LO STATO PARTITO

    Con l'attuale crisi politica e con i rimaneggiamenti teorico-pratici che il partito dominante è costretto a fare, si può dire sia segnato in maniera assolutamente inequivocabile il crollo dello Stato-partito in Italia.

    Sorto nella concezione teorica del trapasso sociale, come l'unica forma di organizzazione rivoluzionaria, che possa garentire le masse dai ritorni reazionarii, lo Stato-partito è forse un mito nel senso soreliano della parola, cioè un fatto sociale che, il giorno in cui si rendesse veramente possibile, sarebbe effettivamente divenuto inutile.

    Ma, più ancora che per la sua inutilità, costituente l'essenza del mito, lo Stato-partito è forse inconcepibile per la sua teleologia messianica, che è costretta a porre, dolo la sublimazione della lotta, la fine della lotta, dopo la guerra sociale la pace sociale, arrestando così la propria dommatica ricostruttiva alle porte della vita, che è lotta eterna, destinata a rendere illusorio ogni trionfo, instabile ogni conquista, contingente ogni equilibrio, e che appunto, nel continuo porsi delle cause e degli effetti, trova le ragioni del susseguirsi di sempre nuove armonie.

    La teoria dello Stato-partito, dunque, è fortemente contraddetta da obbiezioni che muovono contemporaneamente dal terreno del liberalismo e del marxismo e che si sforzano di segnarne la inutilità sia nel periodo dei conati rivoluzionarti sia in quello della catastrofe finale.

    Tuttavia la prassi dello Stato-partito, non si arresterà ai due ultimi esperimenti, russo ed italiano, ma si riprodurrà continuamente per la stessa ragione che realizza frequentemente l'irrazionale nella storia.





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    Specialmente nel campo delle nazioni aventi organizzazione precapitalistica, questa dottrina dello Stato-partito, essendo assunta in funzione, più che della lotta, della violenza della classi, è destinata ad essere utilizzata, volta a volta, dall'una o dall'altra parte e cessando di essere specifica arma di conquista di una classe rivoluzionaria, svela la sua intima essenza arti-libertaria ed anti-sociale attraverso le utilizzazioni reazionarie piccolo-borghesi.

    Ma anche nel campo della conclamata rivoluzione proletaria lo Stato-partito è un'organizzazione giacobina e non sociale di governo, che il più delle volte sotto iridescenti formule verbali rinserra funzioni e realizzazioni puramente capitalistiche.

    Così in Russia lo Stato-partito, sovrapponendosi al sistema soviettista, mai vivificato dalla linfa popolare, e riproducente il difetto caratteristico di tutte le costituzioni preliberali d'istituti giuridici formali vuoti di contenuto umano, è riuscito a nient'altro che ad assicurare, attraverso deviazioni indubbiamente fatali, l'uscita della Russia dalla organizzazione feudale e la sua entrata nel giuoco del capitalismo mondiale, così come la stessa critica socialista ormai non nega.

    Nessuno certamente vorrà disconoscere la grande importanza di questa funzione economico-politica esercitata dalla rivoluzione russa, e la fatalità dei suoi atteggiamenti giacobini, dipendenti appunto dallo sviluppo del processo rivoluzionario, ma nessuno, del pari, potrà disconoscere il fallimento dello Stato-partito inteso come organo di trasformazione comunista.

    Forse questo fallimento involge la completa sconfitta delle dottrine volontariste e degli schemi ideali precostituiti, e dimostra che la Russia ha fatto una rivoluzione di tipo borghese, ma indubbiamente in tutti i conati pre-comunisti la dottrina dello Stato-partito fallisce il suo scopo, e, pur dimostrandosi con i suoi risultati efficace organo di generiche realizzazioni rivoluzionarie, è assai lungi dal condurre alle risoluzioni prestabilite.





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    Questo insuccesso è divenuto assai più caratteristico in seguito all'esperienza fascista. Per quanto i teorici nazional-fascisti non si siano mai resi sufficientemente conto del dualismo insanabile esistente nel loro partito tra le masse incapsulate nelle corporazioni e gl'interessi padronali, specialmente agrari, da cui il fascismo è stato sollecitato e prodotto, tuttavia non ci pare dubbio che se lo Stato fascista deve avere un significato, questo significato non può essere altro che quello di una dittatura incontrollata ed incontrollabile della classe borghese sulle altre.

    Ecco, dunque, che la prassi comunista dello Stato-partito si rovescia completamente, e mentre in Russia viene utilizzata da un partito proletario per sviluppare le condizioni storiche della rivoluzione capitalista, in Italia è sfruttata da un nucleo di ex-socialisti rivoluzionari per assicurare ristretti ceti parassitari contro la rivoluzione dei partiti in marcia.

