della Persia o dell'Arabia, vengono trasformate sino a perdere il loro carattere originale per diventare i capolavori di Mastro Baldassare Manara e di Cà Pirota, all'istesso modo che le idee contenute nei libri "tedeschi" qui giunti dalla Svizzera vengono trasformate nell'equilibrato sentimento artistico e politico dei suoi eruditi del 600 e nel vivo fervore d'opere e di riforme degli amministratori del secolo posteriore, raggruppati nelle accademie, non per esclusivamente cantare gli amori dei pastorelli arcadi, ma sibbene anche per agitare in esse la discussione sui problemi concreti della scienza e del bene pubblico.

    Verosimilmente come dall'aristocrazia i liberi professionisti e gli eruditi ricevevano il crisma della civile dignità, all'istesso modo che da questi ultimi la aristocrazia riceveva la sete del sapere e i doni della cultura, entrambi dai sacerdoti umanisti (che l'erudizione positivista ha confinati nel limbo infamato del cicisbeismo), ricevevano quel necessario senso d'equilibrio che doveva impedire tanto lo slanciarsi nell'orgia pazza del l'enciclopedismo unilaterale e miope, quanto nel paradossale desiderio dell'avventura così caro in quei giorni all'aristocrazia, allorché si sentiva avulsa dalla grande base d'una sua concreta funzione politica e sociale.

    2. Non ci peritiamo di affermare che dall'alveo delle accademie arcadiche è nata una considerevole parte della vecchia classe dirigente, la parte guelfa (clericale) imbevuta di cultura umanistica e volta alla proprietà agraria; mentre dalla rivoluzione francese é nata l'altra parte, quella ghibellina (giacobina) dedita ai traffici e colta alla proprietà urbana, scarsamente volta, romantica e positivista.

    E' opportuno aggiungere che queste pratiche condizioni han dato luogo alla nascita di due distinte scuole letterarie: la neo-classica facente capo allo Strocchi e raccogliente le simpatie e le adesioni dei sacerdoti letterati, della nobiltà colta e della vecchia borghesia agraria umanistica e conservatrice; a romantica facente capo a nessuno, in un primo tempo, e poi all'Oriani, e raccogliente le simpatie dei borghesi di città, dei negozianti e degli industriali, e nell'ultimo tempo di determinate categorie d'operai, riflettenti la mentalità eletta loro classe padronale, giacobina, repubblicana e materialista?





    Non ci parrebbe, ma ciò ammesso non è difficile immaginare, per spiegarla, la deleteria impressione che le sataniche romantiche e guerrazziane Memorie inutili possono avere fatto sulla accolta del pubblico faentino alieno per temperamento dai colpi di testa e dalle posizioni estreme e troppo imbevuto di cultura umanistica (vale a dire scettica) ne' suoi ceti dirigenti, e di bigottismo nelle classi inferiori, per non storpiare le pur belle pagine autobiografiche dell'Oriani fanciullo e discepolo dei Reverendi Padri Barnabiti, in una cinica confessione di scarso affetto filiale e di mancato amore materno.

    Senonché bisogna subito notare che l'ostilità più forte fu quella politica, com'è umano in una città di provincia; per riconoscere come l'Oriani fosse ancora troppo indulgente verso gli ignoranti parvenus che in varie occasioni gli si avventarono alle calcagne per morderlo e per infangarlo.

    Per uno strano destino invero così consueto all'Oriani, anche in altri campi, al figlio della signora Bertoni che discendeva da una celebre famiglia di patriotti e di giacobini, nella limitata cerchia politica faentina, toccò la sorte di rappresentare la parte del "codino" e del conservatore; mentre invece se ci fu qualcuno che rappresentasse l'incomposta anima romantica e garibaldina del giacobinismo di quei tempi, questi fu proprio l'Oriani, per cultura e per temperamento romantico e romagnolo quanto nessun altro, in tutto il suo male e in tutto il suo bene.

    3. Noi pensiamo che la limitata esperienza politica faentina, in certo qual modo abbia servito di lievito all'Oriani politico e storico dell'Italia una e monarchica, che dal vivo della lotta meschina combattuta in provincia, ha forse ritratto l'intuizione e la certezza della sua concezione militaristica monarchica e unitaria da contrapporre al frammentarismo della democrazia rivoluzionaria, invano affiorante dagli episodi insurrezionali avvenuti qua e là nel primo ventennio di governo sabaudo.

    In conclusione, come abbiamo riconosciuto nel Pascoli il rappresentante tipico della piccola borghesia umanistica (guelfa, con esigenze decentratrici), ci sembra che l'Oriani sia quello della borghesia cittadina giacobina e positivista (ghibellina, con esaltazioni imperialistiche); aggiungendo che le opere storiche dello scrittore faentino rappresentano lo sforzo maggiore ch'essa borghesia abbia compiuto per portarsi all'altezza della nuova realtà politica offertagli dal Risorgimento e dalla Monarchia.

ARMANDO CAVALLI