PAROLE E NUMERIL'episodio più significativo e che più compiutamente rivela caratteristici motivi etici dominanti, è la tormentosa foga con la quale le opposizioni si accaniscono ad inconsapevolmente conferire una relativa legittimità giuridica alla fase istruttoria del processo Matteotti, in cui, per imperdonabile errore pregiudiziale, si esaurirà o quasi, contro la stessa intenzione originaria dei denunciatori, la passione del delitto. Che se non è gran danno mettere il mondo a soqquadro per ottenere la incriminazione del maggior numero possibile di ricostruttori, allo scopo di meglio colorire i nefasti di una presunta ragion di Stato, non è certamente utile confondere i poteri della sezione di accusa con la potestà sovrana della Nazione. Noi, per esempio, avremmo considerato un ordinario e trascurabile espediente di tecnica giudiziaria la circostanza degli interrogatori, dei confronti, delle perizie; né ci saremmo comunque adontati per la permanenza del generale De Bono al comando della Milizia. Tutte ingenuità, codeste, o mal dissimulate ipocrisie, delle quali è giusto che profitti la sagacia di non pochi fascisti, per distrarre fin ch'è possibile il corso degli eventi. Se il delitto è quello che è, le dimissioni, il rimpasto, la rinnovellata velleità ricostruttrice, ci dovrebbero lasciar del tutto indifferenti. Una banda di criminali ordisce nel nome e per la salvezza della patria innominabili delitti che la coscienza della impunità e di alte connivenze consente di tramare nel palazzo del governo membri del quadrumvirato, cavalieri della resurrezione e della restaurazione del prestigio nazionale, assertori del principio gerarchico financo nel delitto, che miravano a liberare lo Stato corroso dalla tracotanza delle masnade sovversive, riscotendo giorno per giorno il prezzo del negozio, e che, a parer loro, la morale macchiavellica avendo ingentilito i costumi, si limitavano tutto al più ad infrenare la scioperataggine di pochi facinorosi. È il trionfo dell'ancien régime, dicono, la riabilitazione del giolittismo, che ebbe il merito di fiaccare i turbolenti del risorgimento, e fedele servitore della monarchia, la salvò e la valorizzò come elemento unitario della vita nazionale. Coi tempi che corrono è tutt'altro chiaro di luna calante, invece. Ma il giolittismo, quale espressione di un liberalismo torpido e corruttore, senza nulla risolvere, acuì l'asprezza del problema nazionale, favorendo artificiosamente lo sviluppo della lotta politica, senza curarsi di affrontarne la chiarificazione delle premesse. Il fascismo a sua volta, insorgendo ed impossessandosi dei poteri dello Stato, affermava, con la segreta identità dei contrarii, l'inconsistenza dello Stato medesimo. Consentiamo pure che si sia trattato di una specie di rivoluzione perché non fece certamente difetto una tal quale mentalità barricadiera, sopravvissuta nel miracolismo sovvertitore di Roberto Farinacci. Paventando le incognite di una ingiustificata repressione, certo è che Mussolini operò nel modo più pacifico la sostituzione del regime, ma non riuscì tuttavia ad impedire lo stillicidio delle violenze, sollecitato dalla mal repressa aspettazione di una seconda ondata. Combattuto e costretto fra la logica petroliera di Farinacci e l'arcadica aspirazione normalizzatrice dei revisionisti, una irresolubile crisi travaglia intanto la compagine del fascismo, già che essendo mancata la necessaria premessa della furia dissolvitrice iniziale, non la rivoluzione, incostante entità, occorreva difendere e salvare, ma sibbene una parodia di partito, che per aver mancato al suo indifferibile scopo, era inadeguatamente contenuto più che da comunione ideale di intenti, da una mezza dozzina di formule imparaticce, tolte frettolosamente in prestito e quotidianamente elaborate ed integrate da sermoni che contribuivano ad accrescere la bailamme dei propositi e degli spropositi. La necessità di una finzione unitaria di organizzazione dischiuse il ciclo dei patteggiamenti e del compromesso, dentro e fuori le fila del partito; e Mussolini, reggendone i numeri e scompigliandoli, o dichiarandosi estraneo ai rivolgimenti che in esso si succedevano senza posa ad ogni evento che consigliasse nuove revisioni di valori e di direttive, ha ostacolato la spontaneità dei processi di chiarificazione della situazione. Ma nel tempo stesso, per ottenere uno stato di quiete e di consolidamento presso che definitivo, sacrificando sostanzialmente alle proprie fortune il moto fascista, fu costretto a giocar di bussolotti fra la carta statutaria e le possibilità minacciose della inesorabile seconda ondata, onde le lingue si confusero ancor più, e lo spirito municipale, rotte le sottili scorie dello Stato ed affiorando con rinnovellata gagliardia, inferisce il nuovo paradosso che fatti gli italiani resti oggi più che mai insoluto il problema di rifar daccapo l'Italia. E prescindiamo pure dalla capacità ricostruttrice di una fazione che proclama la necessità di una gerarchia atta a valorizzare ed a moralizzare l'Italia; perché se Mussolini riteneva per fermo di poter governare a suo talento per sessant'anni almeno, di siffatta curiosa convinzione non c'era che lui, e gli altri, per tema di arrivare in ritardo, o per sfiducia negli indefettibili destini, si sono unicamente affrettati a sistemare le proprie incerte fortune. Augusto Monti vedeva giusto quando asseriva che si sarebbe difficilmente scosso il termine della dominazione fascista provocando con la mentalità di altri tempi scandali e rumori interno alle malefatte dei ricostruttori, che ne dovevano altezzosamente sorridere di sopportazione. In così