Lettere dalla RomagnaREPUBBLICANI E FASCISTIIl fascismo in Romagna é un genere d'importazione. Non è nato da un bisogno di reazione contro la mitica "degenerazione bolscevica" che non c'è mai stata per la lotta dei partiti vicendevolmente equilibrantisi colla critica e col liberismo sindacalista; e non è sorto quale espressione d'una milizia di classe, poiché nel 1919 l'Agraria era già organizzata e la piccola proprietà pure, nei partiti repubblicano e popolare (clericale); ambidue schierati contro la massa del bracciantato, il quale, pel fatto solo della grande quantità de' suoi componenti costretti a trovar lavoro nello sfruttamento della terra, costituiva un serio pericolo per la piccola proprietà agricola. La lotta per la conquista delle trebbiatrici è appena uno degli aspetti della lotta a coltello che dall' '80 le organizzazioni operaie sono costrette di combattere contro la piccola borghesia repubblicana, che in Romagna rappresenta il fior fiore dell'equivoco e del conservatorismo, la più potente diga contro l'avanzare del socialismo e dell'industrialismo, e di conseguenza il più potente ostacolo contro il progressivo avanzare delle masse dallo stato di sudditanza; poiché i repubblicani nel loro odio di piccoli borghesi toccati nell'interesse non hanno mai voluto capire che la lotta di classe era ed è scuola di dignità civile e di libertà: per lo meno quanto l'insurrezionismo dei rivoluzionari vecchio stile, la cui privativa han sempre rivendicato, traverso la discendenza del Mazzini. Capovolta la posizione del repubblicanismo da rivoluzionaria a conservatrice, ci riesce meno difficile di capire la lotta politica romagnola. Uno sguardo retrospettivo ce la chiarirà ancor meglio. E' noto che i signori di Romagna (i proprietari) specialmente agricoli, come in altre regioni, poco o nulla hanno contribuito alla formazione unitaria dell'Italia, per diverse ragioni, ma specialmente per neghittosità e per misoneismo. I borghesi che v'han contribuito non eran proprietari, ma professionisti: avvocati, professori, dottori, intellettuali insomma, che nulla avevan da perdere ma tutto da guadagnare coll'avventura patriottica. Furor costoro che ad unità conseguita ed a vanità non soddisfatta, formarono i quadri direttivi del partito repubblicano. E' nato in quel tempo il mito postumo del garibaldinismo, il quale, come oggi il combattentismo, fu l'arma di difesa ed il ricatto dei cattivi italiani contro la patria; e da allora son cominciate le litanie sull'inesistente eroismo, e sugli eccelsi meriti dei volontari garibaldini che la Monarchia avrebbe traditi nelle loro aspirazioni più care: la repubblica, e l'instaurazione del più perfetto ateismo colla soppressione della Chiesa Cattolica "madre d'ogni schiavitù". Da ciò il mai smentito rivoluzionarismo pesca-nel-torbido dei repubblicani e il loro anticlericalismo, ma da ciò anche e dall'abbandono dell'ideale mazziniano il fatale e progressivo cadere nell'ampie braccia della Massoneria. Questa non piccola quantità di gente, per correre dietro ai fantasmi d'una vuota ideologia, sembrava volesse per ciò ignorare la realtà che frattanto urgeva e che si faceva sentire colla miseria e colla disoccupazione. Subito dopo l'unità, la neghittosità dei signori si tramutò in aperta sfiducia verso il nuovo governo non sorto da una rivoluzione oppure dal loro sforzo; e questa sfiducia ebbe la sua espressione nel chiudersi che i proprietari fecero in loro stessi, e nel negare ai braccianti il lavoro: il che determinò, colla disoccupazione, la crisi economica e, in parte, la carestia: occasioni tutte delle sollevazioni popolari contro il caro-viveri (1872) e contro il Governo, capitanate dagli elementi socialisti (internazionalisti) che da allora cominciarono a farsi valere in seno alla massa. Furono questi elementi il primo nucleo del partito socialista romagnolo, ed ebbro per loro capi Andrea Costa, Gaetano Zirardini e Nullo Baldini. Lo sfruttamento delle periodiche agitazioni popolari fu presto lasciato agli internazionalisti seguaci di Bakounin ed ai repubblicani, i quali furono perciò tagliati fuori dal lavoro di organizzazione proletaria, che cominciò attorno al 1880 ed ebbe subito l'ostilità dei borghesi e dei repubblicani. Un altro fatto cui sinora si è fatto poco cenno è quello relativo all'introduzione delle ferrovie. Prima del 1859 la Romagna era un assieme di popolose borgate aventi ognuna la fisionomia di centri commerciali, nei quali convenivano i prodotti delle città vicine, ed a cui la lentezza dei primordiali mezzi di comunicazione favoriva il fluire di considerevoli cespiti di ricchezza. Gli alberghi pullulavano e prosperavano nel continuo movimento da paese a paese, per l'arrestarsi forzato dei viaggiatori; le scuderie, le rimesse, i magazzini di deposito eran sempre pieni, causa il lento ma non interrotto passaggio delle merci e delle derrate; i negozi anche nelle più piccole borgate facevano buoni affari. Vi era insomma tutta una