    In entrambi i casi lo Stato-partito è un meccanismo reazionario, che ostacola il successo delle forze reali, e determina un lavorio in pura perdita: corrisponde ai preconcetti dei condottieri e non alla reale condizione delle masse: forse potenzia, per virtù di contrapposto, le vere e sostanziali forze rivoluzionarie del paese, che gli sono contro, ma non è esso stesso l'organo della rivoluzione, come pretendono i suoi autori.





    In Russia doveva soccombere e soccomberà sia perché non corrisponde alla costituzione dei Soviety, che formalmente è una costituzione democratica, sia perché nessuna teoria politica o forza umana poteva impedire ai contadini russi, che sono la stragrande maggioranza della popolazione, di creare le piccole proprietà. Basta leggere la storia della divisione delle terre, dei Comitati dei poveri e le sollevazioni agrarie, di cui è stato teatro la Russia durante gli ultimi anni, per comprendere a quale fantastica distanza ci troviamo sia dal comunismo teorico che dalle sue escogitazioni formali.

    In Italia egualmente doveva soccombere e soccomberà per un complesso di ragioni economiche, sociali e politiche, che occorre brevemente specificare.

    Anzitutto la costituzione economica italiana è ben lungi dall'aver prodotto una classe capitalistica ben selezionata e cosciente del suo compito economico nel processo della produzione. La plutocrazia italiana è, in gran parte, di origine parassitaria ed affaristica, e non ha, perciò caratteristiche di classe ben definite.

    Di più i nuclei plutocratici sono una esigua minoranza rispetto al rimanenente dei ceti medio e piccolo-borghesi, che costituiscono l'impalcatura sostanziale della società italiana.

    Quindi mentre una dittatura di plutocrati non può reggersi se non quando si serva di altre classi, il tentativo della dittatura dei medio e dei piccoli borghesi non può farsi che all'infuori dello Stato-partito, attraverso il trasformismo giolittiano, costituendo, implicitamente, un primo tentativo di democrazia.

    Tutto ciò spiega perché lo sforzo del Salvatorelli di teorizzare il fascismo come lotta di classe della piccola borghesia può considerarsi fallito.

    Ma la ragione sostanziale del fallimento dello Stato fascista in Italia deve ricercarsi più che in altro nell'illogicità del fine e nell'equivocità della tattica adoperata per realizzarlo.





    Non è possibile suppore, nemmeno in sede di romanzo politico, che la dittatura di classe sia per la borghesia il miglior modo per tutelare definitivamente i proprii interessi economici perché, in tal caso, la dittatura di classe sarebbe già da tempo il sistema abituale di governo del regime borghese.

    E' perfettamente inutile soltanto accennane alla stretta connessione che vi è tra il sistema delle cosiddette libertà economiche e quella delle libertà politiche.

    Basta, invece, affermare che solo eccezionalmente ed in regime precapitalistico la borghesia parassitaria è portata a riforme dittatoriali.

    Quindi, mentre la dottrina dello Stato-partito ostacola, queste necessità vitali della borghesia e spostando la lotta politica sul terreno della violenza rende più precario l'equilibrio borghese, le necessità economiche dei ceti che controllano la produzione debbono costringerli a distruggere formalmente la loro stessa creazione.

    Ma sopratutto lo Stato-partito in Italia apparirà uno sterile mimetismo quando si consideri che il partito dominante non ha mai nemmeno tentato di distruggere la costituzione fondamentale del Regno.

    Andato al potere per appoggio dei ceti dirigenti e delle caste militari, investito dal sovrano come un presidente qualsiasi, l'on. Mussolini non poteva più fare lo Stato-partito per la stessa ragione che egli aveva accettato l'investitura del cosidetto Stato di tutti.

    L'incompatibilità della coesistenza dei due sistemi, l'illusorietà sostanziale del sistema giacobino, e la necessità del trionfo del buon senso apparvero logicamente agli occhi degli italiani quando il Duce del Fascismo, inchinandosi ai piedi del Trono disse la frase storica: "Maestà, io vi porto la generazione di Vittorio Veneto".

    Da quel momento lo Stato-partito esistette nella fantasia dei numerosi imbecilli ed avventurieri che si occupano di politica ma non nella realtà.

    Se la consueta farsa politica italiana fosse qualche cosa di diverso dal solito tessuto di incongruenze si potrebbe dire che lo Stato-partito in Italia non è esistito mai.

    E' esistito soltanto l'on. Mussolini che portò ai piedi del trono una generazione di retori per avere l'investitura di primo ministro.

GUIDO DORSO