buona compagnia ed in tanto decadimento di senso morale, che altro avevano da temere di una punzecchiatura, anche se valida in altri tempi meno leggiadri a covrir di vituperio un parlamento, un governo, un regime? Dopo un mese di accapigliature e di scapigliature giornalistiche, caduta ignominiosamente dal volto dei santoni la maschera, nulla o quasi nulla è mutato; anzi osiamo di affermare che come entità rivoluzionaria, straniata fin che si vuole dalla coscienza nazionale, il fascismo è oggi più saldo e più forte di prima. Le opposizioni hanno polemizzato troppo da pari a pari, hanno discusso, negato, ritrattato, hanno infine riconosciuto che tutto si sarebbe potuto felicemente appianare, mandando a casa la milizia, restaurando il principio di eguaglianza fra i cittadini dello Stato, e revocando, perché niente meno che incostituzionale, l'editto sulla stampa. Quante cose, quanto garibaldinismo... E poi, a conforto, si son persino tirati in ballo la carta albertina, i diritti dell'uomo, incomodando la maestà del re, lo statuto ed altre simili baggianate, che il governo può ben sorridere di averla passata liscia. Ma c'era qualcuno il quale riteneva davvero possibile che il fascismo si decidesse a mutar registro, e convinto di abiura e di dolo, abbandonasse il potere? L'opposizione deve sapere che attraverso la tumultuosa canea delle rivelazioni e delle pietose indiscrezioni mira più in alto, tende a vulnerare il cuore del regime; come se il torto del medesimo fosse quello di aver elevato alle supreme dignità un pò di canaglia, e non già quello di aver sconvolta irreparabilmente la vita nazionale, e senza saper lui stesso a che miri, aver contraffatto per incapacità ed immaturità storica i cardini di quello Stato contro la inettitudine del quale aveva furoreggiato prima della marcia di Roma. E pensate che taluni gonfi di rettorica e di pietismo hanno persino esultato al pensiero che non uno si sia prestato a difendere innanzi ai giurati Amerigo Dumini, quasi che le colpe del delitto si assommassero in lui, simbolo di inaudite efferratezze; laddove se nella banda c'è un fanatico, che con una certa abnegazione rivoluzionaria si è prestato senza prezzo a colpire i designati, quest'uno è Dumini. Il genio del male risiede in ben altre responsabilità. Responsabilità che vanno più in là del regime, e suonano non solamente condanna di una ideologia o di un metodo, ma bensì monito imperioso alle opposizioni, che, per rifarsi della vergogna patita in seguito al colpo di mano fascista, si sforzano di conferire al così detto cartello delle sinistre il carattere di una sacra rivolta ideale. Ma domani? L'antifascismo di certuni dissimula visibilmente un'astiosa gelosia di mestiere che solamente la brama di spartir la spoglia dei dominatori riesce oggi a contenere. È vero che si va creando nel Paese una coscienza nuova, estranea alle pedanterie del passato, ed ostile per temperamento e per educazione culturale e politica al fascismo. Ma non ne ripeterebbe gli errori, qualora riuscisse ad accaparrarne la eredità, agli occhi della invida bramosia costituzionalisteggiante dei superstiti dell'ancien régime? Per i più astuti, la salvezza è ancora oggi in un giolittismo rimodernato! Dopo di che resterebbe privo di ogni benefizio, se non di ammaestramenti qualsiasi rivolgimento passato o presente; fino a quando i principii di più civili rivendicazioni non si polarizzeranno intorno ad uomini che bandendo le rare formule della libertà e della dignità, personificheranno principii reali e concreti di bene intesa valorizzazione. Ma sarebbe poi tutto o non avrebbe in effetti l'aria e la significazione di un ripiego, che non si sa perché dovrebbe essere preferito all'esperimento di Mussolini e del suo dominio fazioso? Il problema da risolvere non scaturisce che parzialmente da elementi politici ed economici ed in quanto vi si riflette un complesso di circostanze che trascendono l'attività dello Stato. Rovesciare i termini dell'educazione, bisogna. Per far l'Italia, o quasi, occorse dire e far credere che immensa e tremenda fosse la sacra missione imposta a noi dalla storia, e popolo sublime di eletti e di illuminati fosse il popolo italiano, viziato invece di cortigianeria e retorica, di mandolinismo macchiavellico in politica, e di grotteschi ciceronismi in arte. Sostituire i numeri e la loro realtà agli inganni di cui ci siamo lungamente pasciuti, esultando al miracolo delle Canzoni d'oltremare, montando in boria per le laudi degli eroi del cielo, del mare e della terra. Cade oggi, con il doloroso esperimento fascista, il crepuscolo dell'eroismo e delle parole grosse. Questo è il gran torto del fascismo, di comprensione e di valutazione storica, che impersonò, senza necessità dialettiche ma per incomposta vanità, i mali di una generazione cullata al ritmo dell'inno di Mameli e dell'Internazionale, mutevoli diane di accecamento e di esterminio. Nella lusinga di imporre al mondo il riconoscimento della nostra grandezza si accorge via via il fascismo che tutto è da rifare, e che l'unità della patria non si compie apprestandole nuovi e sanguinosi confini, od organizzando sagre, per magnificar le forche ed il sindacalismo integrale. Le metafisiche dell'esaltazione retorica di ogni tinta sono perditempi e vanaglorie da nulla. Spogliarsi di orgoglio, bisogna, e di cialtroneria. E poi, numeri, numeri, numeri, e un bagno freddo di verità. "La parola della verità è come aratro che strazia e feconda la terra". Se non è già troppo tardi, forse, per turbare la inconsapevole beatitudine di un popolo. LUIGI DE FILPO
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