popolazione di vetturali, di albergatori, di piccoli negozianti, i quali vivevano agiatamente del loro lavoro, e accanto a questa massa fluttuante tutto il personale complementare necessario alla traduzione delle derrate dal produttore al compratore. Bisogna subito notare che questa popolazione di vetturali, albergatori, negozianti ecc., di piccoli borghesi urbani insomma, era nella sua più gran parte repubblicana, come repubblicano era il personale da essa dipendente, gli operai della città, che coll'introduzione delle ferrovie vennero a trovarsi sul lastrico. I centri commerciali dalle borgate popolose vennero spostati nelle città facenti capo alle linee ferroviarie: i traffici furono concentrati ad Ancona ed a Bologna; e la Romagna per un periodo discretamente lungo - sino a quando cioè per l'acquistata fiducia dei signori, i capitali cristallizzati nella proprietà fondiaria non ricominciarono a fluire e ad essere impiegati nell'industria (1) - rimase in balia della disoccupazione e della rivolta, in basso, e della demagogia e della retorica, in alto, cioè negli strati professionali i quali naturalmente e per ragioni non sempre pure tenevano vivo il malcontento popolare, per ricavare da esso una forza di cooptazione contro il Governo ed un piedestallo elettorale. Abbiamo con ciò schizzata la fisionomia della Romagna repubblicana di 40 anni fa: della sua arbitrarietà e negatività; e ci basterà aggiungere che nessun partito s'è mai con più tenacia abbarbicato alle Provincie ed ai Comuni per distribuire ai suoi adepti posti e favori, per capire il protrarsi di esso sino ai nostri giorni. E' un fenomeno di succhionismo rivoluzionano quello che abbiamo osservato, e non è molto dissimile da quello fascista di cui è padre. In Romagna il Fascismo s'è prima manifestato come combattentismo. "Se il Governo ha voluto che noi facessimo la guerra, non può oggi abbandonarci: posti vogliamo, onori, soldi e medaglie". Quindi la conquista tentata dei Comuni, quindi le agitazioni pro-mutilati e combattenti, quindi l'assalto alle organizzazioni per trovare in esse le ultime prebende. Tutto questo fatto con un istintivo sistema, tendente ad allontanare dalla vita amministrativa ogni criterio selettivo, nonostante il demagogico vociare d'instaurazione delle gerarchie. Nel combattentismo la media cultura uscita dagli istituti tecnici e dalle scuole medie trovava il passaporto ed i titoli gentilizi per la via dell'impiego; allo stesso modo che nel garibaldinismo i repubblicani d'una volta avevano trovato i titoli per carpire cattedre ed impieghi, anche se appena alfabeti. Collo stesso fatto si ripeteva lo stesso fenomeno: nella retorica finiva anche oggi il radioso-maggismo interventista, nel trionfo dell'ignoranza e della mediocrità sboccava anche oggi l'esaltazione combattentista; come nell'anticlericalismo stile Umberto I° era ieri sbocciato il garibaldinismo. Così, grazie al nuovo bel tenebroso del romagnolismo, siamo ritornati indietro di 50 anni, con questo di peggio che anche le organizzazioni operaie sono inquinate dalla demagogia e devastate dal farabuttismo. Non sono più gli organismi rivoluzionari di classe dei primi tempi, o gli organismi industriali di prima della Marcia su Roma; ma una povera cosa striminzita e logora, ed una buia fabbrica di voti e di odii; o, peggio ancora, un postribolo nel quale i caratteri vengono distrutti e resi inutili. I risultati delle elezioni son là per dimostrare la nostra asserzione: la più parte dei voti socialisti e comunisti sono stati dati dagli organizzati dei sindacati nazionali; cosa che fa discretamente pena e paura, perché non solo dimostrerà che il fascismo è stato un esperimento inutile, ma che gli operai sono invasati da una specie di muto furore contro gli oppressori della loro libertà ed i concussori della loro ricchezza: furore che non è certamente la violenza sorelliana del proletariato organizzato, ma lo spirito di vendetta del plebeo. Nenni perciò, e con lui gli altri socialisti umanitari ed anarchici, non è improbabile che siano ancora gli uomini del domani; come lo potrebbero essere quei repubblicani che si sono ora riaccostati ai fascisti per insufflar loro di nuovo il famoso tendenzialismo. Contro queste due possibilità noi dobbiamo però senz'altro schierarci, se non vogliamo fra pochi anni aver di nuovo a che fare con un fascismo di nuovo genere, e perché la minaccia repubblicano-fascista scompaia è necessario che la realtà dei fatti sia riconosciuta e praticata dalla nuova classe dirigente, la quale, ferocemente anti-retorica non dovrebbe più aver paura né della lotta di classe né del decentramento amministrativo, né dell'industrialismo, né del liberismo, e dovrebbe sin da ora esser formata da quegli elementi selezionati e nuovi che in questi quattro anni di martellamento fascista si sono preparati e rivelati. Questa è la rivoluzione liberale che auspichiamo e prepariamo. ARMANDO CAVALLI
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